Tutto ciò che fai per me senza di me, lo fai contro di me
DA GAZZETTA FILOSOFICA (Di Francesco Pietrobelli)
Quando si parla di politica, si tende a distinguere fra l’efficacia – il riuscire a ottenere risultati concreti in tempo breve – e la legittimità – il fatto che un’azione di governo sia supportata dai cittadini, che chi è al governo sia stato votato e riconosciuto dal popolo come suo rappresentante. Come se un governo potesse essere efficiente ma non avere il sostegno popolare, oppure essere appoggiato dai cittadini ma dimostrarsi incompetente. Può, però, davvero esistere, in assenza di legittimità e voce popolare, un governo che favorisca il bene comune in modo efficace?
«Tutto ciò che fai per me senza di me, lo fai contro di me». Un detto spesso attribuito a Gandhi, ma che proviene dall’Africa centrale, come riportato da David Von Reybrouck in Contro le elezioni. Perché votare non è più democratico. Un detto che, per certi aspetti, sembrerebbe contraddire i luoghi comuni su quella che è la politica al giorno d’oggi, la quale sembra spesso mostrare l’elettore che supporta e vota forze politiche incapaci, le quali poi contraddicono la maggiore parte delle promesse con cui avevano convinto i cittadini in campagna elettorale. Realtà politiche legittime, ma non efficaci.
Come sottolinea Reybrouck,
« La legittimità risponde alla domanda: in che misura il popolo è d’accordo con queste soluzioni? Fino a che punto riconosce l’autorità del governo? »
Un governo legittimo, cioè, sarebbe, a prima vista, quello il cui potere deriva dal popolo, rivelandosi così democratico. Io agisco e divento l’autorità politica perché i cittadini mi ritengono loro rappresentante. Da questo punto di vista, sembra fondamentale che siano i cittadini a decidere chi deve governarli. Un concetto diffuso nella società contemporanea:
« Il World Values Survey, un programma di ricerca internazionale su vasta scala, ha intervistato negli ultimi anni più di 73.000 persone, in 57 paesi diversi, per un totale che rappresenta quasi l’85 per cento della popolazione mondiale. Alla domanda se la democrazia sia un buon metodo per governare il loro paese, non meno del 91,6 per cento delle persone interrogate ha risposto affermativamente. La percentuale della popolazione mondiale favorevole al concetto di democrazia non è mai stata così elevata come ai giorni nostri. »
Il libro di Reybrouck è del 2015, ma la centralità del concetto di democrazia è tutt’ora presente. Concetto che, seppur vago e soggetto a molteplici declinazioni, richiama con forza l’idea che il potere politico debba avere un fondamento popolare. Che chi governa non può farlo per imposizione, arbitrio, grazie all’uso della forza, ecc.: deve farlo perché il popolo è d’accordo e lo dimostra tramite sistemi democratici, come le elezioni.
Ma siamo sicuri che questa fiducia nella democrazia sia così salda?
