Consigli di classe. Scuola, democrazia e società, rubrica a cura di Mimmo Cangiano
Il punto cieco
L’annuncio del governo Meloni di voler introdurre i voucher scolastici, permettendo alle famiglie di scegliere tra scuola pubblica e privata, si inserisce in una narrazione ben precisa: la destra sovranista e postfascista accusa le politiche scolastiche della sinistra di essere la causa del degrado della scuola pubblica. Rispetto ai classici temi neoliberisti sullo “spreco” delle risorse pubbliche, FdI ha seguito la linea populista introdotta da Ricolfi e Mastracola nel saggio Il danno scolastico. Secondo questa retorica, il modello progressista, centrato sull’inclusione, avrebbe sacrificato il merito e l’eccellenza, lasciando paradossalmente le classi lavoratrici intrappolate in un sistema scolastico inefficiente e incapace di offrire strumenti di mobilità sociale[1].
La pedagogia di sinistra, come noto, tende invece a negare l’idea stessa di un abbassamento del livello della scuola, interpretandolo come un attacco ideologico volto a giustificare modelli selettivi ed escludenti. Il problema, semmai, è che la scuola non è abbastanza inclusiva, confermando in modo speculare le chiacchiere interessate della destra sulla scuola e proponendo una falsa dicotomia tra nostalgici di Gentile e apostoli di Dewey. Questa negazione è infatti del tutto funzionale ad una proposta moralistica di segno opposto: la scuola si riforma riformando l’insegnamento. È diventata quasi una barzelletta che la risposta ad ogni problema della scuola si traduca sempre in “più formazione per i docenti!”.
È uno scontro tra ciechi. La crisi della scuola è profondamente legata alla natura iper-capitalistica della società in cui opera, una società segnata da conflitti di classe che determinano le sue istituzioni e ne modellano i limiti strutturali. La centralità delle dinamiche di mercato nelle scelte politiche degli ultimi decenni ha portato a un disinvestimento sistematico nella scuola pubblica, sia in termini di risorse economiche che di riconoscimento sociale. Il declino della scuola pubblica non è infatti un fenomeno contingente legato a cattive scelte pedagogiche o politiche. È il risultato di un processo strutturale: in una società iper-capitalistica, la scuola è destinata a impoverirsi perché la forma del sapere che essa incarnava e la sua funzione di integrazione sociale è incompatibile con le esigenze di un mercato globalizzato e di una società sempre più scossa dalla finanziarizzazione dell’economia. Questa contraddizione si riflette nella progressiva perdita di autonomia della figura del docente, nella burocratizzazione del lavoro scolastico e nella marginalizzazione del sapere disciplinare.
Sia la destra che gli ultrapedagogisti di sinistra falliscono nel cogliere questa dimensione materiale. La destra, con la sua retorica del merito, si limita a proporre soluzioni privatistiche che accentuano le disuguaglianze esistenti. Gli ultrapedagogisti, con il loro approccio idealistico, cercano di compensare la crisi della scuola con proposte psico-didattiche che ignorano le dinamiche economiche e sociali alla base del problema. Per affrontare veramente la crisi della scuola, è necessario superare queste visioni parziali e riconoscere il legame profondo tra il declino del sistema educativo e i conflitti di classe che attraversano la società. Solo una prospettiva materialista, che riporti al centro il ruolo culturale e critico della scuola (e, al tempo stesso, analizzi la cultura in termini di processi materiali), può offrire una risposta all’altezza della sfida.
