Tra fine maggio e inizio giugno le cronache si sono occupate in più momenti del mondo della scuola per una notizia particolare: il caso di un’istituto secondario di primo grado del trevigiano in cui l’insegnante di lettere, dopo aver chiesto un parere alle famiglie, ha deciso di esonerare gli studenti mussulmani della sua classe dallo studio di Dante e della Commedia.
Ora, va fatta una premessa: già nelle scuole secondarie di II grado non si possono presentare certo tutti i canti del poema, ma solo quelli più famosi e suggestivi, e questo vale ancor più alle medie, dove all’interno di una selezione antologica più generale capita di affrontare anche passi di Dante. Fra i papabili da portare in aula, solitamente, non rientra Inf. XXVIII, canto oggi come in passato al centro dell’attenzione per la presenza di Maometto (lì in quanto scismatico e non come mussulmano, perché il poeta si rifà ad una leggenda medievale secondo cui Maometto era un membro del clero cristiano che, deluso dal papato, aveva fondato una nuova corrente).
Intellettuali, giornalisti e politici di ogni schieramento hanno commentato l’accaduto, esprimendo contrarietà per questa forma di autocensura. Come prevedibile, politici e opinionisti di destra (si vedano certi interventi su La Verità) sono quelli che hanno levato subito gli scudi in maniera scomposta, gridando al pericolo degli immigrati, all’invasione mussulmana che cancella la nostra identità etc.
Già in passato, in questa sede, mi sono occupato di un episodio analogo, che riguardava lo stesso canto dantesco (Dante, Maometto e Charlie Hebdo: segni di una crisi persistente). Per esser chiari subito, oggi come allora penso che la scelta di rimuovere Dante o sue parti da edizioni e programmi di scuola sia sbagliata, come ogni episodio di cancel culture. Il punto, però, è non fermarsi a questa semplice constatazione, soprattutto con reazioni istintive e superficiali, come invece hanno fatto in tanti. E ancor più bisogna evitare atteggiamenti segnati dalla discutibile ostentazione di orgoglio nazionale (e occidentale), o peggio ancora l’idea di una guerra culturale contro presunte invasioni.
C’è chi si è espresso a difesa della tradizione, chi ha sottolineato la generale frammentazione di programmi scolastici e relative verifiche, di qui questo episodio sarebbe solo un caso ad hoc. Addirittura, ci sono stati ministri che hanno fatto affermazioni fuori luogo e sgradevoli, chi parlando di demenza dei comportamenti (non si sa se dell’insegnante, delle famiglie o di entrambe le parti) e chi gridando al pericolo di sottomissione all’Islam. Il ministro dell’istruzione, con toni certo più pacati, ha predisposto un’ispezione nella scuola, scelta più che altro deleteria però, che rischia di esacerbare il problema di fondo, non messo in evidenza: la polarizzazione estrema e nociva del dibattito pubblico nei rapporti con una cultura altra. Davanti a contrasti interculturali l’unica possibilità è la comprensione reciproca, e non serve a nulla sventolare la bandiera dell’integrazione forte a cui gli altri dovrebbero sottostare per essere accolti, perché solo se entrambe le sensibilità sono rispettate si può sperare di risolvere il problema.
Oggi come allora Dante cade al centro di contrapposizioni che in realtà stanno altrove, ma che si riflettono sugli oggetti della sfera culturale in cui siamo inseriti. Negli anni passati, i contrasti erano legati agli attentati di matrice islamica in capitali come Parigi e Bruxelles, motivati in più casi dalle vignette satiriche di Charlie Hebdo. Oggi si tratta della situazione in Medio Oriente, con le manifestazioni che ne sono scaturite in tutto il mondo. Questo ci fa capire la forza comunicativa della grande poesia, e anche la sua complessità: non tanto nel senso della difficile interpretazione, ma per il peso che ha in base al modo in cui viene recepita, con i rischi di fraintendimenti a cui è esposta, e che rivelano la fragilità di questo patrimonio in un contesto caotico come quello odierno.
