Dalla guerra del mercato globale alla pace delle economie protette
di Stefano D'Andrea
1. In un recente articolo, Emiliano Brancaccio ha sottolineato l’ennesimo ritardo dei socialisti e dei comunisti. Il ritardo consisterebbe nel non aver compreso che l’apertura “indiscriminata” dei mercati comporta innumerevoli conseguenze negative. In particolare, da un lato “I dati segnalano che la globalizzazione dei mercati indebolisce i lavoratori in tutte le fasi del ciclo capitalistico, sia nel boom che nella recessione”; dall’altro, la globalizzazione dei mercati comporta una “concorrenza fiscale tra paesi”, con la “conseguente crisi di finanziamento dello stato sociale”.
Posto che la globalizzazione dei mercati comporta le indicate conseguenze, “è curioso”, osserva l’autore, “che soltanto il movimento di Seattle, pur tra mille contraddizioni e ingenuità, si sia posto in questi anni il problema di trarre un abbozzo di critica della globalizzazione. Al contrario tra gli eredi della tradizione del movimento operaio sembra prevalere da tempo una sorta di liberoscambismo acritico, talvolta addirittura apologetico”.
Ora però, il problema di mettere in discussione il liberoscambismo internazionale si pone, perché “La crisi economica mondiale ha infatti scatenato un conflitto intercapitalistico tra liberoscambisti e protezionisti che durerà a lungo e che è destinato a mutare profondamente il corso degli eventi”. “Di questo scontro si sono accorti un po’ tutti: i movimenti neo-nazionalisti, così come le leghe. Al contrario i socialisti e i comunisti, e più in generale gli eredi delle tradizionali rappresentanze politiche e sindacali del lavoro, appaiono su questo tema silenti, estraniati dal dibattito”.
Preso atto della nuova situazione ed espressa la convinzione che è necessario superare il “ritardo” dei socialisti e dei comunisti, Brancaccio si chiede se è possibile “individuare una proposta che consenta di elaborare un autonomo punto di vista del lavoro sullo scontro in atto” e poi avanza una ipotesi: “L’idea di condizionare i movimenti internazionali di capitali e di merci al fatto che i vari paesi rispettino un comune “standard del lavoro” è una delle opzioni possibili”. Pur aggiungendo che “prima di approfondire le questioni tecniche, occorre che maturi una consapevolezza politica: se non si mette in discussione l’indiscriminata apertura globale dei mercati, difficilmente si verranno a creare le condizioni per un effettivo rilancio del movimento dei lavoratori”.
2. L’articolo di Brancaccio, che contiene la confessione di un errore teorico e politico gigantesco – errore nel quale lo scrivente, voglio precisare con orgoglio, non è mai caduto, pur provenendo dalla tradizione comunista e dichiarandomi fieramente socialista (per me il termine comunismo, qualunque significato ad esso si voglia attribuire, resta incompatibile con l’ammissibilità della proprietà privata dei mezzi di produzione) – solleva una pluralità di temi e perciò, come conviene l’autore, è soltanto il punto di avvio di una più articolata e approfondita riflessione, che deve rispondere a molte domande. Ne formulo alcune, soltanto accennando alle possibili risposte.
Come si spiega l’ultraventennale errore suicida dei socialisti e dei comunisti dei paesi economicamente sviluppati? Come mai, insomma, socialisti e comunisti, nei paesi economicamente sviluppati, hanno accolto un presupposto che avrebbe logicamente condotto all’abbassamento del livello della tutela e del salario? Provo a ipotizzare alcune possibili ragioni ideologiche dell’errore. Puerile cosmopolitismo? Peggio ancora buonismo? La convinzione di essere cittadini del mondo? La presunzione di voler “globalizzare i diritti” che spinse tanti giovani a definirsi new global, anziché no global? Fanciullesca e storicamente del tutto infondata e ingiustificata esclusione a priori dell’ipotesi protezionistica perché troppo in odore di fascismo? Tutte queste ragioni messe assieme?
Con la formula “conflitto intercapitalista tra liberoscambisti e protezionisti” Brancaccio designa un conflitto tra lavoratori e cittadini dei paesi economicamente sviluppati, da un lato, e lavoratori e cittadini dei paesi in via di sviluppo o emergenti, dall’altro? E designa anche un conflitto fra lavoratori e cittadini di stati entrambi economicamente sviluppati o emergenti? Se le risposte sono positive, per quale ragione chiamare quello che sarà, a tutti gli effetti, un conflitto tra Stati e fra popoli, conflitto intercapitalistico?
