Il futuro dell’Italia tra geopolitica, commercio marittimo e nuova globalizzazione
di MARX21 (Francesco Maringiò)
da https://italian.cri.cn
C’è un allarme generalizzato in Italia rispetto alla crisi che riguarda il Canale di Suez e lo Stretto di Bab el-Mandeb, i due colli di bottiglia delle rotte commerciali via nave che portano le merci dall’Oriente nel cuore dell’Europa. Dal Canale di Suez transita circa il 12% del commercio mondiale ed oltre il 40% di quello marittimo italiano, per un controvalore che uno studio di Srm-Alexbank di Intesa Sanpaolo ha valutato nel 2022 pari a 82,8 miliardi di euro. L’allarme in Italia è giustificato, dato che circa un terzo di tutto l’import italiano (incluso quello energetico) passa per quella tratta. La decisione di alcune compagnie di trasporto marittimo di non passare più per il Mar Rosso e circumnavigare l’Africa può quindi avere un impatto devastante per i porti italiani e, conseguentemente, per l’economia del nostro paese.
Apparentemente, quindi, la situazione è molto seria e, forse per questa ragione, non ha suscitato alcuna formale obiezione nel paese la decisione di partecipare all’operazione militare Aspides, voluta dall’Unione Europea a difesa – così ci viene spiegato – dei mercantili in viaggio nel Mar Rosso. Anzi: l’Italia si candida ad ospitare il quartier generale della missione che, a tutti gli effetti è una operazione militare di alcuni paesi europei ben oltre i confini dell’Ue e dello stesso continente europeo. Sui media nostrani non mancano poi le analisi che ci sciorinano la strategicità di questa scelta. In gioco, viene spiegato, c’è la sopravvivenza stessa della globalizzazione che si basa sulla libera circolazione delle merci e, di conseguenza, sul controllo degli snodi strategici infrastrutturali (oleodotti, gasdotti, cavi internet etc.) e delle vie di comunicazione marittima a partire proprio dai colli di bottiglia, secondo la nota teoria di Alfred Mahan, il primo ad evidenziarle il nesso tra potere navale, commercio marittimo ed influenza politica.
Tuttavia ritengo sia legittimo chiedersi se questa visione delle cose serva davvero gli interessi dell’Europa e, non ultimo, quelli dell’Italia. E qui la versione ripresa da tutti i media comincia a scricchiolare. Questa idea della globalizzazione quale fenomeno di unificazione dei mercati a livello globale e di controllo militare dei principali colli di bottiglia del commercio marittimo coincide in verità con un processo che serve esclusivamente gli interessi americani. «In quanto politologi, – scrivevano Farrell e Newman già nel 2020 – abbiamo studiato l’uso delle reti economiche da parte degli Stati Uniti per raggiungere i propri obiettivi nazionali per quasi due decenni e riteniamo che il mondo delle imprese sottovaluti costantemente i rischi derivanti da questa forma di esibizione politica della forza». I due autori, su Harvard Business Review, prendevano di petto la trasformazione delle infrastrutture economiche in armi geopolitiche, analizzando quanto avvenuto dal 2001 fino alla presidenza Trump che, a loro dire, «ha sostituito la diplomazia con il puro esercizio del potere».
E poi c’è un grande assente nel dibattito pubblico qui in Italia ed è la connessione tra gli attacchi delle milizie Houthi e la guerra di Israele a Gaza. Gli attacchi degli Houthi alle navi mercantili che passano lo stretto di Bab el-Mandeb riguardano infatti esclusivamente le navi israeliane (o americane) che vanno ad attraccare nei porti della Palestina occupata per alimentare la guerra in corso a Gaza, non le altre. Ne ha parlato esplicitamente il portavoce di Ansar Allah in un’intervista a quotidiano russo Izvestia dove, apertis verbis, ha ribadito: «per quanto riguarda tutti gli altri Paesi, compresi Russia e Cina, la loro navigazione nella regione non è minacciata».
A ben guardare una grande tema si affaccia alla nostra riflessione. Se davvero all’Europa convenga farsi risucchiare in questa ennesima escalation bellica che gli Usa portano avanti nel tentativo antistorico di mantenere intatta una egemonia globale, sempre più in declino, attraverso il controllo militare degli snodi nevralgici del commercio mondiale, oppure se non serva cambiare strada.
Ciò a cui stiamo assistendo è il rovesciamento del ciclo storico iniziato nel biennio ’89-’91 del secolo scorso che diede vita alla fase unilaterale della politica americana. Mentre gli Usa nel dopoguerra si sono sostituiti alla Gran Bretagna nel controllo manu militari di alcuni punti nevralgici sul globo e dopo l’89 hanno pensato di poter espandere senza limiti i propri interessi in ogni angolo del mondo, l’emersione di nuovi attori globali, che non ripercorrono la stessa parabola di sviluppo ma di converso riscrivono le regole di una globalizzazione fatta di scambi e mutuo vantaggio, pone a noi l’interrogativo di una scelta strategica.
È su questo che si misurerà la credibilità (e la lungimiranza) delle classi dirigenti. Non ci sono molte alternative: la continuazione della politica fin qui perseguita non potrà che portarci alla rovina.
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