La privatizzazione occulta della scuola
La proposta dei voucher non rappresenta un fenomeno isolato, ma l’ultimo tassello di una lunga strategia di privatizzazione della scuola che ha preso forma a partire dagli anni Ottanta. Questo processo si articola su piani diversi ma oggettivamente convergenti. Anzitutto, l’autonomia scolastica: presentata come una riforma per migliorare l’efficienza del sistema, ha trasformato le scuole in entità in competizione tra loro, alimentando le disuguaglianze sociali e territoriali. Lungi dal promuovere un sistema coeso, l’autonomia ha accentuato la frammentazione e reso il sistema scolastico sempre più diseguale. A ciò segue necessariamente l’infiltrazione degli interessi privati nella vita quotidiana degli istituti: progetti come il PCTO, l’enfasi sulla didattica laboratoriale, che dovrebbe “aprire la scuola al territorio” hanno reso la scuola uno spazio subordinato alle imprese in cui l’idea del sapere come istanza di autonomia e critica viene subordinata a false idee di concretezza, pragmaticità e professionalizzazione. In questo processo di lungo corso burocratizzazione e aziendalizzazione vanno di pari passo: il lavoro docente è stato progressivamente trasformato in un insieme di procedure standardizzate, spossessando progressivamente l’insegnante della sua autonomia intellettuale. Questo approccio alla “efficientizzazione” del rapporto di lavoro pubblico è il metodo usato da decenni dalle classi dirigenti liberiste per piegare il lavoratore non privato a logiche di aziendalizzazione al di fuori delle dinamiche dirette di mercato. Parallelamente, la figura del dirigente scolastico si è evoluta in quella di un manager, che oltre a subordinare l’operato del corpo docente a queste logiche aziendalistiche è sempre più impegnato a tutelare l’istituto più sul piano legale che educativo. Che la scuola pubblica diventi un luogo di battaglie legali è un sintomo chiaro: lo sviluppo della società borghese si accompagna a una crescente normativizzazione della vita sociale, fenomeno che Lukács analizza criticamente riprendendo e reinterpretando le tesi di Max Weber sulla razionalizzazione e interpretando il diritto borghese come un’espressione della reificazione, riflesso della logica astratta e alienante del capitale, che riduce le relazioni sociali a meri rapporti economici[2]. Entra in questo quadro, infatti, anche la crescente privatizzazione del rapporto didattico: sempre più spesso, la relazione educativa è schiacciata da esigenze particolaristiche, come la ricerca di certificazioni da parte delle famiglie che minano l’aspetto pubblico e collettivo dell’istruzione. Su questo versante pesa la crescente enfasi sulla dimensione emotiva e psicologica di quel rapporto: problemi reali, come l’ansia degli studenti, vengono strumentalizzati per ridurre il ruolo della scuola alla gestione delle emozioni e delle relazioni[3], marginalizzando il sapere disciplinare e i contenuti educativi. Stendiamo infine un velo pietoso sul reclutamento dei docenti che non solo diventa sempre più difficile e irrazionale al fine di scoraggiare il più possibile questa scelta ma che è anche diventato così oneroso da produrre fenomeni di esclusione/selezione in senso classista del futuro personale docente.
In questo quadro, la critica mossa dagli ultrapedagogisti alla destra appare sterile e inefficace. Con il loro approccio soggettivistico essi si concentrano su una visione astratta della scuola, ignorando le radici materiali della sua crisi. Lo si vede rispetto alla loro critica del tutto fantasiosa alla “scuola tradizionale” e ai mitici docenti “gentiliani” che non si “aggiornano”: ovvero, nel loro gergo da clan, lavoratori della conoscenza che rifiutano di sottoporsi vita natural durante ai loro escatologici corsi di psicopedagogia. In entrambi i casi ci troviamo di fronte ad una concezione ortopedica del rapporto tra corpo docente e Ministero. La differenza sta solo nell’orizzonte valoriale di fondo: la sinistra ultrapedagogica è convinta di dover correggere il “legno storto” dell’umanità docente; la destra nazional-liberale ha invece fiducia nell’ordine spontaneo del mercato della conoscenza su cui innesta, contraddittoriamente, l’imago autoritaria del docente come inoculatore della subordinazione ai valori tradizionali.
