La crisi ipotecaria ed il diritto ad una degna esistenza
Articolo del 6 maggio 2009 tratto dal sito www.rebelion.org
traduzione e note a cura di Cinzia Bernardini
Uno dei lati più drammatici, sebbene mediaticamente meno visibili, dell'attuale crisi è la situazione delle migliaia di famiglie che corrono il rischio di rimanere senza una casa per non essere più in grado di pagare l'ipoteca (ndr Intesa in Spagna come la parte per il tutto: un tutt’uno con le rate del mutuo, la cui concessione comporta automaticamente la nascita di un diritto reale di garanzia quale, appunto, l’ipoteca sul bene immobile.). Secondo il Consiglio Generale del Potere Giudiziale (ndr organo che per le funzioni svolte corrisponde al nostro Consiglio Superiore della Magistratura), nel corso del 2009, ben 84.214 unità di famiglie potrebbero arrivare al punto di dover affrontare procedimenti di sfratto. Molti dei colpiti sono persone che, a causa della mancante regolamentazione del sistema creditizio spagnolo, non solo potrebbero finire per strada, senza lavoro né casa, ma in più potrebbero continuare a risultare debitori nei confronti delle banche. La gravità di questo vero e proprio assalto ai diritti sociali elementari contrasta con la scarna risposta offerta dalle istituzioni, soprattutto se la si paragona con il cospicuo compromesso ostentato invece con le entità finanziarie.
Sono diversi gli elementi che contribuiscono a spiegare questo disinteresse istituzionale. Uno di essi ha a che fare con l'idea, inculcata in un certo "senso comune", che l'ipotecato è colui che, avendo agito "liberamente", debba sobbarcarsi tutta la responsabilità della sua azione. A sostegno di questa corrente si dice che nessuno ha costretto questi soggetti a contrarre debiti che, con l'andare del tempo, sarebbero stati impossibili da pagare e che se si vuole essere proprietari ci si deve attenere alle conseguenze. Questo tipo di ragionamento ha il vantaggio di permettere di captare con lucidità uno dei fattori che ha condotto all'attuale disastro. Ciò nonostante, esso stesso occulta in modo interessato i sottili però ferrei meccanismi che hanno concesso alle politiche neoliberali di aprirsi il passo durante gli ultimi decenni.
Uno di questi meccanismi più ricorrenti, di fatto, è stato l'adescamento del "capitalismo popolare". L'idea di fondo era che le politiche di privatizzazione di beni e servizi pubblici avrebbero permesso a tutti di godere di ricchezze di base nelle vesti di "proprietari" e non di semplici "clienti" dello Stato, e ciò avrebbe assicurato un controllo più "sicuro" ed "efficiente" delle stesse. Non si trattava, per tanto, di garantire diritti sociali, ma diritti patrimoniali, convertendo i cittadini "da proletari, in proprietari", come si vantava la propaganda ufficiale. Il Regno Unito di Margaret Thatcher, si sa, fu un sofisticato laboratorio di iniziative come questa. Per coinvolgere i lavoratori nelle politiche di privatizzazione si offrivano loro azioni delle imprese privatizzate. In questo modo, chi perdeva il proprio posto di lavoro poteva sentirsi ricompensato da un immediato ed euforico accesso alla "proprietà" dell'impresa. Il trucco d'altronde non tardava a manifestarsi. In un mercato con forti barriere d'ingresso e mercati asimmetrici nell'accesso all'informazione, il "lavoratore azionista" finiva per vendere i suoi titoli e si trovava, dalla giorno alla notte, senza lavoro, senza azioni e alla mercé di alcuni poteri privati che, in parte, erano riusciti a rendere egli stesso "complice" di quella loro violenta azione di spoglio.
Al di là delle sue peculiarità, l'attuale situazione di emergenza delle abitazioni non è aliena a questo tipo di processi. Per decenni, i responsabili delle politiche sulla prima casa si incaricarono di fare dello Stato spagnolo uno tra quelli che, avendo costruito ben al di sopra della media europea, si è dedicato meno alla promozione della più abbordabile casa popolare. La concreta inesistenza di altre vie d'accesso ad un'abitazione che non fossero l'acquisto fece sì che molte persone considerarono che l'unica soluzione "sicura" ed "efficace" per disporre di una casa fosse convertirsi in un "proprietario privato". Le istituzioni pubbliche dispiegarono tutto un arsenale di mezzi che giustificava questa percezione: incentivarono lo sgravio fiscale delle compravendite; deabilitarono la posizione dell'inquilino nella legislazione sulle locazioni urbane; consentirono la deregolamentazione del mercato ipotecario, permettendo mutui di 50 anni; disarticolarono controlli basici sul sistema creditizio e rinunciarono alla valorizzazione di altre forme di godimento ampliamente diffuse in altri paesi europei, come l'affitto sociale o la cessione d'uso.
