Paolo Muto
Quella sera mia figlia dodicenne mi si avvicina spaventata: c'è un'ombra inquietante che la segue, mormorando frasi sconnesse. Come ogni anno stiamo andando a fare gli auguri di buon anno agli zii che ancora abitano nel quartiere dove ho trascorso la mia infanzia. L'oscurità unita alla nebbia rendono spettrali le deboli lampadine che illuminano gli androni da cui si dipanano le mille scale che salgono verso gli appartamenti. Sembra che il tempo e lo spazio siano sospesi in quell'atmosfera surreale. Davanti a quell'androne e dietro agli occhi impauriti di mia figlia scorgo una figura massiccia. Il nastro delle memorie viene improvvisamente riavvolto quando bofonchia un'altra frase sconnessa: quella voce la conosco, e viene da un tempo ormai lontano. Messaggi di familiarità si sovrappongono a segnali di pericolo.
“Ciao Paolo!” L'omone a quel punto snocciola una frase quasi intellegibile sui soldi e le sigarette. “Mi spiace ma sai che non fumo”, come se potessi ancora pretendere tale riconoscimento a distanza di quarant'anni.
Ricordo che in quel quartiere c'era un uomo incaricato di accendere le luci di tutti gli androni al calare delle tenebre, e spegnerle al sorgere del sole. Erano lampadine poco potenti, che servivano giusto per ricordarci che da qualche parte c'erano gli scalini per salire in casa. Quel senso di precarietà che ha accompagnato l'umanità per millenni quando calava il sole, fu in qualche modo rispettato durante la mia infanzia. Oggi invece dev'essere tutto perfettamente illuminato: la Luce pretende di sconfiggere così l'Oscurità. ”Si chiami l'ENEL, sia fatta la Luce” scriveva ironicamente Guccini.
Dopo così tanti anni quella sera mi aveva offerto ancora il senso di penombra della mia infanzia. Ad un tratto vedo la sua faccia, illuminata dalla fioca luce. E' segnata dal tempo, che con le sue lame traccia profondi solchi nel volto, e ha lo stesso sguardo un po' perso di allora.
Me lo ricordo ancora com'era. Per me ragazzino mingherlino e timido quel marcantonio di due metri dal carattere imprevedibile rappresentava il limite invalicabile a cui era sconsigliabile avvicinarsi. La sua presenza fisica lasciava poco spazio a discussioni: se decideva, ad esempio, di scimmiottare un vigile e dirigere il traffico (con quali risultati lo potete immaginare) nessuno poteva azzardarsi a contestargli il ruolo che improvvisamente si era cucito addosso. Anche perchè le sue risposte erano sempre burbere, e non valeva la pena rischiare.
Non aveva i denti davanti, e questo, unito all'espressione facciale stralunata, gli conferiva un'assoluta perentorietà nel momento in cui decideva di parlare. Beh, parlare….non a caso lo chiamavamo Paolo Muto. Non ho mai conosciuto il suo vero cognome. Nè d'altronde noi ragazzi ci chiamavamo per cognome. I soprannomi andavano per la maggiore. Insomma non capivamo come facesse ad addentare un panino, senza quei denti. Nè come e perchè Madre Natura avesse fatto nascere una creatura di quel tipo. Voglio dire così grande e grosso, potenzialmente utile e invece….eccolo là a dirigere il traffico (si fa per dire). Neanche capace di parlare. Capace però di scroccare sigarette, che fumava senza neanche aspirare. Insomma un bell'enigma.
Eppure, come Cipoli[1] faceva parte della vita di quartiere. Ne era parte integrante. Non era l'emarginato di oggi che viene tenuto nascosto per un malcelato senso di pudore o di disagio: tutti lo conoscevano e lo accettavano. E nessuno si vergognava di quello che era o faceva. In quartiere c'era anche un tale Zangrossi che se ne andava in giro in bici con un volante di automobile montato al posto del manubrio. Quella cosa ci incuriosiva parecchio. Oggi nessuno vorrebbe cimentarsi in modifiche bizzarre, perchè nessuno vuole sfidare il rassicurante senso comune. In quei giorni invece c'era una tacita gara a chi sapeva osare di più. Beh, ci deve pur essere una differenza tra il '68 ed il Nuovo Millennio del Pensiero Unico, no?