Qualche anno fa intervenni perché, in risposta alla drammatica situazione del terrorismo, una traduttrice fiamminga aveva deciso di rimuovere il nome di Maometto dal poema per non offendere i lettori mussulmani. La scelta fatta dalla docente trevigiana è equivalente, lo scrupolo muove in entrambi i casi da un principio buono e valido, il problema è come lo si è applicato, e forse con le famiglie si sarebbe potuto cercare un confronto sì, ma di tipo diverso. Credo che la rimozione aumenti in realtà i rischi di incomprensione, e dunque anche la possibilità che venga percepita un’offesa viva dove in realtà non c’è, in sé e soprattutto perché un testo passato rappresenta un’alterità storica, da conoscere autenticamente e non da piegare ai parametri morali che ci contraddistinguono oggi: queste sono valutazioni che possono, e in certi casi devono emergere, ma in un secondo momento, e con altri scopi (non la rimozione), certo non in fase conoscitiva . L’idea di un’ispezione ministeriale è sbagliata poi perché va a sanzionare una scelta che, per quanto discutibile, è stata in grado di cogliere un possibile disagio presente in parte della società. Sarebbe stato più interessante partire da questa occasione per avviare un tavolo di confronto e dialogo.
Cancellare dal nostro passato (testi ed oggetti culturali) ciò che non ci piace (anche a ragione in certi casi), o che può non piacere ad altri, è un’operazione dannosa, e non solo perché la memoria – anche quella di aspetti sgradevoli – è fondamentale come monito: se non siamo in grado di confrontarci con l’altro lontano da noi nel tempo, senza manipolarlo e accomodarlo alle nostre esigenze, come potremo essere in grado di interagire con l’altro vicino a noi in modo fruttuoso?
È su questo terreno che si gioca la sfida culturale che l’Europa tutta ha davanti a sé in questa difficile fase storica, in cui gretti nazionalismi tornano a prendere sempre più piede.
Il dibattito polarizzato spingerà sempre verso atteggiamenti inadeguati, in campo politico e culturale, tanto a destra quanto a sinistra. Da una parte si assisterà al rifiuto in nome di una tradizione da preservare, possibilmente pura, e dall’altra ci saranno tutti gli atteggiamenti che vanno sotto il nome di cancel culture. Lo studio di Dante non serve a darci insegnamenti morali concreti, da mettere in pratica nel mondo d’oggi (semmai vi possiamo trovare valori umani universali, ma non è questo il punto). E certo non serve per imparare a condannare Maometto o altre figure. L’obbiettivo deve essere guidare attraverso un incontro culturale, inteso come comprensione della diversità: diversità che, beninteso, può anche non piacerci in certi casi, possiamo non condividere in tutto o in parte, ma dobbiamo cercare di capire per come è, perché solo così possiamo poi sviluppare, a partire da quella solida base di conoscenza, ulteriori riflessioni e discussioni. Gli studi umanistici rappresentano per la società d’oggi una grande occasione in questo senso, una vera e propria palestra per riuscire ad apprendere il giusto atteggiamento filologico nell’incontro con gli altri e la loro specificità, senza alcuna manipolazione.
Questa ambizione richiede uno sforzo che riguarda tutti noi, occidentali e mussulmani, se vogliamo esprimerci così, per farci capire e non per convinzione. Il rischio di incomprensione sta da entrambe le parti: se alcuni possono fraintendere Dante e averne percezioni negative altri, pur sostenendo diritti importanti, rischiano di reagire in modo rigido davanti ad altri aspetti culturali, e così inficiano lo scambio. Mi sembra emblematico un altro episodio di fine maggio. L’università di Torino è stata occupata, come tante altre, per chiedere la fine del massacro a Gaza e l’interruzione di quei rapporti con atenei israeliani che prevedono collaborazioni con possibili applicazioni belliche. In quei giorni gli studenti mussulmani attivi nella mobilitazione hanno voluto fare un momento di preghiera, finito poi al centro del dibattito pubblico, con lamentele su diversi aspetti: la guida religiosa avrebbe fatto un comizio politico; maschi e femmine erano divisi; è stata usata la parola jihâd.
In una piena convinzione laica, luoghi come la scuola e l’università non devono certo impedire agli studenti di avere momenti di raccoglimento spirituale, anche durante la giornata fra le aule, ma non dovrebbero comunque ospitare in modo istituzionale guide, simboli e rituali religiosi, proprio per garantire ad ogni singolo la sua libertà di credo senza manifestazioni privilegiate. Anche nel caso torinese, stando a questa regola generale, l’ambiente universitario non era il più adatto ad ospitare la preghiera mussulmana, ma forse dovremmo riconoscere un’attenuante nel fatto che non era l’istituzione accademica (lo stato) a infrangere il principio di laicità, bensì un gruppo di singoli che in una manifestazione civile per il cessate il fuoco a favore dei palestinesi si è anche voluta raccogliere in un momento di preghiera. Era un’esigenza legittima e spiritualmente comprensibile, anche se il luogo poteva in effetti apparire non del tutto appropriato, per i valori che deve rappresentare e il dialogo che deve favorire. Ma in una situazione di tensione le sviste sono all’ordine del giorno, soprattutto per una comunità che partecipa in modo vivo al dolore presente. Bisognerebbe allora cercare di fare il possibile per sciogliere questa tensione, e non alimentarla con reazioni rigide.