Agenzie immobiliari, banche e casse di risparmio non hanno fatto, in realtà, nient'altro che approfittare di questa deliberata politica istituzionale di scommessa sulla "proprietà privata" e di disincentivo nei confronti di altre forme di godimento del bene reale sicure ed accessibili. Protetti dalla diffusa percezione che affittare era come "gettare soldi", hanno dedicato tutto il proprio apparato propagandistico a creare l'illusione sul fatto che si poteva essere "proprietario" sebbene ciò avrebbe significato compromettere una percentuale esorbitante delle proprie entrate (più del 40% in molti casi).
In un simile contesto, appare uno sproposito presentare i contratti conclusi come l'inequivoco prodotto della "autonomia della volontà" delle parti. Uno sguardo più realistico, al contrario,permette di riconoscere negli accordi scritti la fisionomia classica dei contratti per adesione, caratterizzati per una notoria asimmetria dell'informazione disponibile alle parti e per l'inclusione più o meno dissimulata di clausole abusive. La lista di irregolarità è ampia: sopravvalutazione degli appartamenti con l'obiettivo di inflazionare il prezzo ed aumentare il debito contratto; contrattazione obbligata di assicurazioni costose ed inutili; utilizzazione di avalli intrecciati tra gli stessi debitori; interessi variabili riferiti all'Euribor3 oltre che ad alcuni tassi esorbitanti; informazioni parziali sui possibili aumenti dell'operazione di finanziamento e dell'ipoteca. Tutto ciò con una finalità inequivoca: ottimizzare i benefici ed affidare al caso i controlli del rischio a cui tutto il sistema creditizio ragionevole dovrebbe sottomettersi.
La cosa più evidente in tutto ciò è che nonostante le condizioni fraudolente con cui si conclusero molti di questi contratti di mutuo ipotecario, l'indice di morosità delle famiglie è rimasto, almeno fino ad ora, incredibilmente basso. A differenza delle banche,che di fronte al boom della crisi sono ricorse prontamente all'aiuto pubblico, le famiglie indebitate hanno adempiuto alle obbligazioni contratte finché disponevano di un lavoro e gli interessi glielo permettevano. Quando hanno terminato di farlo, la violenza del potere privato si è manifestata in tutta la sua crudeltà. Sulla stessa onda degli imprenditori che esigono la riduzione dei salari nonostante i dispendiosi benefici ottenuti, le entità finanziarie esigono mantenere il debito con interessi molte volte usurari. La minaccia, nell'ipotesi di non cadere al ricatto, è simile: in un caso il licenziamento, nell'altro lo sfratto immediato.
Senza tener conto della colpa nella generazione dell'attuale situazione, o propriamente per essa, le soluzioni offerte dalle istituzioni pubbliche sono state inoffensive. La linea guida adottata dal governo statale è stata la cosiddetta "chiamata moratoria", cioè uno strumento che non sindaca l'aumento abusivo di interessi né tanto meno è obbligatoria per le banche. Il fatto che si siano serviti di essa poco più di un centinaio di persone è un indizio chiaro dei suoi limiti.
Naturalmente la suddetta asimmetria nella reazione istituzionale si spiega, in fondo, per il madornale disquilibrio degli interessi in gioco. Dopo tutto, l'attuale crisi ipotecaria è anche il prodotto di un decennale capitalismo contro-riformato che ha consentito la irruzione di oligarchie economiche in cui gli interessi sono solidamente salvaguardati dalle istituzioni pubbliche e private di diverso tipo. Al contrario, gli interessi dei debitori ipotecati, in ugual modo a quelli dei disoccupati e di molte categorie professionali che la crisi ha posto in aperta situazione di vulnerabilità, richiedono un'articolazione più lenta e complessa. In alcuni casi perché si tratta di immigrati che nemmeno possono condizionare il potere governativo con il proprio voto o che sono paralizzati dalla spada di Damocle dell'eventuale perdita di una legale residenza. In altri perché si è di fronte a persone strangolate dal peso di anni di privatizzazione, da messaggi del tipo "si salvi chi può", e da alcuni sindacati i cui riflessi di fronte a questo genere di conflitti sono da tempo anchilosati.