Entrambe le prospettive idealizzano, per stigmatizzarlo o esaltarlo, un passato che non esiste, un’immagine della scuola “tradizionale” che è solo l’effetto di una distorsione ideologica. La scuola non è mai stata un luogo omogeneo, armonico e ideale, ma un campo di battaglia culturale e materiale, in cui si sono scontrate diverse esigenze politiche, economiche e sociali. Dalla scuola umbertina a quella fascista, dalla scuola antifascista del dopoguerra al Mostro di Frankenstein attuale, “la” scuola è sempre stata la risultante di più idee di scuola giustapposte e contrapposte. “La” scuola è sempre stata attraversata da faglie e tendenze in competizione tra di loro: prendere posizione oggi sui problemi della scuola significa decidere quale faglia far emergere e verso dove spingere la scuola di domani. Ma è anzitutto necessario comprendere il posto della scuola nella società attuale per non scambiare gli effetti della società sulla scuola per false cause che agirebbero all’interno della scuola stessa.
L’astrattezza di questa lotta è evidente oggi, ad es., nella disputa sull’educazione civica. L’attivismo pedagogico di sinistra la vede non solo come uno strumento per proporre valori di inclusione e celebrazione della diversità ma anche come un modo per formare una “cittadinanza consapevole” che possa contribuire ad un migliore inserimento dei singoli nella società e addirittura a migliorare la società stessa, in linea con l’idea cara a Dewey secondo cui la scuola sarebbe in sé stessa un agente di cambiamento politico. La destra segue lo stesso schema, cercando di introdurre a lato dell’insegnamento valori patriottici e nazionali, impedendo alla sinistra di egemonizzare questo spazio. Lo si è visto, ad es., nell’abborracciato tentativo di Valditara di modificare le linee guida dell’insegnamento dell’educazione civica (poi bocciato dal CSPI) e, più recentemente, nelle dichiarazioni di Trump volte a fermare “la trasformazione dell’educazione civica in un’arma” (con esplicito riferimento alle politiche scolastiche inclusive – “DEI” –, all’insegnamento di Critical Race Theory e Gender Theory).
Entrambe le visioni ignorano ciò che qualsiasi docente sa a partire dalla materialità del proprio insegnamento: quelle proposte sottraggono spazio ai contenuti disciplinari per riempire il tempo-scuola di valori completamente avulsi da qualsiasi relazione con la concretezza del sapere umanistico e scientifico. Il fatto che si insista continuamente che ciò non deve accadere, che l’educazione civica deve essere collegata ai contenuti disciplinari è la migliore dimostrazione che di fatto non lo è e che tutta questa discussione è astratta e calata dall’alto. Entrambe le visioni tradiscono infatti un’impostazione che sacrifica il sapere disciplinare sull’altare di “valori” elaborati altrove, riducendo la scuola a un veicolo di costruzione di una sedicente cittadinanza “ideale”: l’ortopedia sociale passa attraverso l’ortopedizzazione dell’insegnamento. Chi pensi che l’essenziale risieda nei valori opposti in cui viene declinato il “cittadino modello” che la scuola è incaricata di produrre sbaglia tutto: non è la scuola a fornire il modello alla società, ma è la società a farsi modello per la scuola. Ecco perché quando gli ultrapedagogisti di sinistra si trastullano con l’idea di rendere più democratica la scuola hanno già perso perché la democrazia reale, quella fuori dalla scuola, è stata manomessa da tempo e non viene minimamente scalfita dalla pseudo-democratizzazione dell’insegnamento, venendone, anzi, bensì confermata.
Sapere disciplinare e autonomia docente
Sia detto a scanso di equivoci: nella lotta di Trump contro i pink-haired Communists nelle scuole noi stiamo sicuramente dalla parte di questi ultimi e del loro diritto di insegnare. Ma ci riserviamo il diritto di non chiamarli “comunisti”, né, tantomeno, “marxisti”. Quando Jean Anyon[4] descrive la storia della pedagogia americana “neo-marxista” dagli anni ’70 in poi non si confronta mai direttamente Marx: non dico con le sue idee sull’educazione ma con la sua teoria sociale ed economica se non attraverso banalizzazioni di terza mano. E Marx, in effetti, nello sviluppo della pedagogia americana non svolge nessun ruolo e finisce per confondersi con il più pallido riformismo liberal. “Marxismo” e “comunismo” diventano così significanti vuoti su cui tra destra e sinistra c’è una tacita intesa.