Al di là poi della scelta di fondo fatta dai ragazzi, può essere interessante riflettere sui vari punti concreti diventati oggetto di critica formale. Nei periodi in cui l’attualità presenta situazioni drammatiche, i sacerdoti non vi fanno riferimento, anche per chiedere di pregare per la pace? Anche in quei casi dovremmo parlare di comizi politici? Può darsi ma allora, se non rimproveriamo agli officianti cristiani tale scelta, proprio per l’imparzialità laica dobbiamo riconoscere lo stesso diritto anche a rabbini e imam. A Torino, manifestando contro la guerra in Medio Oriente, si è fatto riferimento a Gaza, al dolore dei palestinesi, e gli studenti hanno pregato affinché quel popolo riesca a resistere alle violenze in atto.
All’interno dello spazio usato in università era presente poi una mezza parete divisoria. La liturgia islamica prevede la separazione fra uomini e donne durante la preghiera, e dato che lo spazio lo consentiva gli studenti hanno seguito le forme tipiche del loro rituale. Questo punto crea maggiori difficoltà: la religione cristiana ha subito un’evoluzione e ha superato questo tipo di pratiche ma, prima di avanzare critiche all’Islam, dobbiamo ricordare che la stessa divisione era presente nelle chiese fino a meno di un secolo fa (e la società occidentale è ben lontana dalla parità di genere). Questa abitudine può non piacere, io stesso non la condivido, e di certo non è adatta ai luoghi dell’istruzione. Ma una volta ribadita questa presa di posizione laica, legata soprattutto all’ambiente in cui si trovavano gli studenti, dobbiamo anche dare ad ogni singola cultura i suoi tempi e modi specifici di cambiamento, senza imporci con idee di superiorità. Dobbiamo piuttosto cercare di capire, chiedere informazioni su cui poi confrontarci. Nello spazio mediatico però il singolo episodio è diventato un appiglio per criticare le forme in sé della religione altrui. E infine, jihâd: parola estremamente complessa, la cui storia è stata deviata e segnata dal fondamentalismo, che ne ha fatto un suo segno distintivo. Dobbiamo dunque trattarla con estrema cautela, ma è anche vero che come tutte le lingue pure l’arabo ha una sua storia, e le parole presentano una stratificazione di significati, alcuni precedenti alle manipolazioni imposte dalla violenza di vari regimi. Insistere in occidente sulla sola traduzione «guerra santa» – senza contemplare l’ipotesi di riscoprire i significati passati del termine – è una scelta che serve solo a fomentare atteggiamenti scorretti, facendo il gioco di quei terroristi che deformano la religione per scopi ignobili. Da quanto ho potuto ricostruire, partendo in particolare da edizioni critiche del Corano, il termine arabo ha come significato base originale «sforzo» teso verso Dio. Il piccolo jihâd poteva essere una guerra, in senso difensivo (il Corano specifica alla 2° Sura che Dio acconsente solo alla guerra di difesa, non ama gli aggressori). Ma il grande jihâd, più importante, consiste nello sforzo interiore continuo del fedele per migliorarsi, sotto vari punti di vista, per avvicinarsi alla misericordia di Dio. Naturalmente la parola ha il significato crudele che tutti percepiamo in modo immediato, perché qualcuno gliel’ha attribuito. Ma così come dobbiamo chiedere ai ragazzi mussulmani a scuola di andare oltre la prima impressione sul testo di Dante, porsi domande e capire la realtà storica, allo stesso modo noi dobbiamo ricordare il significato non alterato del termine jihâd, che resta una possibilità d’uso, e che potrebbe essere ciò a cui fanno riferimento certe persone nel servirsi del vocabolo. Per il Maometto di Dante così come per il termine arabo occorre fermarsi, porre il dubbio, interrogare e decostruire il caso specifico: non difendere a priori certo, ma nemmeno attaccare.
Se continuiamo ad attribuire le cause di incomprensione solo all’altro, se pretendiamo che si adegui in tutto senza fare noi un passo analogo, il problema persisterà. Naturalmente ci sono aspetti problematici nei versetti coranici rispetto alla sensibilità attuale – occidentale e non – ma lo stesso accade se si legge per esteso la Bibbia (ebraica e cristiana), anche se l’opinione pubblica non si sofferma su questo aspetto: entrambi sono testi sacri per diverse religioni, ma anche testi culturali, calati in un momento storico, e da valutare tenendo conto di questo aspetto.