Inoltre, la commercializzazione di tutte le sfere della vita a cui tiene l'attuale capitalismo non ha impedito di generare inedite benché embrionali forme di resistenza. Le associazioni di vittime dei mutui ipotecari, recentemente realizzatesi in città come Madrid o Barcellona, allo stesso modo di quelle dei disoccupati, ne sono una prova. Le loro richieste sono elementari ma incisive: la paralisi degli sfratti, tanto delle famiglie su cui grava l'ipoteca quanto dei loro avallanti, finché non si trovi una soluzione al loro problema; la garanzia di un accesso gratuito alla giustizia per i colpiti affinché possano difendersi dai procedimenti esecutivi; la regolamentazione della datio in solutum in modo che la devoluzione della casa alla banca estingua il debito contratto – come accade in altri paesi dell'Unione Europea o negli Stati uniti -; l'espropriazione o la compravendita ad un giusto prezzo del ventaglio di abitazioni di prima residenza ipotecate con l'obiettivo di destinarle ad un mercato pubblico con finalità di locazione; la realizzazione di un monitoraggio pubblico sul funzionamento del mercato ipotecario; lo stabilimento dei meccanismi e le riforme necessarie per tirar fuori la casa dai mercati speculativi e convertirla in un diritto per tutti.
L'impulso dettato da questi mezzi e la conseguente democratizzazione del sistema creditizio esige, naturalmente, sradicare i pressanti privilegi per mezzo dei quali un pugno di poteri privati (banche, agenzie immobiliari e di riqualificazione del debito) è cresciuto negli ultimi decenni, non senza l'inestimabile collaborazione di differenti enti pubblici. Però richiede anche invertire molti dei miti che anni di "capitalismo popolare" hanno impresso in modo indelebile nell'esperienza di milioni di persone. Uno di essi è che l'unica forma per accedere ad un'abitazione degna e sicura sia attraverso la "proprietà privata". L'altro è che la casa possa essere oggetto di speculazione ed una fonte di reddito tanto legittima quanto qualsiasi altra. Sebbene non si può cambiare dal giorno alla notte, l'unica maniera credibile di estirpare queste credenza è mostrando, da un lato, che è una cosa fattibile garantire il diritto alla casa attraverso altri regimi di godimento sicuri ed efficienti, come la proprietà cooperativa, l'affitto sociale, la cessione d'uso o l'usufrutto. E per altro lato, inscrivendo questa lotta in un programma più ampio di universalizzazione dei diritti sociali capaci di resistere all'attuale "assalto del privato" tanto nella sfera del lavoro formale (come nella fabbrica, nell'impresa) quanto fuori (nell'ambito domestico, nel quartiere nello spazio urbano). Questi vecchi e nuovi diritti sociali, che sarebbe opportuno sottrarre all'arbitrio tanto del mercato capitalista quanto dello Stato, hanno a che fare con questioni tanto elementari come la salute, l'educazione, l'acqua, il trasporto, le mense pubbliche, gli asili infantili, la riduzione della giornata lavorativa o il godimento di un reddito base.
Nonostante le difficoltà soggettive che ingloba un cambio "politico-culturale" di questa portata, è innegabile che la crisi ha migliorato le condizioni oggettive per renderlo possibile. Non è impensabile, inoltre, che un programma di reinvenzione di ciò che è "pubblico" e dei "beni comuni" possa inserirsi tra le generazioni più giovani, nate già in un contesto di perseverante precarietà ed aliene al miele del mito sulla proprietà. In ultimo luogo, proteggere chi possiede una casa o un lavoro precario, o chi non ha un tetto o entrate indispensabili per il sostentamento, non è solo un modo per arrestare radicate pratiche speculative e situazioni di strumentalizzazione, ma è anche una forma per distribuire con giustizia le responsabilità derivate dalla crisi ed attualizzare il vecchio diritto di tutti a condurre un'esistenza degna.
Gerardo Pisarello Prados.
Professore titolare della cattedra di Diritto Costituzionale presso l'Università di Barcellona e membro del Comitato di redazione della rivista spagnola: Sinpermiso.
Bello e copioso articolo! Problema: ma in spagna non si potrebbe far dichiarare nulli questi contratti perchè espressione di un reato di truffa eo usura?
Ora, capisco perchè un mio Professore diceva che l’unica cosa che si salva dell’Italia è il codice civile!