Lo stesso vale per ciò che in Italia ha usurpato le posizioni “di sinistra” nella scuola: un mix di attivismo pedagogico, Don Milani “ingentilito” e tanto didattichese dalle belle intenzioni ma dai malriposti intenti che si trova sempre a battibeccare con la destra per egemonizzare uno spazio puramente simbolico. A dimostrarlo sono i continui insulti che la sinistra ultrapedagogica rivolge ai docenti recalcitranti al suo gergo e alle sue ricette: lavoratori della conoscenza la cui autonomia viene costantemente rappresentata come “arbitrio”, “irrazionalità”, cioè di fatto insubordinazione ad un’adeguata sussunzione negli schemi produttivi di una scuola che si dipinge come democratica e progressista. Non a caso, certi suoi blasonati spokesmen sono soliti apostrofare come attardati e lavativi gli insegnanti, accusando chiunque osi dubitare delle loro “soluzioni” ai problemi della scuola di non conoscere a sufficienza “la letteratura critica”, “le statistiche”, “i dati”, auto-rappresentandosi come apostoli di una Sapere cui non può contrapporsi che l’ignoranza o il vizio. Nel caso della valutazione, ad es., questo sapere viene sempre contrapposto al “tradizionalismo” pigro di docenti definiti “monarchi assoluti”[5] e la scuola rappresentata come una sorta di Ancien Régime, cui va contrapposta una scienza rivoluzionaria: cioè una disciplina al tempo stesso già impalcata – tanto da dover costringere i docenti recalcitranti ad un supino assenso – ma anche novissima e addirittura in fieri. Un inevitabile moralismo che, non a caso, si bea di ogni decisione ministeriale che vada a colpire i docenti sottraendo loro “potere” perché, beh, da qualche parte bisogna pure incominciare! E poco male se per tradurre questo “dover essere” in “essere” si comincia sempre dal basso, se il bersaglio è sempre l’autonomia del docente lavoratore. In fondo se lo merita: al tripudio per l’abolizione dei voti alle elementari corrisponde sempre il delirio di pensare che i docenti insegnino “per asservire” (sic).
Anche qui niente di nuovo. Gli insegnanti hanno sempre dovuto subire un processo di sussunzione dall’alto che riducesse e armonizzasse la propria attività a partire da un principio unificatore estrinseco al loro operare disciplinare. Su questa esigenza convergono ancora oggi tanto la destra sovranista quanto gli ultrapedagogisti di sinistra. Occorrerebbe iniziare a riflettere sul fatto che la crisi della scuola investe al tempo stesso, e in modo inscindibile, l’autonomia del docente come lavoratore della conoscenza e il suo sapere disciplinare. Scindere questo nesso significa già porsi sul terreno di quella privatizzazione della scuola che demolisce la scuola pubblica dall’interno: la marginalizzazione del sapere disciplinare, infatti, non solo svuota la scuola del suo valore formativo intrinseco, ma è anche lo strumento attraverso cui si realizza dall’interno la privatizzazione del rapporto docente-discente.
La destra sovranista e l’ultrapedagogia di sinistra si alimentano a vicenda, fungendo ciascuna da spauracchio per l’altra. È sull’immagine di un’autorità “d’altri tempi”, che la destra celebra e rincorre, che la sinistra pedagogica costruisce la propria lotta contro un modello autoritario metafisico che esiste ormai solo nella loro testa. Questa opposizione è profondamente illusoria. Confondendo l’asimmetria implicita nella trasmissione del sapere – tra chi sa e chi non sa – con una asimmetria di potere, la pedagogia di sinistra fa il gioco della destra. Nell’attaccare veri o presunti residui di un’autorità tradizionale, ignora completamente il potere reale e capillare che la mercificazione integrale della vita imposta dal capitale esercita sulla scuola. Focalizzandosi sulla relazione educativa essa nasconde la relazione tra capitale e lavoro come elemento strutturale delle dinamiche sociali, favorendo la riduzione dei rapporti di classe a classificazioni geografiche, reddituali o, peggio, culturali e simboliche: ma la classe è un concetto relazionale, non una “scatola” in cui incasellare sociologicamente gli studenti[6].
