L’amnesia pericolosa: Israele, la rimozione della questione palestinese e gli Accordi di Abramo
DA LA FIONDA (Di Pietro Polieri)
L’attacco congiunto del 7 ottobre scorso, condotto dal gruppo palestinese di Hamas in territorio di Israele, soprattutto nelle aree abitate prossime alla striscia di Gaza, viene letto da alcuni analisti, seppur all’interno di un perimetro storico complesso, come pura contingenza terroristica, che evidenzierebbe, più che altro, le finalità tout court, immediate, ‘al presente’, proprie e interne del gruppo politico palestinese, senza legarle esplicitamente e necessariamente alla più generale lotta dei palestinesi per il proprio riconoscimento nazionale-territoriale. Dunque, un atto violento, certo, ma in qualche modo isolato dalla storia del conflitto israelo-palestinese, anche se collocato, per forza di cose, nel segmento crono-spaziale di tale annosa frizione. In questa sede si prova a delineare, al contrario, un’interpretazione di tali azioni terroristiche come ‘risposta palestinese’ armata – per quanto probabilmente non condivisa dalla totalità dei palestinesi, anche in termini di germinazione e di esecuzione materiale della stessa – a un processo storico di ‘rimozione’ memoriale della questione palestinese principalmente da parte israeliana, ma che, con gli Accordi di Abramo, siglati tra Stato ebraico ed Emirati Arabi e Bahrain nel settembre 2020, ha cominciato a coinvolgere, progressivamente e neanche troppo sotterraneamente, anche il resto del mondo arabo-musulmano. Un’amnesia ‘fondamentale’, ‘eccezionale’, giudicata, evidentemente, da parte di Hamas, come capace di determinare verosimilmente la scomparsa dallo scenario internazionale del problema della definitiva territorializzazione dell’identità etnica palestinese, e, quindi, meritevole di una reazione ‘proporzionalmente eccedente’, che costituisse un monito anche per gli ‘amici’ religioso-politici di sempre, ammiccanti alle colpevoli smemoratezze dei nemici israeliani.
I primi a essersi dimenticati che i palestinesi fossero ancora lì, ai confini con lo Stato ebraico, a Gaza, in Giordania, in Cisgiordania, in Libano, in Siria, e ‘in’ Israele nella parte Est di Gerusalemme, tutti ancora con le proprie aspirazioni statuali, e dunque, con il proprio desiderio, mai sopito e addomesticato, di riscatto e di rivincita etno-nazionale anti-israelo-giudaica, sempre pronti a evolvere in risentimento e in rabbia, in aggressione e in violenza – da loro orgogliosamente definiti ‘resistenza’, dagli altri etico-politicamente inquadrati come ‘terrorismo’ – sono stati proprio gli israeliani. Che, dopo l’attacco del 7 ottobre scorso, possono ben caricarsi della colpa ‘originaria’ e ‘con-genita’, dal carattere totalmente ‘laico’ e non si sa fino a che punto involontaria, di aver trapassato con lo sguardo, quasi fossero ormai entità ectoplasmatiche, coloro che, in carne ed ossa, proprio dinanzi ai loro occhi, rappresentavano e continuano a rappresentare di fatto la ragione stessa della loro condizione giuridico-esistenziale di ‘stato in/di guerra permanente’, di nazione in pericolo costante. Questa – che oltre a essere una dimensione onto-politica, è divenuta una vera e propria ‘dottrina’ e un paradigma ec-centrico della ‘sovranità eccitata’, della ‘sovranità eccezionale’, che Israele ha sposato radicalmente pur di esistere, con tutte le difficoltà e le insidie che essa comporta – costituisce l’elemento caratterizzante la sua complessa architettura tensiva, del tutto inedita per uno stato che rivendichi una filiazione con quell’Occidente politico-geografico-istituzionale, centrato, al contrario, su una forte stabilità territoriale e sull’idea coesiva di costituzione.
