SUI PARTITI DI MASSA
di STEFANO D’ANDREA
Oggi non esistono partiti di massa, in nessuna parte del mondo.
Non esistono partiti con masse di militanti. Al più esistono partiti con pubblici composti da decine o centinaia di migliaia di iscritti o simpatizzanti, che partecipano alla convention o applaudono il candidato presidente.
Già questa semplice constatazione dovrebbe indurre le persone sensate a non impegnarsi in una impresa impossibile, salvo presunzione stratosferica. Eppure, dinanzi a chi propone di dar vita a partiti di massa, vedo poche persone che sorridono con sufficienza e considerano chi fa simili proposte un deficiente presuntuoso, insomma un chiacchierone.
Ma sono poi utili i partiti di massa? Perché se non sono utili allora non sono nemmeno desiderabili (oltre a non essere possibili in questa fase storica, che già di per sé dovrebbe bastare a chiudere il discorso, se volto all’azione).
Quale sarebbe la loro utilità rispetto ad un grande partito (non nel senso di partito grande ma di partito di valore) che non sia di massa? Quale il valore aggiunto?
Intanto, ai partiti di massa erano iscritti milioni (poi centinaia di migliaia) di persone che non svolgevano alcuna attività politica. Erano parenti, amici, estimatori, clienti, questuanti petulanti, votanti, cortesi o poco sinceri vicini di casa di iscritti che invece svolgevano attività.
Perché sarebbero utili questi iscritti?
Una delle (tante) ragioni della decadenza dei partiti di massa è stata che erano divenuti, chi più chi meno, partiti dei signori delle tessere. Ora il fatto che in un partito una persona conti – poco o tanto – per il fatto che faccia tante tessere è di per sé un fatto negativo, distorsivo del giusto funzionamento della selezione della classe dirigente.
I voti che l’iscritto prende alle comunali sono già un elemento molto più indicativo, sebbene alcuni prendano voti perché signori delle tessere. Non si tratta di prendere tantissimi voti ma di prendere un certo numero di voti, che testimonino che parenti, amici delle elementari, delle medie, delle superiori, dell’università, del quartiere, vicini di casa, amici di famiglia, clienti lo stimino. Di per sé il criterio non significa nulla ma – prendere un minimo di voti – va considerato un elemento necessario, anche se non sufficiente. Perché se non ti stima e vuole bene nessuno, o quasi nessuno, tra coloro che ti conoscono bene, una ragione ci sarà. E una organizzazione razionale ne deve tener conto, nel selezionare i dirigenti. Ma il fare tessere di per sé è quasi un elemento negativo, comunque certamente non positivo.
Qual è dunque l’utilità di avere tanti iscritti? Certo, man mano che il partito cresce in voti, deve avere una classe dirigente di valore diffusa, nei territori. Ma questa classe dirigente, inizialmente territoriale, un partito che esiste e che è in Parlamento, la può formare, sottoporre a prova, e testare. Ne ha la possibilità e ha anche il poco denaro che serve, per questo e altri scopi simili. Non mi sembra dunque che di per sé l’ampio bacino di iscritti significhi migliore classe dirigente.
E un partito, sia chiaro, è un’associazione che seleziona, tra coloro che hanno (o affermano di avere) certe idee, la classe dirigente al livello di quartiere, di municipio, di comune, di provincia, di regione o nazionale.
Considero il rimpianto dei partiti di massa, o il desiderio di ricostituirli, privo di senso e l’impegno a dar vita ad uno di essi, prova irrefutabile che la persona in questione è un presuntuoso chiacchierone (tutti i chiacchieroni sono presuntuosi): un quaquaraqua, categoria che giustamente Don Mariano (e quindi Sciascia) collocava più in basso dei mezzi uomini, degli ominicchi, e addirittura dei pigliangulo.
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