La globalizzazione colpisce tutti i cittadini in linea generale (via dumping fiscale che provoca la crisi fiscale degli stati e quindi il collasso del welfare e dell’apparato pubblico), e, in via specifica, i lavoratori del settore pubblico degli stati economicamente sviluppati (che rischiano riduzioni degli stipendi, blocco degli scatti, ecc.), i lavoratori subordinati del settore privato, e persino i commercianti e tutti gli autonomi che soffrono il calo della domanda interna a causa dell’aumento della disoccupazione. Insomma, ci sono popoli che stanno scoprendo di non avere alcun interesse a commerciare liberamente con altri popoli, almeno relativamente a taluni settori commerciali. E sia chiaro che non si tratta soltanto di tutela del lavoro subordinato. A parte che la tutela del lavoro subordinato, ottenuta con il dazio o l’aiuto di Stato, è sempre tutela anche del capitale, quando scopriamo che in Italia mangiamo enormi quantità di pomodori cinesi, ci rendiamo conto che ragioni di dignità, senso pratico, senso del ridicolo, controllo della qualità dei cibi, tutela dei contadini e dei braccianti impongono di dire basta.
Quando Brancaccio scrive che “I dati segnalano che la globalizzazione dei mercati indebolisce i lavoratori in tutte le fasi del ciclo capitalistico, sia nel boom che nella recessione”, siamo sicuri che egli non si riferisca ai soli “lavoratori subordinati” dei paesi economicamente sviluppati? Domenico Losurdo e Wladimiro Giacchè nelle loro note tratte dal recente viaggio in Cina hanno descritto una realtà del lavoro subordinato che non credo fosse quella di dieci anni fa. Dunque l’apertura indiscriminata dei mercati ha beneficiato alcuni operai (cinesi, per esempio) e danneggiato altri operai (Italiani, per esempio), così come ha agevolato parte del capitale italiano (quello che è espatriato in Cina a produrre per poi “esportare” in Italia, per esempio) e ne ha danneggiato altro (quello che è rimasto in Italia tentando la resistenza, per esempio).
Chi è che proteggerà i lavoratori italiani dal liberoscambismo? Dove si trova, insomma, la possibile tutela del lavoro subordinato e autonomo e dei cittadini tutti? Nell’ordinamento giuridico dello Stato italiano? O nell’Unione Europea? A tacere di altri profili, la Fiat deve essere libera di delocalizzare in Polonia? Le nostre aziende di allevamento di animali bovini devono continuare a chiudere o trasformarsi in aziende di importazione di bovini rumeni?
Siamo proprio certi che sia necessario elaborare un autonomo punto di vista del lavoro (subordinato)? Per quale ragione comunisti e socialisti dovrebbero disinteressarsi degli allevatori italiani, parlo di quelli che abbelliscono le nostre montagne lasciandovi pascolare le mucche, e che lavorano almeno quattordici ore al giorno per sei giorni a settimana, i quali stanno chiudendo in numero crescente perché costretti “dalla troppa concorrenza” (hanno la terza media, ma sanno qual è il killer che sta tagliando la loro pelle) a vendere un vitello al prezzo di cinquecento euro?
Siamo proprio certi che l’idea di condizionare i movimenti internazionali di capitali e di merci al fatto che i vari paesi rispettino un comune “standard del lavoro” sia una delle opzioni logicamente praticabili? A me sembra di no. Non riesco a capire per quale ragione un popolo di mingherlini e/o dotato di basso livello di tecnologia dovrebbe accettare di dover chiudere le fabbriche nazionali soltanto perché i concorrenti – popoli composti da uomini molto robusti e/o popoli dotati di un più alto livello di tecnologia – posseggono uno “standard di lavoro” corispondente. Quale, allora il criterio? Il criterio si chiama interesse nazionale e va sempre determinato in concreto, conoscendo quali potrebbero essere le possibili reazioni degli stati che si reputano colpiti.