In un certo senso, dunque, se la componente palestinese rappresenta la dimensione ‘negativa’ (pur sempre) ‘necessaria’ dell’identità ‘emergenziale’/‘eccezionale’ di Israele, il fatto di averla rimossa negli ultimi anni, attraverso un processo, comunque spiegabile e comprensibile, di sua ‘cronicizzazione’ patologica e di sua ordinarizzazione politica, ovvero di una sua trans-mutazione in ‘ordinaria amministrazione’, in ‘normale’ governo/gestione militare, a basso rumore di fondo, non significa solo aver mascherato e cancellato scriteriatamente e pericolosamente la realtà vibrante, tangibile e intoglibile di una questione etnico-politica ‘interna’/ ‘esterna’ di per se stessa rovente in quanto perennemente irrisolta, ma anche aver colpito autolesionisticamente un aspetto ‘fondamentale’ della sua propria dimensione identitaria, il suo stesso cuore pulsante, ponendo così le premesse di una sorta di ‘infarto’ storico-politico, di cui attendere solo il momento di insorgenza. Israele, dunque, che letteralmente appoggia la sua identità (storico-fattuale) alla ‘relazione d’eccezione’, di ‘esclusione inclusiva’ con l’identità temporale e geografica concreta dei palestinesi; che, in altri termini, per statuto, dunque, ‘deve’ all’esistenza materiale dei palestinesi la sua strutturazione statuale-istituzionale ‘irritata’, che pur in questa forma dinamica e alterata le garantisce di vivere ‘stra-ordinariamente’ come stato sovrano, ha commesso il grave errore di aver dimenticato, con i palestinesi, se stesso. È come se il nomadismo e l’anomalia identitari che hanno connotato per secoli la storia del popolo ebraico in diaspora, salvato principalmente dalla costante attività di compattamento auto-mnestico, si fossero volti/evoluti, a un certo punto e al converso, in speculare (pseudo-)stabilizzazione territoriale a basso tasso, però, di memoria storica, soprattutto in ordine alla questione palestinese, in tal modo generando gli stessi effetti di provvisorietà, precarietà, incertezza e fragilità tipici della pregressa condizione diasporica e vanificando tutti i processi e gli sviluppi legati alla territorializzazione progressiva dell’identità del popolo ebraico. L’incursione di Hamas nel sud di Israele, quindi, marcata narrativamente come una sorpresa inattesa e inconcepibile, invece non solo è frutto consequenziale di tale colpevole dimenticanza, ma soprattutto è da cogliere, quasi psicoanaliticamente, come il prevedibile – anche se temporalmente incalcolabile/incollocabile – ritorno del rimosso, con tutti gli addentellati di irruttività e aggressività che questa dinamica implica, soprattutto se si pensa che la stessa operazione di rimozione si configura anch’essa, in fondo, come un atto di violenza, tanto contro il rimosso – che così la concepisce – quanto, essenzialmente, contro se stessi. La rimozione della questione palestinese, legata a filo doppio alla storia identitaria di Israele, ha dunque significato – contingentemente in questi giorni, ma anche strutturalmente – proprio la ‘messa in questione’ e a repentaglio dello Stato di Israele, che ha potuto sperimentare a sue spese, e nel modo peggiore e avvilente possibile, con arcaica inaudita quanto (pur)troppo umana irrefrenabile brutalità, quanto il rinvio a tempo indeterminato dell’affrontamento di un problema nodale della e per la propria esistenza identitaria, come quello palestinese, si sia a uno specifico ma presumibile momento, con-vertito nella ‘virulentizzazione’ impazzita, e allo stesso tempo, logica del rimosso contro il rimuovente.