La svalutazione della valutazione, un tema centrale nella pedagogia ultraprogressista, è un esempio emblematico di questa dinamica. Viene spesso giustificata con l’idea che la scuola deve essere uno spazio inclusivo, in cui la creatività e la spontaneità degli studenti sono tutelate da ogni forma di giudizio ritenuto arbitrario o discriminatorio. Ma la valutazione è un elemento ineliminabile del processo educativo. Anche quando non viene esplicitata, essa è implicita in ogni confronto sui contenuti disciplinari e costituisce il cuore stesso della trasmissione del sapere, che avviene necessariamente attraverso un rapporto asimmetrico tra docente e discente. Un tempo, almeno, si criticava il “Sapere dei Padroni”. Oggi lo stesso Sapere è diventato il Padrone (a patto che non sia quello di lor signori pedagogisti che ci viene invece sempre inflitto in modo autoritario).
Il problema è che la valutazione, da entrambe le prospettive, viene ridotta ad un atto di disciplinamento. Ma il rapporto tra disciplina e disciplinamento è dialettico. La destra perde ciò che Gramsci sottolineava, ovvero che ogni disciplinamento imposto dalla disciplina è in realtà un processo che libera, poiché consiste nell’apprendere le forme e i modi dell’auto-disciplina[7]. La pedagogia ultraprogressista, al contrario, appiattisce disciplina e disciplinamento lasciandoli evaporare entrambi, identificando la libertà del discente in una mitologica spontaneità destinata a rimanere estranea ai contenuti disciplinari o che, al massimo, li utilizza come “spunto” per un’attivazione che si muove verso orizzonti di senso totalmente soggettivi, individuali. Ciò avviene in due modi: da un lato, si burocratizza la valutazione, trasformandola in una procedura estrinseca e falsamente oggettivante al fine di contrastare la libertà del docente intesa come arbitrio; dall’altro, la si contesta radicalmente, spostando l’attenzione sul sentire e la creatività dello studente, a scapito del confronto critico sui contenuti disciplinari. In entrambi i casi, il risultato è lo stesso: si cancella la soggettività dell’insegnante. Il docente, immerso nella disciplina e portatore di una competenza specifica, viene ridotto a mero esecutore di schemi produttivi estrinseci o a mediatore passivo di un’esperienza centrata sull’individualità dello studente.
Anziché opporsi a queste dinamiche, la pedagogia di sinistra vi contribuisce attivamente, sostenendo, anche se indirettamente, le logiche produttive ministeriali e del capitalismo. Riducendo lo spazio di libertà del docente, essa si allinea perfettamente alle esigenze di mercificazione e asservimento della scuola a interessi estrinseci. La scuola non è più un luogo di formazione collettiva, dove i contenuti disciplinari vengono trasmessi, discussi e valutati come patrimonio pubblico e universale, ma si trasforma in un fornitore di servizi personalizzati, in cui il rapporto educativo è piegato agli interessi individuali delle famiglie. Non a caso, su questo punto, la destra sovranista, pur dichiarandosi nostalgica del “docente d’altri tempi”, prosegue nelle sue politiche ministeriali la tendenza già consolidata che favorisce l’intrusione delle famiglie nella relazione educativa. Anche da questo punto di vista il voucher non fa che perfezionare una tendenza in atto.
Gentile no, ma Hegel sì
È chiaro però che è l’universalità stessa di quel sapere a essere messa sotto accusa perché non esiste un luogo in cui essa possa diventare vera. La scuola rappresenta questo luogo, da sempre, solo perché al tempo stesso parte di un processo di universalizzazione reale che avviene altrove. Anche da questo punto di vista la scuola tradizionale non esiste se non come immagine illusoria e ideologica di tale universalizzazione. Per comprendere la dialettica in cui si trova irretito il sapere nel suo rapporto all’universale occorrerebbe una riflessione radicale su Stato e società che, lungi dall’essere affrontato adeguatamente, viene completamente dimenticato o reso in forma macchiettistica nell’attuale dibattito sulla scuola.
