Cosa è stato, dunque, il fascismo: “parentesi”, rivoluzione o reazione?
di Simone Garilli
Nell’impresa di delineare, in Italia, una coerente teoria politica alternativa al sistema di pensiero e di potere dominante, vi è un nodo da sciogliere di particolare importanza. Non è un mistero, infatti, che nella variopinta galassia anti-sistema e persino anti-europeista che si è mossa in questi anni ai margini della politica parlamentare, hanno trovato un certo spazio suggestioni parafasciste o perlomeno parautoritarie. Non si tratta solo dei tentativi direttamente partitici, come Forza Nuova o CasaPound, ma di un eterogeneo e contraddittorio humus composto da manifestanti, attivisti e leader di piccoli gruppi organizzati. Persino nelle associazioni più strutturate, di esplicita inclinazione anti-europeista, tende a sopravvivere almeno alla base una sorta di simpatia controllata per la “parentesi” fascista, disastrosa nei risultati finali, ma meritevole – secondo questa ricostruzione – di aver tentato di elaborare una “terza via” tra liberalismo e comunismo sovietico, foriera di alcune conquiste sociali e di una generale predisposizione alla protezione degli interessi delle famiglie e dei lavoratori, come dimostrerebbero le misure in materia di assistenza e previdenza sociale, le nazionalizzazioni degli anni Trenta e, per i più colti, il manifesto dei fasci di combattimento del 1919, di matrice socialisteggiante.
Eppure, al netto del dibattito sugli istituti economici e sociali introdotti dal fascismo (di sicuro interesse, ma da subordinare a un’analisi complessiva del Ventennio), tali posizioni dimostrano una notevole subalternità alle parole d’ordine mainstream. Considerare il fascismo come una “parentesi” della nostra storia unitaria, sospeso tra l’elitario sistema liberale precedente e la Costituzione socialdemocratica poi disattivata dalla controrivoluzione neoliberale, è un clamoroso abbaglio, che deriva da una fragile ma duratura letteratura… liberale.
Il più celebre esponente di questa tesi fu Benedetto Croce, che nelle sue opere storiografiche era interessato a legittimare una restaurazione del vecchio sistema liberale, monarchico e notabilare in seguito alla disfatta fascista nella Seconda Guerra Mondiale. La “parentesi” fascista, secondo questo filone, avrebbe interrotto improvvidamente un percorso accidentato eppure foriero di progresso e razionalità, che si trattava di ripristinare allontanando illusioni iper-democratiche. Il centro equilibratore del sistema avrebbe dovuto tornare ad essere la Corona, messa ai margini dalla dittatura mussoliniana.
A partire da una simile interpretazione, conosciuta o anche solo introiettata, e assistendo oggi alla furia disgregatrice di quelle politiche neoliberali che Croce avrebbe senz’altro sostenuto, è comprensibile che un esponente non troppo attrezzato della galassia anti-sistema possa essere portato a vedere nel fascismo, per contrasto, un fenomeno irriducibile al liberalismo, e per questo degno di attenzione o addirittura di stima. Se le premesse del Croce venissero rigettate, tuttavia, cadrebbe anche il suddetto automatismo, e il fascismo tornerebbe ad essere connesso intuitivamente al regime liberale che lo precedette e che, in buona misura, ne favorì coscientemente l’ascesa al potere.
Non è un caso, sia detto per inciso, che dal sistema (neo)liberale oggi vigente promani una vuota retorica anti-fascista, talvolta frutto di lucido cinismo, talaltra di pura ignoranza, ma pur sempre strumentale ad alimentare l’idea di una artificiosa lontananza storica tra il liberalismo e il fascismo o, ancor peggio, a suggerire surrettiziamente una vicinanza, altrettanto artificiosa, tra fascismo storico e socialismo, con la ridicola assonanza tra il Mussolini socialista direttore dell’“Avanti” e il Mussolini “Duce”, come se la traiettoria personale e politica di un singolo, per quanto rilevante, potesse racchiudere in sé un intero movimento politico e culturale, di portata ben più che nazionale.
Se il fascismo, come crede chi scrive, non è stato affatto “parentesi”, occorre dimostrarne la sua compatibilità con il precedente sistema liberale. La posta in gioco, in altre parole, riguarda la natura stessa del fascismo, se fosse essa rivoluzionaria o reazionaria.
