#Americana2
di GABRIELE GERMANI (Pagina FB)
#Americana2
Il periodo di fine Ottocento – Inizio Novecento è quello che chiamiamo età dell’imperialismo o degli Imperi. In questi decenni, buona parte del globo, si ritrovò sotto il controllo di una decina di nazioni.
L’Occidente (che all’epoca includeva anche la Russia, al netto delle sue peculiarità) governava il mondo e portava sistematicamente avanti dei genocidi.
Ieri abbiamo accennato alle guerre indiane, ma anche la Germania non andò leggera in Namibia dove il 75% della popolazione Herero fu uccisa, infine tutte le nazioni occidentali parteciparono alla repressione della rivolta dei Boxer in Cina.
Gli USA in questo periodo si affacciarono all’imperialismo marittimo, passarono da una fase isolazionista (in cui dovevano finire di costruirsi dentro) a una fase espansiva e la corsa nel Pacifico: Hawaii, Filippine, Guam e porta aperta in Cina e Giappone era, in qualche modo, continuità ideale della corsa al West, ora sui mari invece che via terra.
Il salto di qualità fu apportato dal conflitto europeo, dalla I Guerra Mondiale, in cui gli USA si trovarono a dover intervenire (inizialmente controvoglia) a sostegno degli Alleati (Regno Unito, Francia, Belgio, Italia) contro gli Imperi Centrali. In Nord America, l’uso della propaganda bellica per creare “la guerra giusta” era macchinario già rodato, si era creata la mitologia di Alamo, da una nota battaglia combattuta col Messico e si era replicato lo schema da parte del Nord vincitore contro il Sud schiavista. In Europa, si combatteva per l’autodeterminazione dei popoli, la democrazia e contro la tirannide monarchico-imperiale.
La guerra andò come andò e lasciò il Regno Unito più debole di prima, anche se formalmente più esteso. Il PIL USA e il reddito medio si avviava al sorpasso e ormai anche militarmente Londra cedeva il passo.
L’egemonia passò Oltreoceano pacificamente, Londra conservò il mercato dell’oro e delle assicurazioni, mentre New York diventava il cuore del capitalismo mondiale (con tutte le contraddizioni tra scioperi e maltrattamenti alla classe operaia).
Negli Anni Venti gli USA vissero le contraddizioni di un paese giovane e in rapida crescita: il proibizionismo, il fondamentalismo religioso, ma anche il jazz, la letteratura e il primo cinema.
In quegli anni (1929), Faulkner scrisse “L’urlo e il furore”, un testo caotico, barocco e sconcertante per il lettore, era il canto del cigno del Sud anglicano e aristocratico; poco prima (1926) Fitzgerald aveva scritto “Il grande Gatsby”, la storia delle feste dei milionari, un assaggio di quello che sarebbe stato Hollywood.
Ma l’America profonda viveva ben altra storia: privazioni, segregazioni razziale, una lotta feroce per sradicare alcolismo diffuso (favorito dalla povertà e dai duri ritmi di lavoro); oltre venti anni dopo la sua uscita (1906), la società USA ricordava più “La giungla” di Sinclair, che le feste dei milionari.
Milioni di persone arrivavano parlando altre lingue, talvolta bambini soli, con un sacchetto con dentro poco cibo, i più fortunati un abito o delle scarpe e venivano rilasciati sui porti. Partirono a milioni dall’Europa e dal Medio Oriente: chi scappava dalla guerra, chi dalla povertà, chi dai terremoti, chi dalla malaria, chi dalla galera.
Tutti volevano diventare Gatsby, ma più probabilmente sarebbero diventati (almeno per un lungo periodo iniziale) Sacco e Vanzetti.
Gli imperi si creano sul sangue dei nemici esterni e delle classi sociali più basse all’interno.
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