Le miniere di uranio fondamentali per le centrali nucleari francesi, la lotta al terrorismo jihadista e il contrasto dei flussi migratori, ma anche il tentativo di limitare l’espansione dell’avversario russo nel Sahel. Nelle cancellerie europee sono questi i principali elementi di preoccupazione dopo il colpo di Stato in Niger, dove i militari fedeli all’autoproclamato nuovo leader del Paese, Abdourahamane Tchiani, hanno destituito il presidente Mohamed Bazoum, attualmente confinato all’interno della sua abitazione dalla guardia nazionale golpista. Seppur poco raccontato, il vasto Paese nel cuore del Sahel rappresentava infatti l’ultimo avamposto occidentale alle porte del Sahara, in quella che è considerata la prima ‘tappa’ della cosiddetta rotta del Mediterraneo.

Il Niger, spiega a Ilfattoquotidiano.it Domitilla Catalano Gonzaga, responsabile del desk Africa per il Centro Studi Internazionali, è un Paese fondamentale per gli equilibri occidentali per due motivi: “Innanzitutto perché rappresenta l’ultimo partner affidabile nella regione del Sahel, una regione fondamentale e afflitta da diverso tempo da un crescente autoritarismo – spiega l’analista – Come sappiamo, nei vicini Mali e Burkina Faso abbiamo governi retti da una giunta militare, mentre in Niger erano in corso dei processi che facevano pensare a un percorso di democratizzazione del Paese. Il secondo motivo riguarda la sua importanza strategica nel piano di lotta al terrorismo, mentre i gruppi jihadisti si stanno espandendo nella regione, e di contrasto alla criminalità organizzata legata soprattutto al traffico di esseri umani“. E la sua accresciuta importanza è legata proprio al recente passato di Mali e Burkina Faso, due ex Paesi partner dell’Occidente che, però, negli ultimi due anni hanno anch’essi conosciuto stravolgimenti politici con due colpi di Stato: “Il Niger è rimasto nell’area l’unico Paese che vede ancora la presenza degli Stati occidentali, soprattutto la Francia che, con la chiusura dell’operazione Barkhane, ha trasferito 1.500 soldati dal Mali al Niger che vanno ad aggiungersi ai circa 1.100 americani, 300 italiani e un centinaio di tedeschi – continua Catalano Gonzaga – Infatti l’Italia nel 2018 ha lanciato una missione bilaterale di supporto al Niger, l’operazione Misin, e gli Stati Uniti hanno costruito due basi militari nel Paese”.

Fino ad oggi, la voce grossa nello Stato del Sahel era soprattutto quella francese. Non solo per il passato coloniale, ma anche e soprattutto per la necessità di Parigi di mantenere un presidio fisso e consolidato legato allo sfruttamento delle preziose miniere di uranio di cui è ricco il Paese. Uranio che serve, tra le altre cose, ad alimentare le centrali nucleari dello Stato transalpino: “Il Niger è un Paese con una presenza francese molto influente a livello politico, come lo erano il Mali e il Burkina Faso, ma anche e soprattutto a livello economico – spiega l’analista del Cesi – Dopo aver abbandonato questi due Stati, per la Francia il Niger era diventato il punto strategico per tutte le operazioni nel Sahel. Fattore ancora più rilevante è la presenza di importanti miniere di uranio fondamentali per il funzionamento delle centrali nucleari francesi. Proprio per questo la Francia cercherà di mantenere una presenza nel Paese. I suoi interessi economici lì sono radicati più di quanto non lo fossero in Burkina e Mali”.

Non è però il graduale disimpegno, per quanto imposto in alcuni casi, ad aver portato a questo epilogo anche in Niger. Anzi, la presenza tangibile e la pressione degli interessi francesi hanno alimentato negli anni un sempre più convinto sentimento anti-Parigi, manifestato anche in questi giorni per le strade della capitale Niamey, con dimostranti scesi in piazza impugnando bandiere russe e attaccando l’ambasciata della République: “Formalmente i motivi che hanno portato al colpo di Stato vanno ricercati nell’aggravamento delle condizioni socio-economiche nel Paese, un po’ come in altri Paesi dell’Africa, dovuto anche alle conseguenze della guerra in Ucraina” che ha provocato maggiori difficoltà di approvvigionamento di cibo in gran parte del continente. “A queste motivazioni se ne aggiungono altre di carattere securitario. Questo perché i gruppi jihadisti si stanno espandendo sempre di più, soprattutto nella regione sud-occidentale e sud-orientale. Poi ci sono altre ragioni, interne, che possono aver influito ed è importante sottolineare che nel Paese i sentimenti anti-francesi erano già molto forti, soprattutto per i trascorsi coloniali”.

Perdere l’ultimo partner nell’area per i Paesi europei, soprattutto quelli che si affacciano sul Mediterraneo come l’Italia, avrebbe conseguenze potenzialmente disastrose. La lotta al terrorismo subirebbe un duro colpo così come l’attività di filtraggio dei flussi migratori da tutto il West-Africa. A questo, però, si aggiunge anche un possibile vantaggio per potenze che, in questo momento, rappresentano i principali avversari del blocco Nato-Ue a livello internazionale: “Il contenimento dell’espansione russa nell’area è un altro motivo della presenza europea nel Paese e quindi il rischio, ad oggi, è che oltre a perdere il suo ruolo di controllo e contrasto ai gruppi armati l’esercito locale decida di cercare supporto in attori nuovi, interessati ad aumentare la propria influenza regionale. Non parliamo solo di Russia e Cina, ma anche dell’Iran, tre Paesi interessati alle miniere di uranio. Per questo la Francia cercherà comunque di rimanere ad ogni costo nel Paese”.