« Succede una cosa strana con la democrazia: tutti sembrano aspirarvi, ma nessuno ci crede più. […] Lo stesso World Value Survey ha fatto notare che, nel mondo intero, il bisogno affermato di leader forti, “che non necessitino di tenere conto di elezioni o di un Parlamento”, è considerevolmente aumentato negli ultimi dieci anni e che, al contrario, la fiducia nei parlamenti, nei governi e nei partiti politici ha raggiunto un livello storicamente basso. È come se avessimo aderito all’idea della democrazia, ma non alla sua pratica, per lo meno non alla sua pratica attuale. »
La fiducia nei partiti, nel sistema elettorale, nei parlamentari che rappresentano i cittadini… cala sempre di più. Tutti gli organi centrali per le democrazie attuali sembrano godere di un supporto popolare misero:
« La sfiducia politica è solo un elemento di uno stato d’animo molto più generale. Ma per quanto riguarda le istituzioni democratiche, è chiaro che sono i partiti politici a confrontarsi con la crisi di fiducia più grave: su una scala da 1 a 10, essi ottengono dai cittadini europei il voto medio di 3,9, seguiti dai governi (4 su 10), dai parlamenti (4,2 su 10) e dalla stampa (4,3 su 10). »
I politici eletti sembrano così lontani dal volere dei cittadini che la legittimità che scaturisce dal voto pare, per assurdo, illegittima. E così, quei politici – i quali, dice Reybrouck, «per lo più, partono dal principio che i cittadini hanno valori diversi e meno elevati dei loro», a sottolineare che la sfiducia popolo-politici è reciproca – sembrano essere ciò che di più lontano si possa avere da delle persone che sappiano con coerenza sviluppare un’azione di governo efficace e che tuteli il bene comune. Questo perché tali governi, che scaturiscono dalla democrazia contemporanea (di stampo occidentale, ma la cui diffusione ha preso direzioni globali), non risultato essere efficaci:
« L’efficienza risponde alla domanda: di quanto tempo ha bisogno un governo per mettere in atto soluzioni reali ai problemi che si presentano? »
Il tempo di cui hanno bisogno i governi democratici per risolvere problemi reali pare, spesso, infinito:
« I parlamenti impiegano a volte una quindicina d’anni per riuscire a votare una legge. I governi fanno sempre più fatica a formarsi, sono spesso meno stabili e, alla fine del loro mandato, sono puniti sempre più severamente dagli elettori. »
Elettori che votano sempre meno, non aderiscono a partiti politici, cambiano partito da un’elezione all’altra. Coi fatti dimostrano cioè la sfiducia in politici che sembrano avvinghiati da un sistema di governo farraginoso, in cui si spende più tempo in campagne elettorali, accordi di governo che vadano bene a tutti i partiti della coalizione e favoriscano gli interessi di ognuno, piuttosto che nell’attuare pratiche politiche che sappiano essere efficaci e direzionate al bene comune. Ecco, dunque, che sorge la necessità dell’uomo forte. Figura simbolica che sta a rappresentare la politica efficace, ma non legittima. Stufi di accordi politici, interessi personali e corruzione, campagne elettorali che sono solo un’accozzaglia di bugie, perché non affidarsi a un sistema politico che punti su chi è competente? Liberandolo dalla necessità di perdere tempo in campagne elettorali, siccome sarà la stessa efficacia dell’azione politica a legittimarlo. La vera rappresentanza, infatti, non sta tanto nell’azione formale di un voto, quanto nel fare ciò che il cittadino vuole. Ecco che compare il concetto di tecnocrazia.
« La lentezza e la complessità del processo decisionale democratico portano alcuni a dubitare della democrazia stessa. Di fronte alle sfide colossali e urgenti sollevate dalla crisi dell’euro, per esempio, si cercano sistemi più efficaci. La tecnocrazia è allora rapidamente percepita come la soluzione. In una tecnocrazia si affida la gestione degli affari pubblici a degli specialisti, la cui competenza tecnica deve permettere ai paesi di navigare in acque agitate evitando gli scogli. I tecnocrati sono dei manager che sostituiscono i politici: non devono preoccuparsi delle elezioni, possono riflettere sul lungo termine, possono annunciare delle misure poco popolari. In mano loro, la politica da adottare è una questione di ingegneria civica, di “gestione dei problemi”.
[…] Ma la tecnocrazia si esercita anche in molti altri luoghi, meno visibili. In questi ultimi anni, una parte cospicua del potere dei parlamenti nazionali è stata trasferita a delle istituzioni transnazionali come la Banca centrale europea, la Commissione europea, la Banca mondiale e l’Fmi. Non essendo eletti democraticamente, questi organismi portano a una tecnocratizzazione considerevole del processo decisionale. Le banche, gli economisti e gli analisti delle condizioni monetarie hanno in mano, anche loro, le leve del potere.
