Le mille bolle del mercato finanziario
di Emiliano Brancaccio e Marco Veronese Passarella Economia e politica
Il Nobel per l’Economia 2013 a Fama, Hansen e Shiller per le loro analisi sulla previsione degli andamenti dei mercati finanziari. Sebbene confutata sul piano scientifico, la tesi dei mercati finanziari efficienti continua a dominare la scena politica
Gli americani Eugene Fama (Università di Chicago), Lars Peter Hansen (Università di Chicago) e Robert Shiller (Università di Yale) sono i vincitori del premio Nobel 2013 per l’Economia, in virtù delle loro analisi sulla previsione degli andamenti dei mercati delle attività finanziarie e immobiliari. Nel motivare la scelta di quest’anno, l’Accademia svedese delle scienze ha molto insistito sugli elementi di continuità tra le ricerche degli studiosi premiati. In realtà, come vedremo, il loro successo è derivato soprattutto dagli elementi di rottura tra le loro analisi e dall’ampia letteratura che si è sviluppata in questi anni intorno ad essi.
Appartenente a una famiglia di origine siciliana emigrata a Boston ai primi del secolo scorso, Eugene Fama è annoverato tra i più intransigenti difensori della libertà dei mercati finanziari e della loro completa deregolamentazione. Questa posizione politica viene solitamente giustificata dai suoi epigoni in base alla tesi secondo cui il mercato utilizza al meglio tutte le informazioni disponibili utili alla determinazione del prezzo delle attività, e ogni eventuale nuova informazione viene istantaneamente incorporata nei prezzi delle attività. Nel caso della borsa valori, per esempio, il prezzo corrente delle azioni riflette le informazioni disponibili circa il valore attuale dei dividendi futuri attesi. Se dunque i prezzi che scaturiscono dalle contrattazioni sono determinati in base a un impiego ottimale di tutte le informazioni disponibili, nessuno potrà sperare di utilizzare quelle stesse informazioni per speculare, cioè per “battere il mercato”.
Da questa tesi i seguaci di Fama hanno tratto la conclusione secondo cui il mercato azionario è il miglior giudice di sé stesso: ogni intervento di regolazione della borsa, come di tutti gli altri mercati, finirebbe per turbare un processo di determinazione dei prezzi che utilizza nel modo migliore le informazioni disponibili, e che dunque può esser considerato il più efficiente criterio di allocazione delle risorse disponibili. Benché apertamente tratta dalle analisi di Fama, in realtà questa volgarizzazione non riflette il loro grado di sofisticatezza. Basti notare, ad esempio, che sebbene abbia fornito importanti contributi a sostegno dell’idea che il mercato determina i prezzi utilizzando tutte le informazioni disponibili, l’economista di Chicago ha anche fatto notare che i prezzi dipendono pure dalla teoria in base alla quale le informazioni vengono elaborate. Dopo la crisi esplosa nel 2007 Fama ha riconosciuto che c’è oggi grande incertezza intorno alla scelta della giusta teoria, vale a dire della corretta interpretazione del funzionamento del sistema economico. Tale incertezza, tuttavia, non sembra costituire a suo avviso un motivo per zittire i volgarizzatori del suo pensiero: anzi, in un contesto in cui non vi è consenso circa la scelta del giusto modello interpretativo del mondo che ci circonda, egli sembra far valere ancor di più la tesi secondo cui il libero mercato resta il criterio allocativo migliore, e quindi non dovrebbe mai essere imbrigliato dai tentativi di regolazione politica.
Le tesi di Fama hanno goduto di un enorme successo all’interno della comunità accademica internazionale. Eppure, già prima dello scoppio della crisi, le evidenze empiriche tendevano a smentire piuttosto seccamente l’idea della efficienza dei mercati finanziari. Il caso della borsa valori in questo senso è emblematico. Se i prezzi correnti delle azioni riflettessero semplicemente le informazioni disponibili sui dividendi futuri attesi allora la variabilità dei prezzi dovrebbe risultare inferiore a quella dei dividendi; spiegato in termini intuitivi, questi ultimi dovrebbero variare maggiormente poiché si determinano in una fase successiva e quindi incorporano informazioni che al momento della fissazione dei prezzi non erano disponibili. In un celebre articolo pubblicato nel 1981, tuttavia, Shiller elaborò un test econometrico dal quale scaturì un risultato esattamente opposto: la variabilità dei prezzi di mercato dei titoli azionari eccede di gran lunga quella dei dividendi, fino a cinque volte di più e in alcuni casi persino oltre. Evidentemente, dunque, i prezzi non possono esser considerati un mero riflesso dei dividendi futuri. Altre forze incidono su di essi, e la sfida scientifica consiste nell’individuarle.
