L’odore della vita. Pier Paolo Pasolini: l’opera, la conoscenza, l’impegno pubblico
DA LA FIONDA (di Giusy Capone)
Attaccato e finanche osteggiato da tanti nel corso della sua vita, Pier Paolo Pasolini ha conosciuto post mortem una rivalutazione capillare, tanto da reputarsi, oggi, un’icona pop.
Autore plurale, apocalittico e corsaro.
Acuto osservatore dei cambiamenti in seno alla società italiana, tanto da definire i suoi connazionali, frenetici adepti dei “consumi”, “bruti stupidi automi adoratori di feticci”: il sogno della condivisione dell’essenziale, al bando l’accumulo.
Il Cristianesimo ed il Marxismo; il pensiero laico-liberale, vessillo della Borghesia, come prosecuzione del Potere: “Quelli di voi che possiedono un cuore…Vadano, tanto per cominciare, dai Crespi, dagli Agnelli, / dai Valletta, dai potenti delle Società…è giunta per ognuno di loro l’ora che non ha / proporzione con quanto ebbe e quanto odiò”
Dalla A di “Accattone” alla Z di “Zigaina Giuseppe”: ne L’odore della vita (Rogas edizioni) storia personale e storia professionale serrate in intimo connubio, un’intera produzione plasmata a propria immagine e somiglianza.
Estenuante autoesposizione, priva di imbarazzi, ritrosie, reticenze e pudori, vista, olfatto e tatto, i sensi come passaporto per evitare filtri ideologici e scavare nelle liriche pasoliniane, fino a ricordare: “Nello sviluppo del mio individuo, della diversità, sono stato precocissimo; e non mi è successo, come a Gide, di gridare d’un tratto ‘Sono diverso dagli altri’ con angoscia inaspettata; io l’ho sempre saputo.”
Denunce e processi.
Brutale, boccaccesca, generosa esportazione di sé stesso: erotizzazione dell’esistenza, l’essere “con te e contro di te: con te nel cuore, in luce, contro te nelle buie viscere”.
Mesta malinconia: effige di una realtà che instancabilmente cambia, peggiorando ma pure sostenendo “Piange ciò che muta anche per farsi migliore”.
Pasolini, nome suggestivo: “buono a tutti gli usi, sacramentale e terragno, infernale e divino”, “carico di tutte le possibili tensioni umane, artistiche, ideologiche, antropologiche, morali, politiche e oltre.” Egli stesso rivendica lo “scandalo del contraddirmi”.
Scrittore, regista, sceneggiatore, attore e drammaturgo, giornalista polemicissimo, pittore, autore prolifero e versatile, incessantemente in balia di una vena sperimentale inestinguibile: un tratto comune tra i differenti linguaggi adottati nella categoria del “poetico”, una connotazione precisa e sempre uguale che punta dritto alla fascinazione, all’ipnosi, alla rarefazione dell’immagine nello sguardo magnetizzato.
Romanzo e novella, teatro e cinema, critica letteraria e saggistica politica, e non meno la poesia: lampante insofferenza ai limiti, agli steccati, ai paletti.
Oltre la rasserenata completezza delle ideologie: oltrepassa ogni finalismo della Storia, prevedendo la fine stessa della storia e, nel contempo, della propria: “Stesura in ‘cursus’ di linguaggio ‘gergale’ corrente, dell’antefatto: Fiumicino, il vecchio castello e una prima idea vera della morte: […] – sono come un gatto bruciato vivo, / Pestato dal copertone di un autotreno”.
Pasolini ed i linguaggi, tutti, strumenti dell’argomentare, del persuadere, dell’insegnare, leve sostanziali di qualsivoglia “passione e ideologia” sono ostentati, mai velati, mai celati, mai alleviati da mezzi di “sordina”.
La “parola” come negazione: “i segni del desiderio di morire, / le occhiaie del vile, / il mento del debole, / … / le scarpe dello statale, / il culo del soldato semplice, / la calvizie del disadattato, / la schiena del condannato a morte”.
Lo “straniero friulano”, da Casarsa “…vecchio borgo… grigio e immerso nella più sorda penombra di pioggia, popolato a stento da antiquate figure di contadini e intronato dal suono senza tempo della campana.” alla meraviglia di “Roma è divina”, lì dove “la borghese storia non entra”: il sottoproletariato che vive in miseri sobborghi, le borgate hanno contribuito a definire l’uomo, i suoi incontri entusiastici, i suoi disincanti politici, i suoi amori, il suo radicalismo, i suoi attimi di avaria e di fuga.
La figura materna permeante l’intera sua opera: “ho sentito l’amore per mia madre molto, molto profondamente, e tutta la mia opera ne è influenzata, ma è un’influenza la cui origine è dentro di me, nel mio intimo e, come ho detto, piuttosto al di fuori della storia.”
Capace di resistere ad antitetici tentativi di marginalizzazione, ha colto l’odore della vita, nelle sue molteplici protuberanze, ponendosene nel mezzo e costringendo la società, la politica e la coscienza civile a misurarsi con lui: “E io ritardatario sulla morte, in anticipo sulla vita vera, bevo l’incubo della luce come un vino smagliante.”
Ci ha lasciato in eredità le lacrime per i poveri ed ha rinnovato la solenne coscienza del sacro: “ciò che è sacro si conserva accanto alla sua nuova forma sconsacrata”.
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