Operare secondo una logica oppositiva di torto e ragione netti, senza analizzare e affrontare effettivamente i punti di possibile contrasto, può solo aggravare la polarizzazione, e ciò finisce col proiettare le storture del contesto geopolitico su arte e cultura, offuscando il senso della letteratura.
Oggi, forse ancora più che in passato, le tensioni sono altissime per la tragedia in corso a Gaza. Le azioni spaventose di Hamas sono una terribile evidenza che tutti abbiamo presente. Ma non si possono negare la sofferenza dei palestinesi (crimine di guerra, pulizia etnica o genocidio) e le istanze che la popolazione mussulmana in vari paesi del mondo cerca di far sentire, affiancata da persone di altre fedi, in primis tanti ebrei. L’Occidente delle piazze, dei giovani, reagisce con sdegno, seguito in questo dalla Corte di Giustizia Internazionale, dall’Assemblea Generale dell’ONU e da Guterres (ma non dal Consiglio di Sicurezza). Però, salvo rare eccezioni, come ad esempio la Spagna socialista di Sanchez, la classe politica e mediatica di molti paesi purtroppo ha preso in questi mesi posizione in modo inadatto, non ha saputo dare risposte culturali, emotive e morali, così come non è riuscita a condannare apertamente i crimini del governo di Netanyahu, facendo passare, in modo insensato, ogni osservazione al riguardo come una forma di antisemitismo, e di conseguenza scaricando tutta la colpa sui palestinesi come se fossero una realtà indistinta.
In questo clima si colloca e va letto anche quanto accaduto nella ridotta realtà della scuola, perché l’episodio rivela le percezioni che persone di fede mussulmana possono avere partendo da determinati oggetti culturali nel contesto sociale attuale, in cui non ricevono dalla politica e dall’informazione le risposte che invece servirebbero. Tutto ciò ha ricadute anche sulla vita scolastica, sulla pratica concreta delle lezioni, sugli argomenti del programma di studi, coi riferimenti e gli oggetti culturali che si evocano. Io, nella mia esperienza di docente a scuola, non ho sperimentato questo su Dante, ma ho visto la situazione attuale riflettersi nelle dinamiche di una delle mie classi con studenti di fede mussulmana, durante le ore di educazione civica e storia: i ragazzi sono turbati dalle notizie, e non sono compresi dai compagni finché non si cerca di favorire un dialogo per superare alcuni stereotipi. E allora diventa chiaro come il malessere trovi terreno fertile se scambio e dialogo, a partire dalla formazione, si riducono invece di ampliarsi. Così è stato ad esempio dopo l’episodio torinese, perché chi aveva guidato la preghiera, invitato in alcuni salotti televisivi, non ha avuto l’effettiva possibilità di dare spiegazioni o ricevere domande autentiche sui vari punti, dato che critiche monodirezionali e stereotipi hanno preso il sopravvento.
L’unico modo per superare la crisi delle incomprensioni è conoscere, porre domande e anche avanzare dubbi, chiedere e ascoltare, per riflettere poi insieme. Così per il Corano come per Dante, e in particolare per il canto dove si trova Maometto. La scelta della traduttrice fiamminga tre anni fa non poteva essere condivisa, ma fermarsi a riflettere sui motivi che l’avevano animata poteva essere in realtà un’occasione per far partire il confronto. Il caso della scuola trevigiana oggi ci offriva una seconda occasione, anche se sembra che sia stata sprecata. Non ci può essere un’accettazione passiva della rimozione del grande poeta dalle aule scolastiche, anche fosse solo per certi alunni, perché vorrebbe dire far perdere un patrimonio culturale importantissimo. Non dobbiamo attaccare però in modo miope docente e famiglie, perché l’episodio doveva diventare l’innesco per un vero dibattito: spiegare effettivamente il valore del testo di Dante e delle scelte lì fatte, in un dato momento storico, e certo non come insegnamenti di comportamento per l’oggi; ascoltare e capire le sensazioni che persone con un diverso background culturale e religioso possono provare davanti a quei versi, quando non viene offerta una contestualizzazione in grado di allontanare il rischio di una ricezione calata in modo erroneo solo sul nostro presente. Alcuni avrebbero potuto comprendere il disagio di certe persone, e spiegarsi per far capire che non c’era motivo di leggere la poesia attraverso quel filtro, e allora i presunti offesi avrebbero sciolto i dubbi e rimosso il disagio (non la cultura). A questo dovrebbe servire l’istruzione.