Riservando ad altre più opportune sedi un’analisi di dettaglio, basterà qui rispondere brevemente a due questioni originarie sul fenomeno fascista:
– in che contingenza si verificò la nascita e la crescita dei consensi del Partito nazionale fascista (PNF)?
– quale fu l’atteggiamento in merito della classe dirigente liberale?
Riguardo al primo tema, occorre riportare la memoria collettiva a un periodo ben poco studiato nelle scuole e nelle università, che gli storici hanno denominato “biennio rosso”. In seguito alla “vittoria mutilata” della Prima Guerra mondiale, tutte le contraddizioni dello sviluppo economico squilibrato dei decenni precedenti vennero a galla, saldandosi con il senso di rivalsa e di precarietà del ceto medio di recente formazione, le cui aspettative riguardo all’intervento italiano nella Grande Guerra erano state ampiamente tradite. Nel 1919 e nel 1920 si palesò inoltre la profonda insoddisfazione dei braccianti agricoli e degli operai, che diedero vita alla più vasta ondata di scioperi e agitazioni sindacali che il giovane Stato unitario avesse mai conosciuto, essendo colpiti nello stesso tempo dall’inflazione e dalla disoccupazione. In tale contesto, nonostante la frammentazione ideologica che regnava nel Partito socialista, l’impressione che quella organizzazione politica suscitava nelle classi dirigenti politiche e industriali era di grande forza, data la capacità di mobilitare gli operai di fabbrica e la retorica rivoluzionaria sia dei massimalisti, al tempo maggioritari, che dei futuri comunisti guidati da Gramsci, Togliatti e Bordiga, a cui rispondeva il riformismo della corrente Turati.
Dal punto di vista liberale, tuttavia, la minaccia non proveniva solo da sinistra. Con la fondazione del Partito popolare, nel 1919, i cattolici si erano organizzati politicamente e ambivano a coagulare le forze avverse al Partito socialista, anche attraverso organizzazioni popolari di massa alternative a quelle “rosse”. Lo spazio per il liberalismo riformista di Giolitti e Zanardelli, dunque, sembrava irrimediabilmente ristretto.
Per il grande capitale italiano, nel complesso nettamente rafforzato dalla guerra – sulla quale aveva potuto lucrare più alti margini di profitto – il pericolo risiedeva nella potenziale saldatura, sollecitata in particolare da Gramsci, fra gli operai del Nord e i braccianti agricoli del Sud, e tra queste due classi e la piccola borghesia minacciata dall’instabilità economica. Era quest’ultima l’ago della bilancia, per la sua posizione intermedia tra classi lavoratrici e classe imprenditoriale e per il suo peso crescente in una società industriale in via di definitiva maturazione. Per mobilitarla in senso reazionario non potevano più bastare le logore strutture politiche liberali, pensate per un’Italia in cui i partiti di massa ancora non esistevano e delegittimate dall’avventura militare. Serviva una forza eguale e contraria a quella socialista, che unisse tuttavia alla retorica democratica e popolare un programma reazionario, mascherato dalla vulgata securitaria e nazionalista e quindi in grado di far presa sulle classi sociali mediane, le quali, data la loro precaria posizione di privilegio, erano nel complesso impaurite dalla prospettiva di una rivoluzione proletaria autenticamente egualitaria.
Emblema della ricetta pseudo-popolare indirizzata alle classi medie era appunto il manifesto fascista del 1919, fondativo del partito. Come sostiene lo storico Massimo L. Salvadori, nella sua Storia d’Italia, “il programma del movimento fascista, reso pubblico il 6 giugno 1919 e successivamente integrato, si presentava […] come una contaminazione di nazionalismo imperialistico e di rivendicazioni democratiche e sociali. Un programma che bene esprimeva le oscillazioni di strati piccolo-borghesi in posizione intermedia tra borghesia e proletariato, nonché il proposito di porsi in concorrenza col socialismo antinazionale e dissolutore della disciplina sociale”.
E tuttavia, già “al II Congresso nazionale del maggio 1920 il fascismo aveva esplicitamente messo in soffitta il radicalismo sociale del 1919” e Mussolini “nel gennaio 1921 fece un’aperta professione di fede nei valori «insostituibili» del capitalismo”1. Con le prime dure sconfitte delle agitazioni operaie e del Partito socialista, e con i manganelli a pieno regime, per lo più tollerati dal sistema di potere liberale, il pendolo fascista cominciò così a oscillare molto presto dalla parte del capitale, sebbene l’ambiguità tra disciplina sociale (cioè del lavoro) e prospettive para-rivoluzionarie non venne mai meno, informando tutto il Ventennio e trovando una sua sistemazione teorica nella filosofia politica del corporativismo.