Infine anche una domanda molto fastidiosa, che il lettore non vorrebbe fosse sollevata ma alla quale lo studioso è chiamato a rispondere. Molto spesso la scienza o il ragionamento ci conducono a conclusioni che ci dispiacciono. Ma il timore di una simile conclusione non è una ragione per rimuovere la domanda o per formularla surrettiziamente. Invece, nella formulazione di Brancaccio, accanto alla libera circolazione dei capitali e delle merci avremmo la libera circolazione delle “persone” e non del lavoro o dei lavoratori (libera circolazione delle “persone” che addirittura scompare nell’ultima frase dove del trinomio merci-capitali-persone resta solo il binomio merci-capitali). Dunque, che posizione prendere sul principio della libera circolazione del lavoro? Da un punto di vista economico generale tutti i ceti e tutte le classi sociali ricevono vantaggi dalla presenza in Italia di lavoratori stranieri (minor costo delle badanti, minor costo del pittore, dell’idraulico, del piastrellista, ecc.). Da un punto di vista più specifico sono proprio i lavoratori subordinati alle dipendenze di privati a subire le conseguenze negative della presenza di un esercito industriale di riserva, che, notoriamente, comporta un abbassamento dei salari. E’ soltanto sulla questione della libera circolazione dei lavoratori che, forse, è necessario un “punto di vista autonomo del lavoro” (subordinato).
3. Quando da parecchio tempo nei colloqui con alcuni colleghi economisti prevedevo l’inizio di “guerre commerciali”, essi sorridevano, considerandomi un visionario, perché (come Clinton e Castro) consideravano il mercato globale un fatto. E alla mia obiezione che sarebbe bastato che un solo stato avesse introdotto una barriera, tarrifaria o meno ovvero un contingentamento, dapprima negavano che fosse possibile, ossia negavano palesemente una possibilità reale e in subordine asserivano che “alla lunga è una politica inefficiente” (frase che reputavo e reputo priva di ogni significato).
Ora veniamo a sapere che gli Stati Uniti stanno per discutere il disegno di legge Levin che prevede dazi compensativi sulle merci cinesi- la forza di una nazione sta certamente nella potenza, ma sta prima ancora nella volontà (di potenza); un economista come Krugman pubblica un articolo in cui sostiene che “Forse l’unica via sono proprio i dazi”; e Brancaccio si è reso conto che, accolto il dogma dell’apertura dei mercati, i comunisti e i socialisti italiani da venti anni erano schierati a favore dei compagni cinesi ma contro gli interessi dei lavoratori italiani. Aver previsto il futuro meglio dei miei colleghi economisti è una bella soddisfazione, anche se ormai gli economisti ci hanno abituati alla loro totale incapacità di previsione.
Due importanti postille finali.
Mentre le misure protezionistiche in senso stretto (barriere tariffarie e non tariffarie, contingentamenti, sussidi) tutelano il capitale e il lavoro della nazione, il vincolo alla circolazione (nel senso di espatrio) del capitale tutela esclusivamente il popolo, trattandosi di un limite al capitale privato di una nazione (hai accumulato un capitale? Bravo, adesso lo puoi spendere o investire in Italia). Direi che, ammessa la proprietà privata dei mezzi di produzione, il divieto di espatrio del capitale è il massimo principio socialista (e il massimo limite al capitale) pensabile. Il capitale privato viene riconosciuto ma funzionalizzato. Come hanno potuto comunisti e socialisti dei paesi economicamente sviluppati pensare che il principio opposto al massimo principio socialista pensabile in uno Stato che ammette la proprietà privata dei mezzi di produzione potesse favorire, applicando opportune politiche economiche, il mondo del lavoro subordinato? Comunque dobbiamo ringraziare Marchionne per averci riproposto il problema teorico del divieto delle delocalizzazioni e dei vincoli all’espatrio del capitale, ossia del massimo principio socialista attuabile nel nostro ordinamento costituzionale. Quando il pensiero astratto è debole, è sempre necessario un “caso concreto” per prendere contezza del problema teorico.
Non fatevi ingannare dalle parole. Con i dazi si innescherebbero “guerre commerciali”. In primo luogo qui discutiamo di guerra in senso metaforico: guerra commerciale, appunto. In secondo luogo, come dovremmo definire il mercato globale costruito mediante trattati internazionali e leggi nazionali di abbattimento delle barriere? “Pace del mercato globale”? Viene da sorridere. Si tratta di guerra. Guerra permanente. Guerra continua tra imprese, con tutte le conseguenze che si verificano sulla nuda vita dei cittadini. Con lo Stato, non più a guardia della Nazione o della Repubblica, bensì a guardia del capitale e sempre pronto a sparare addosso al proprio popolo e a colpire quegli istituti che non si conformino alle esigenze del mercato globale: tagli di bilancio; riduzioni salariali, eliminazione dell’istituzione scolastica pubblica non finalizzata a “preparare al lavoro”; perdita di infiniti diritti.