Noi docenti rispediamo al mittente l’accusa di essere “gentiliani”, ma potremmo accettare quella di essere “hegeliani”, se con ciò si intendesse sottolineare l’importanza delle forme oggettive dello spirito rispetto all’individualismo metodologico del liberismo e della sinistra liberal. Nella teoria dello Stato di Hegel, emerge una profonda consapevolezza delle tensioni tra la società civile e lo Stato. Per Hegel, la società civile non è uno spazio neutro, ma un luogo di conflitti e disparità, soprattutto economiche, che lo Stato deve contribuire a sintetizzare e integrare. L’idea hegeliana di una conciliazione tra interesse pubblico e privato è spesso fraintesa come un tentativo di schiacciare l’individualità a favore dello Stato, benché rappresenti piuttosto il tentativo di sublimare i legittimi interessi particolari in un interesse universale che li accolga, li protegga ma anche li medi in una dimensione collettiva[8]. La critica del giovane Marx ai Grundlinien, pur cogliendo le contraddizioni ideologiche di Hegel, elabora una dialettica tra Popolo e Stato che non riconosce pienamente l’importanza della dimensione economica e del conflitto di classe, che invece emerge nel Marx maturo. Ebbene, le posizioni della pedagogia di sinistra sulla scuola di Stato si situano addirittura al di qua di questo “democratismo” giovanile marxiano.
Certo, è noto che quello dello Stato è un problema enorme per la storia del marxismo. Esso è stato posto in termini diversi nelle diverse fasi della sua storia. Da un lato, vi sono stati momenti di conflitto in cui è emersa con forza la centralità dell’elemento “anarchico”, ossia la necessità di distruggere lo Stato borghese per costruire nuove istituzioni (da Lenin ai post-operaisti). Dall’altro, vi sono stati momenti di crescita e consolidamento del movimento operaio, in cui si è cercato di trasformare lo Stato attraverso la democratizzazione materiale delle sue strutture: dalla socialdemocrazia tedesca, alla costruzione dello stato sovietico, fino all’ipotesi togliattiana di una “marcia nelle istituzioni”, con un riformismo progressivo orientato alla costruzione di una società sempre più inclusiva e solidale[9].
La scuola democratica che abbiamo ereditato è figlia di questo secondo percorso, un prodotto delle lotte sociali e della loro spinta verso una democratizzazione formale e sostanziale delle istituzioni. Tuttavia, oggi la scuola ha perso una delle sue gambe fondamentali: il legame con le lotte sociali fuori dalla scuola. L’universalismo non è più espressione di un processo materiale e culturale, l’insegnamento ci parla di un’universalità che non ha più una sponda nell’esigenza di una trasformazione della realtà socio-storica. Questo ha lasciato in piedi soltanto la democratizzazione formale, svuotata di conflitti reali. Così, la pedagogia di sinistra ha assorbito tutti i limiti della scuola “togliattiana” – il burocratismo autoritario, il culto astratto del progresso, il riformismo sterile – concorrendo, paradossalmente, al processo di svuotamento della scuola, subordinando il lavoro docente a logiche estrinseche e a procedure alienanti.
Non siamo in una fase espansiva delle lotte anticapitalistiche. Al contrario, ci troviamo in una fase segnata da un nazional-liberismo, se non proto-fascismo, che mira a ricomporre le contraddizioni sociali attraverso nuove forme di autoritarismo. In questo contesto, è altamente dubbio che l’acquiescenza finora mostrata dalla pedagogia di sinistra alle politiche ministeriali di privatizzazione possa rivelarsi utile. Al contrario, il problema del valore universale del sapere e della cultura dovrà essere posto su basi nuove. E con esso il ruolo della scuola, che deve essere difeso nella sua autonomia e differenza rispetto al resto della società e alla logica del capitale.