Un passo fondamentale nella direzione dell’abrogazione memoriale della questione palestinese deve essere considerato, nella storia recente di Israele, la firma, il 15 settembre 2020, degli Accordi di Abramo, strumento plurilaterale di normalizzazione dei rapporti, soprattutto economici e di intelligence, tra lo Stato ebraico, gli Emirati Arabi e il Bahrain, fortemente promosso e strategicamente mediato da Donald Trump, il cui pragmatismo politico internazionale, allergico a qualsiasi postulato operativo e a ogni forma di ‘metafisica dei principi’ in campo diplomatico, ha raggiunto all’epoca della sottoscrizione del patto il fine di provare a soddisfare gli interessi di tutti gli attori in campo, convergenti su evidenti utilità comuni. Condizione di possibilità di tale intesa era, ovviamente, l’abbassamento di qualsiasi tensione militare-territoriale e di carattere religioso, compresa l’implicita sterilizzazione dell’annoso problema palestinese, in grado di trascinare con sé un clima internazionale del tutto inadeguato alla formazione e allo stabilimento di un equilibrio regionale idoneo alla volontà dialogica delle parti in causa. In un’intervista pubblicata sul quotidiano La Stampa del 19 settembre 2020 è proprio l’ex ambasciatore di Israele in Italia, Dror Eydar, a spiegare in modo lucido questo cambio di paradigma in Medio Oriente, connotato da un approccio freddo, utilitaristico, de-ideologizzato e necessariamente ‘contro-storico-antiquario’, rappresentato proprio da tali accordi, in virtù del quale Israele, da essere giudicato la fonte primaria di tensione, inquietudine e agitazione del quadrante mediorientale, è diventato, in pratica, la componente centrale della sua stabilità e agente indispensabile per la sua sicurezza, come riconosciuto da parte dei sunniti e dei Paesi Arabi moderati proprio con l’adesione alla ‘concertazione abramitica’. In tal senso gli Accordi di Abramo per Eydar arrivano a segnare lo svincolamento del mondo arabo dall’ossessione palestinese di rifiutare qualsiasi forma di compromesso con Israele e, consequenzialmente, la possibilità di legare il proprio presente e futuro commerciale e finanziario a uno dei partner più all’avanguardia in settori nevralgici come la tecnologia e l’intelligence. Per questo la cancellazione del problema costituito dai palestinesi, esito, per Eydar, dell’incapacità di questi ultimi di interpretare quegli accordi come un treno assolutamente da non perdere, si presentava come intrinseca e ineludibile implicazione. Insomma un autentico esonero mnestico israeliano del conflitto territoriale-religioso con i palestinesi, cioè con i nemici ‘interni’, parte essenziale della propria identità storico-statuale, in nome di un (inedito ateo capitalistico) arabo-israeliano ‘dio denaro’ (e non certo ‘dio di Abramo) e della strutturazione di un nuovo tempo di benessere generalizzato. Dunque una rimozione tecnicamente necessaria alla sopravvivenza in pace – almeno così venivano intesi quegli accordi – di Israele e dei popoli arabi storicamente suoi indiretti antagonisti, che però altro non è altro se non una modalità di traslazione, di slittamento e di dilazione impropri di ciò che riguarda intimamente Israele e che esso avrebbe dovuto decidere di affrontare prima che fossero proprio i palestinesi, sventuratamente con Hamas suo terroristico portavoce politico, come poi è stato, a scegliere tempi e modi per farlo.
Gli Accordi di Abramo, momento acmico e topico della rimozione della questione palestinese da parte di Israele, hanno consentito paradossalmente a quest’ultimo, da un lato, di realizzare una pace con Paesi con i quali in pratica non era mai stato in guerra, dall’altro, di accelerare e acutizzare una guerra con quei palestinesi con cui, pur cercando la pace – con le sue strategie e con i più diversi sostegni internazionali – non ha mai raggiunto né questa né uno forma di compromesso minimamente durevole. Ma tali Accordi hanno costituito eccezionalmente uno sgravio della memoria non solo israeliana, ma anche araba, visto che gli stati sottoscrittori di quei patti e anche gli altri che si ‘nascondevano apertamente’ alle loro spalle, come Arabia Saudita e Qatar – intenti, sulla scia della buona riuscita di quelle intese, a trasformare in effettività economico-politica trame ombrose di negoziati con Israele oramai in piedi da qualche anno –, non hanno perso tempo a mollare la zavorra palestinese e a concentrarsi sui propri più rimarchevoli e proficui interessi nazionali. Tale situazione, per un verso, ha acuito nei palestinesi la percezione di essere diventati ormai l’oggetto privilegiato di una dimenticanza/rimozione trasversale mediorientale, per un altro, ha progressivamente quanto inesorabilmente sottratto la ribalta pubblica alla loro questione territoriale, consegnandola ancora una volta al silenzio e alla stagnazione, se non proprio al suo esaurimento fallimentare. Ragion per cui la terrificante e raccapricciante violenza di Hamas, rigenerativa, a suo modo e nei fatti, della questione palestinese, è probabile che sia da interpretare come una risposta intenzionalmente carica di odio direttamente verso i nemici israeliani/ebrei e indirettamente verso gli ‘amici’ arabi musulmani, per ricordare a entrambi – e ai primi in particolare – quanto possa realmente costare macchiarsi di un’amnesia storico-politica così fondamentale, di cui, almeno nell’auto-percezione palestinese, sia vittima sacrificale ordinaria proprio e solamente la Palestina. Amnesia onto-identitaria, per Israele. Amnesia politico-religiosa, per gli Stati Arabi. Comunque un’amnesia pericolosa. Destabilizzante. Fatale.
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