Il dialogo avrebbe potuto portare a riflettere anche su una modifica dei programmi in realtà, ma in vista di un arricchimento, nel solco tracciato da una lungimirante studiosa come Maria Corti (sulla scorta degli stimoli dei pionieristici studi di inizio ’900 dello storico spagnolo Miguel Asín y Palacios): i legami di Dante con la cultura islamica, aspetto alle volte (anche se non abbastanza) illustrato nelle università, ma che potrebbe trovar posto anche nelle spiegazioni scolastiche. Il XXVIII canto dell’Inferno, allora, potrebbe diventare effettivamente uno fra i più letti, e non per le polemiche, ma per il suo alto valore letterario, storico e formativo, anche in senso interculturale, accostandogli la lettura di quei testi del mondo mussulmano che Dante stesso conosceva in traduzione latina e di cui si era servito, in quell’episodio e altrove (il Corano e poi il Libro della Scala). In questo modo potremmo contestualizzare Dante nel modo migliore per tutti – cristiani mussulmani e atei –, avvicinare i giovani, le famiglie, la cittadinanza intera, ad un patrimonio culturale interessante, ricchissimo, purtroppo poco conosciuto, spesso maltrattato dai nostri politici, allontanato come qualcosa di estraneo, e invece, evidentemente, connesso profondamente a quelle che alcuni vogliono fissare come le nostre uniche radici.
Postilla sulla laicità
In Italia c’è ancora tanto da imparare al riguardo, come dimostra l’annosa questione del crocifisso nelle aule scolastiche, nell’incuranza generale che fra i ragazzi possono esserci atei o credenti di altre religioni, che non si sentono rappresentati da questa imposizione. E ancora, in varie cerimonie pubbliche ufficiali continuano ad essere presenti dei momenti officiati da preti, e non ci fermiamo a considerare che questa scelta è sbagliata, soprattutto perché non vengono loro affiancati rabbini, imam e altri, e viene così meno l’equidistanza che lo stato laico deve mostrare per ogni fede. E alcuni nostri politici si permettono di evocare la laicità – però fraintesa parziale e interessata – solo davanti ad altre fedi, perché quando si tratta di questo simbolo affisso davanti ad ogni giovane cittadino, si ignora tranquillamente l’art. 8 della Costituzione. Ma anche in Francia negli ultimi anni i sociologi hanno riscontrato un’appropriazione dis-funzionale della laicità da parte dei politici di destra. E proprio questa situazione dovrebbe portare a ritornare su questo valore imprescindibile, per farlo crescere ulteriormente (nulla può essere acquisizione in sé compiuta e definitiva, anche i valori giusti evolvono, si approfondiscono e maturano).
Davanti a questa situazione mi chiedo, da agnostico, se il passo in avanti per la laicità non possa essere in chiave interculturale, dunque andando oltre la mera coesistenza. La laicità dello stato potrebbe garantire lo spazio per le diverse fedi, nel rispetto reciproco, e soprattutto nella possibilità di interagire: solo così si superano le incomprensioni. Ma come si può interagire quando si pensa debba sussistere una sorta di confinamento, una mutua esclusione dallo spazio pubblico (distinto dalla sfera pubblica)? Non è possibile riempire le pareti di una classe con infiniti simboli religiosi, per rappresentare tutti, questo è vero. Ma laicità come equidistanza dello stato potrebbe, in altri casi, non limitare più la religione (che è anche fatto culturale) ai luoghi privati, per andare invece verso la piena compresenza da cui può nascere lo scambio (strada che tra l’altro gli stessi costituenti forse volevano indicarci nell’art. 19, parlando di libertà di fede, da esercitare nel privato e nel pubblico). Se la coesistenza non si declina nell’interazione viene meno la possibilità di confronto e di conseguenza aumentano le incomprensioni. Una laicità radicale, come esclusione di ogni credo dai luoghi condivisi, oltre a non essere effettiva – alla fine qualche fede viene sempre favorita – rischia di indurre percezioni che col tempo si possono rivelare deleterie.
(In queste mie sparse riflessioni ho in mente alcuni interventi nell’ambiente del Centro Interdisciplinare Scienze per la Pace di Pisa, con la rivista «ScienzaePace», e poi alcune analisi e proposte del sociologo Jean Baubérot).
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