Dinanzi a una tale guerra permanente, la guerra commerciale che sta per cominciare sarà caratterizzata da provvedimenti statali presi a favore del (e non contro il) popolo del quale lo stato è espressione. Lo Stato che eventualmente si reputerà colpito non prenderà un provvedimento contro il primo stato, bensì un provvedimento favorevole al proprio popolo e che danneggia, sovente soltanto eventualmente, l’altro stato. Né si deve credere che si instaurino catene interminabili. O che ad ogni mossa possa sempre corrispondere una contromossa. Così alcuni stati potranno stabilire che in certi settori l’accesso esclusivo alle agevolazioni pubbliche spetti a imprese nazionali. Un provvedimento simmetrico non dovrebbe creare danni paragonabili ai vantaggi del primo provvedimento. La naturale e logica linea di tendenza sarà che crollerà il commercio internazionale mentre aumenteranno i beni prodotti e consumati nel medesimo paese.
D’altra parte, le “guerre commerciali” si combattono soprattutto mediante “trattati bilaterali o plurilaterali”, per un po’ di tempo finiti nel dimenticatoio a causa dei trattati a partecipazione quasi universale. Insomma, le guerre commerciali sono l’unica speranza, comportano meno morti rispetto all’ipocrita “pace del mercato globale” e ricollocano lo Stato al servizio del Popolo, della Nazione e della Repubblica, togliendolo dallo stato di vassallaggio nei confronti del capitale.
Che la guerra (commerciale) cominci!
Esistono dei concreti contrasti tra modernità e socialismo (o peggio comunismo).
Il primo è che i lavoratori salariati sono alle dipendenze di un piccolo gruppo di persone (gli industriali), e non hanno voce in capitolo sulle scelte. Se gli industriali si trovano "costretti" a sottostare alle leggi del mercato borsistico come attualmente avviene, succede che le direzioni da prendere non siano tanto volte a favorire lo status quo nazionale, quanto a trovare sempre nuovi metodi per pagare la cedola trimestrale in modo da attrarre sempre più azionisti.
In questo universo c'è posto solo per l'Homo Oeconomicus, ovvero per il lavoratore intercambiabile. Tutto è progettato a tavolino e serve solo bassissima manovalanza a costo vicino allo zero.
Il secondo contrasto, ancora più evidente, è che anche se esiste un (parziale) controllo dei sistemi di produzione, quando si è inseriti in un contesto di concorrenza internazionale non si riescono a fermare le contraddizioni sistemiche. La fine dell'URSS penso sia l'esempio più calzante. Stroncata da investimenti militari che non si poteva permettere, che nessun stato socialista si può permettere.
La soluzione sembra essere quindi o abbandonare la competizione (e quindi la competitività) e vivere in un'isola alla deriva di un continente che invece finge di reinventare sempre tutto, oppure accettare di vivere nel suddetto continente e accollarsi i costi che questo comporta. Questo significa, in primis, un forte meccanismo di feedback che permetta di regolare il flusso dei capitali. Giusto per fare un esempio: stipendi da favola a pochi manager a fronte di impoverimento diffuso possono tradursi in stipendi da manager meno stratosferici per consentire una maggiore distribuzione salariale.
E' chiaro che in mancanza di quel senso dello Stato che in qualche modo animò tanto politici che industriali nelle decadi passate, serve recuperare la funzione dei lavoratori come classe antagonista allo sperpero attuale. A questa classe hanno sempre fatto appello tanto comunisti che socialisti storici. Oggi però succede che la sinistra storica sia sparita. Si potrebbe discutere a lungo se sia sparita per esaurimento del proprio ruolo, per sabotaggio, per mutati interessi delle classi lavoratrici o per un altro migliaio di ragioni e concause. Fatto sta che se negli anni '60 quel meccanismo straordinario di feedback che furono, ad esempio, le proteste di piazza si produssero risultati che furono tangibili per diversi decenni, mentre oggi ci troviamo con proteste ingessate (tra scioperi regolamentati, blande richieste e controparti completamente sorde) che non producono nulla e sanciscono ulteriormente lo stato di avanzata decomposizione della sinistra storica.
Una delle ragioni di tutto questo è da ricercare nelle mutate condizioni dei rapporti sociali (ed in particolar modo nell'avvento della globalizzazione) e nella mancata correzione della rotta da seguire.