Questo non vale solo per le organizzazioni internazionali. Ogni stato-nazione moderno ha assunto un carattere tecnocratico togliendo competenze allo spazio democratico per attribuirle altrove. Il potere delle banche centrali e delle corti costituzionali, per esempio, si è considerevolmente rafforzato. Ovviamente, le autorità hanno ritenuto opportuno togliere delle mansioni cruciali, come la sorveglianza monetaria e il controllo della costituzionalità, dalle grinfie della sfera politica dei partiti e dei loro relativi calcoli elettoralistici. »
Già questa parte potrebbe far storcere il naso a qualcuno. Davvero governi tecnici (come, in Italia, il governo Monti o il governo Draghi) hanno compiuto scelte efficaci per il bene comune? Davvero realtà internazionali slegate da una diretta legittimazione popolare hanno attuato ciò che era meglio per la popolazione nella sua complessità?
Molto spesso, si ha assistito a scelte impopolari in un doppio senso: che non erano volute dai cittadini… e che non hanno arrecato benefici ai cittadini. Si potrebbe entrare in esempi concreti in ambito politico, ma non è questo il focus dell’articolo. Ciò su cui preferisco concentrarmi è questa tematica: un governo efficace lo si ottiene a discapito della legittimità? O, in realtà, togliendo legittimità a un governo – riducendo o eliminando la partecipazione popolare – si crea un governo ancora meno efficace?
«Tutto ciò che fai per me senza di me, lo fai contro di me»: un detto che potrebbe essere letto secondo diversi aspetti di verità. Innanzitutto, la mancanza di legittimità preclude la possibilità di giudicare l’azione di governo. “A governare devono essere i migliori”: un’affermazione che pare tanto banale quanto vera, ma chi decide chi sono i migliori? La mancanza di una decisione democratica su chi governa pone il problema del modo in cui si decide chi sia il competente. Si rischia che poi, a governare, siano posti coloro che fanno l’interesse solo di una fetta di popolazione, favoriti dalle classi che hanno il maggiore potere economico e sociale.
Dall’altro lato, inoltre, ci si potrebbe chiedere: come si può fare qualcosa in favore del popolo… se non si dà voce al popolo? È facile pensare che i migliori sappiano valutare le esigenze della moltitudine meglio della moltitudine stessa. Tale idea ha un fondo di verità: vado dal medico per farmi curare, perché lui può capire il mio dolore meglio di me; chiedo a un architetto di progettare la mia casa, perché lui sa svilupparla meglio di me. Tuttavia, il medico non può davvero curarmi se non si confronta col paziente, se non ascolta il giudizio del paziente anche a distanza di tempo, per vedere se le cure proposte sono efficaci o meno, per capire se la sua azione medica ha mostrato degli errori da sistemare; l’architetto non progetta una casa non tenendo conto delle esigenze, degli interessi e della disponibilità del cliente, e mentre la casa viene creata non può esimersi dal parere del cliente se il progetto, mentre si sviluppa, mostra contraddizioni rispetto a quanto richiesto o problematiche che vanno risolte.
Lo stesso vale per il politico: come può fare il bene comune, se non si apre a un continuo confronto col popolo, con coloro a cui il bene comune fa riferimento? Arrogarsi l’idea di sapere cos’è giusto per tutti, evitando il contraddittorio, nega l’idea dell’esperto: colui che dimostra la propria capacità nel risolvere un problema, nel senso che ottiene la conferma della sua efficacia tramite l’approvazione altrui. La legittimità è infatti la conferma che l’azione di governo è efficace: che si sta davvero attuando il bene comune. Senza legittimità, non si dà efficacia: «Tutto ciò che fai per me senza di me, lo fai contro di me».
A questo punto, si aprirebbe un altro capitolo: la legittimità sta semplicemente nel votare? La partecipazione e il sostegno popolare si sviluppano esclusivamente in un’ottica di voto? Come diceva Gramsci, se la democrazia si riduce a votare ogni tot anni, «basta avere il predominio ideologico (o meglio emotivo) in quel giorno determinato per avere una maggioranza che dominerà per 3-4-5 anni» (Quaderni): basta che un partito si giochi tutto nei mesi pre-elettorali, per ottenere un governo che poi, del volere popolare, possa farsene beffe.
Ne consegue allora la domanda: cos’è davvero la legittimità?
Ma questo è argomento per un altro articolo.
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