Qui mi sento di fare un paio di discorsi: uno sulle comunità (o società) inclusive e l'altro sul senso di normalità. I due ragionamenti sono intimamente connessi. Le comunità inclusive che accettano tranquillamente la diversità altrui hanno un senso di “normalità” molto diverso dalle comunità che escludono, dotate come sono di un senso ristretto di “normalità”. Fateci caso: le “società esclusive” (jet set ad es.) sono gruppi di persone che accettano solo i loro simili: ricchi e di buon aspetto, portatori sani di bon ton e bon mot. E non facciamoci mancare, per carità, la “vacanza esclusiva” trascorsa in un “villaggio esclusivo”, quintessenza dell'individualismo (particolarismo) di maniera.
Al contrario le società inclusive offrono diritto di cittadinanza a chiunque, avendo innalzato al limite superiore la soglia di tolleranza. Esclusività ed esclusione sono mal tollerate. C'è molto Occidente in tutta questa storia. Mentre i Nativi americani consideravano i pazzi come un veicolo importante verso il mondo degli Spiriti, nel Vecchio Continente suscitava scandalo il libro di Erasmo da Rotterdam “Elogio della follia”. Si narra che prima della straordinaria battaglia di Little Big Horn, i capi tribù avessero consultato tre pazzi per conoscere l'esito della battaglia, e solo dopo alcune trattative con gli spiriti i tre confermarono la morte di tutte le “giacche blu” di Custer. Cosa che poi avvenne.
Ogni comunità ha all'interno persone “diverse”. Quindi ciò che cambia è il rapporto che si crea con tali persone: le si può accettare oppure respingere. Oggi il mito della società esclusiva, dove il benessere ha sostituito l'accoglienza, è un valore sociale fondante. E questo è un generoso invito alla creazione di un senso molto rigido di normalità. I diversi se ne devono stare lontani: niente bici col volante o improvvisati interventi sul traffico.
Ciò che definiamo come “normalità” varia a seconda di quanto distanti piantiamo i paletti dalle opinioni che abbiamo: da tale concetto di normalità si dipanano una serie di atteggiamenti.
Il buon funzionamento della nostra complicata ed escludente società si basa su un'enorme coerenza di intenti e funzioni. Tutto ciò che tende ad allargare il senso di “normalità” (includendo piuttosto che escludendo) è una minaccia al senso di umanità asettica ed efebica che ci siamo scelti.
La diversità, oggi molto più di ieri, non è molto bene accetta e l'Altro, tesoro di significati secondo Lacan, si è perso nei labirinti creati ad hoc dai simulacri postmoderni. I simulacri (credere cioè nel gadget esclusivo o nei simboli istillati ad hoc dalla propaganda pubblicistica) hanno ormai definito in modo inequivocabile l'esclusione dell'Altro, avvicinando sempre più quei paletti di cui parlavo.
Gli androni scuri (ed in generale tutti i luoghi dove l'oscurità può vantare qualche diritto) hanno lasciato il posto ad asettici e ben illuminati spazi dove tutto appare ben definito nel nome della presunta vittoria della Luce contro le Tenebre, simulacro che da quando è saldamente in mano ai WASP non ha cessato di produrre politiche di esclusione (Afganistan, Iraq, Libia e ultimamente Siria) proprio per sventare quello “scontro di civiltà” che altri studiosi (Courbage, Todd) non afflitti dalla malattia WASP d'oltreoceano dichiarano apertamente essere frutto di paranoia da paletti troppo vicini. E così la nota legge del contrappasso trova un'ulteriore conferma: per evitare lo scontro si creano guerre.
La mia vita è costellata di presenze oblique, persone dalle connotazioni trasversali difficilmente riducibili a semplici archetipi. Paolo Muto fa sicuramente parte di quelle persone che mi hanno insegnato (obbligato?) a vivere assieme agli “stranieri” portatori di alterità. Situazioni analoghe sono impensabili nel mondo di oggi, zeppo com'è di tweet e sms, simulacri postmoderni della relazione con l'Altro, dove basta un click di tastiera per bloccare per sempre le presenze scomode e riallineare i nostri amati paletti in base a ciò che noi reputiamo normale e giusto.
Paolo Muto rappresenta la possibilità che il percorso lineare della Vita, dettato da un Tempo lineare e operante in uno Spazio lineare, possa in realtà procedere per approssimazioni successive, per adattamenti e scarti improvvisi. E' l'incognita irrisolvibile che impedisce la corretta soluzione mentre rende la facile prevedibilità un'illusione.
“Sono due i principali ostacoli alla conoscenza delle cose: la vergogna che offusca l'animo, e la paura che, alla vista del pericolo, distoglie dalle imprese. La follia libera da entrambe. Non vergognarsi mai e osare tutto: pochissimi sanno quale messi di vantaggi ne derivi.”
Erasmo da Rotterdam
[1]https://www.appelloalpopolo.it/?p=3872
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