Come ebbe a dire lo stesso Mussolini nel 1919, rivestendo a modo suo nient’altro che la solita narrazione interclassista di matrice liberale:
“Noi ci permettiamo il lusso di essere aristocratici e democratici; conservatori e progressisti; reazionari e rivoluzionari, legalitari e illegalitari, a seconda delle circostanze di tempo, di luogo e di ambiente”2.
In merito al secondo quesito, è facile dimostrare fonti alla mano la connivenza liberale verso l’ascesa fascista. Si sostiene spesso, quasi a giustificarla, che si trattò di una manovra ingenua ma a fin di bene, da parte di una classe dirigente convinta di poter assimilare lentamente il fenomeno squadrista nelle istituzioni tradizionali, spegnendolo pian piano. Non vi è dubbio che fosse così, per quanto riguarda almeno una parte degli esponenti politici liberali che vi si prestarono, ma ai fini di una compiuta valutazione storica occorre considerare la funzione oggettiva che svolgono i soggetti collettivi, non rilevando in alcun modo quali siano le aspettative individuali. Così facendo, si può concludere senza tema di smentita che la classe dirigente liberale, in ciò spinta convintamente dal grande capitale nazionale, assecondò i fasci di combattimento in funzione anti-socialista e anti-democratica, perché non vi era, e non vi era stata nemmeno nei decenni precedenti, la volontà di includere le classi popolari nelle istituzioni della democrazia monoclasse borghese. I liberali, lungi dall’essere essi stessi fascisti, preferirono tuttavia il rischio dell’aperto autoritarismo (che avevano talvolta praticato in prima persona durante le più preoccupanti sommosse popolari otto-novecentesche) al rischio opposto della democrazia di massa.
Non erano soli, in ciò essendo sostenuti anche dal liberalismo internazionale, se è vero, come riporta l’economista Clara Mattei, che “«The Times» salutò con entusiasmo l’avvento di «un governo contro gli sprechi» e riportò il discorso inaugurale di Mussolini” e che “nel 1926, quando il fascismo aveva ormai mostrato il suo vero volto, il governatore della Banca d’Inghilterra e figura emblematica del liberalismo, Montagu Norman scrisse: «il fascismo ha sicuramente portato ordine nel caos degli ultimi anni: qualcosa del genere era senza dubbio necessario per evitare che il pendolo oscillasse troppo nella direzione opposta. Il Duce era l’uomo giusto nel momento critico», con missiva “indirizzata al suo amico e collega Jack Morgan Jr, proprietario della J.P.Morgan Chase Bank, che è tuttora la banca più importante negli Stati Uniti e che giocò un ruolo vitale di sostegno finanziario al regime”3.
Gli esempi potrebbero sprecarsi, ma non si può dimenticare la valutazione del maggiore esponente italiano del liberalismo, Luigi Einaudi, che sostenne, a fascismo quasi in sella, che «il programma del fascismo (era) nettamente quello della tradizione liberale classica»4.
Poco rileva che dopo la crisi finanziaria globale del 1929 si aprì una nuova fase di politica economica, in certa misura interventista, e il fascismo concepì istituti che vennero in parte mantenuti durante la cosiddetta Prima Repubblica, perché la tendenza fu internazionale e perché è tipico del capitalismo reale, ben differente dal capitalismo da manuale, piegare le leve statali ai fini dell’accumulazione, a meno di non voler considerare Mario Draghi, fautore prima del Quantitative Easing e poi, oggi, di una proposta fondata su un ampio intervento pubblico di politica industriale, un socialista in maschera.
Tutto ciò considerato, non può sorprendere la persistenza con cui viene diffusa dagli organi liberali la tesi crociana del fascismo come “parentesi”. Destoricizzare il fascismo è, in effetti, la via più semplice ed efficace per occultare la natura storica, reversibile e classista del liberalismo.
1 Massimo L. Salvadori, Storia d’Italia. Il cammino tormentato di una nazione. 1861-2006, Einaudi, 2018, edizione Kobo.
2 Ibidem.
3 Clara E. Mattei, L’economia è politica, Fuoriscena, 2023, edizione Kobo.
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