Una vera alternativa deve partire allora dalla centralità del sapere disciplinare e dal riconoscimento del conflitto materiale che attraversa la scuola e che si rispecchia nell’esigenza di comprensione del mondo di cui quel sapere è forma sostanziale. Solo così sarà possibile opporsi all’ulteriore privatizzazione del sistema educativo e costruire un modello di scuola pubblica che risponda realmente alle esigenze di emancipazione sociale. Per fare questo occorre procedere nel modo opposto a quanto fatto dai “riformatori” della scuola, sia di destra che di “sinistra”.
Questa difesa dell’autonomia scolastica viene spesso fraintesa come una celebrazione della scuola “d’altri tempi”, ma, come abbiamo già detto, quella scuola e quella autonomia non sono mai esistite. Si tratta di recuperare strategicamente la capacità di manovra che l’erosione dello spazio pubblico da parte del capitale ci ha sottratto. La questione non è restaurare un modello passato, bensì rendere la scuola quanto più impermeabile possibile alle logiche del capitale e alla sua riduzione della conoscenza a merce. È necessario separare nettamente la scuola dalla confusione con la società civile e i suoi interessi privatistici. Questa separazione non può che partire dalle soggettività antagoniste che si incontrano e si fronteggiano nella scuola stessa: i docenti e il corpo studentesco. All’autonomia delle scuole occorre contrapporre l’autonomia dei soggetti che fanno la scuola. Se qualcosa si può imparare dalla stagione delle lotte degli anni ’70, è che la sinergia tra queste soggettività può generare una sperimentazione autenticamente creativa e rivoluzionaria. Una sperimentazione che parta dai contenuti disciplinari e dalla loro rilevanza per le lotte sociali all’esterno della scuola, non da astratte esigenze di costruzione di una cittadinanza ideale.
Lo sappiamo: non è certo la scuola che può accendere la miccia in una società che vira paurosamente verso destra. Ma la ricostruzione della sua autonomia rende il sapere scolastico specchio possibile di una lotta che è ancora di là dal profilarsi all’orizzonte. E forse dovremo prepararci ad una nuova lunga marcia prima che ciò avvenga. Abbiamo bisogno di un tempo del sapere che scorra secondo modalità diverse dalla logica accumulativa, un tempo della rielaborazione che non può che essere a fondo perduto. Una dépense che liberi il pensiero dai ceppi del realismo capitalista e che possa configurare quella forma peculiare di sapienza che, come scriveva Cusano, “grida nelle strade”. Carnale perché capace di astrazione, libera perché conflittuale, gettata sul mondo perché capace di ripiegarsi su sé stessa e fargli spazio dentro di sé. Perché è solo così che quelle grida possono trovare un’eco adeguata: solo una scuola autonoma nella sua capacità di vivere e rielaborare il sapere può far filtrare il fragore del mondo esterno nel suo silenzio e tradurlo così in pensieri, parole e, sperabilmente, prassi di trasformazione.
Note
[1] FdI, Appunti per un programma conservatore, 2022, pp. 39 e sgg.
[2] G. Lukács, Storia e coscienza di classe, Mondadori, Milano, 1973, p. 126 e sgg.
[3] Perdendo di vista quanto l’ansia sia il prodotto di una precisa configurazione della società basata sulla competizione, cfr. V. Costa, La società dell’ansia, Inschibboleth, Roma 2024.
[4] J. Anyon, Marx and Education, Routledge 2011.
[5] C. Corsini, La valutazione che educa. Liberare insegnamento e apprendimento dalla tirannia del voto, Franco Angeli, Milano 2023, p. 14.
[6] G. Rikowski, “Marxism and Education: [Closed] …and Open…” in A. Maisuria (a cura di), Encyclopaedia of Marxism and Education, Brill, Leiden & Boston 2022, p. 424.
[7] A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 1975, q. 22, p. 2163.
[8] G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Rusconi, Milano 1996, p. 433.
[9] Per comprendere in modo teorico questa dialettica è ancora utile la ricostruzione che ne fa H. Marcuse in Soviet Marxism. A Critical Analysis, Columbia University Press, New York 1958, pp. 17-37.
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