I difensori della tesi dei mercati efficienti hanno cercato di spiegare i risultati di Shiller in base all’idea che i prezzi correnti delle azioni non dipendono solo dai dividendi futuri ma anche dalle preferenze degli agenti economici tra consumo presente e consumo futuro, che nella loro ottica determinano il volume del risparmio e quindi anche la domanda di azioni. Tali preferenze tenderebbero a modificarsi durante le varie fasi del ciclo economico: per esempio, nel corso di una recessione il consumo presente si riduce, la preferenza verso di esso dunque aumenta, il che modifica la domanda di azioni e quindi anche i loro prezzi di mercato, del tutto indipendentemente dalle variazioni dei dividendi futuri. Questa spiegazione, tuttavia, è stata confutata da test econometrici successivi tra cui spiccano quelli elaborati dal terzo vincitore, Lars Hansen. I test, tra l’altro, sembrano indicare che il ciclo economico incide in misura troppo limitata sulle scelte di acquisto dei titoli, e quindi non può costituire una valida giustificazione per l’eccessiva variabilità dei prezzi rispetto ai dividendi.
I risultati di Shiller hanno trovato riscontri ulteriori anche nelle analisi di altri mercati, come ad esempio quelli delle obbligazioni e delle valute. Così come in borsa i prezzi delle azioni oscillano molto più dei dividendi futuri, così anche negli altri mercati i prezzi tendono ad allontanarsi dai valori che dovrebbero scaturire dalle informazioni “fondamentali” sul futuro. Se ne è tratta così la conclusione generale secondo cui l’alta variabilità dei prezzi è dovuta al fatto che i mercati finanziari sono dominati da fattori psicologici imponderabili, in grado di generare ondate di euforia o di panico: le cosiddette “bolle speculative”, che gonfiandosi e poi scoppiando contribuiscono alla instabilità complessiva del sistema economico, generando cicli di boom e di depressione della produzione e dell’occupazione. Questa chiave di lettura, di cui lo stesso Shiller è stato un fautore, ha aperto la via alla cosiddetta finanza comportamentale, una branca della ricerca economica che prova a spiegare la dinamica dei mercati finanziari in base all’idea che il comportamento degli agenti economici non sempre possa esser definito razionale. Si tratta di una linea di indagine che può vantare illustri predecessori, tra cui Charles Kindleberger e John Kenneth Galbraith. Nella versione corrente, tuttavia, essa sembra dare adito all’idea che, se gli agenti fossero perfettamente razionali, i prezzi rifletterebbero le informazioni “fondamentali” e quindi una soluzione di libero mercato potrebbe risultare efficiente. Una conclusione, questa, che per molti versi appare insoddisfacente, e che presta il fianco alla critica di quegli indirizzi alternativi di ricerca secondo i quali la “bolla speculativa” non costituisce tanto un’anomalia determinata dall’irrazionalità dei singoli individui, ma rappresenta piuttosto una necessità vitale dell’attuale regime di accumulazione capitalistica, fondato sulla centralità del mercato finanziario.
Di fronte all’avanzata dei suoi numerosi critici Fama non sembra essersi scomposto più di tanto. Recentemente, anzi, egli sembra avere ulteriormente estremizzato la sua posizione, affermando che in fin dei conti “le bolle non esistono” e che il mercato finanziario sarebbe stato addirittura “la vittima della recessione, non la causa”. Un simile atteggiamento, a prima vista, potrebbe esser scambiato per l’ultimo arrocco di un sovrano della cittadella accademica, ormai prossimo alla defenestrazione. La verità, tuttavia, è che sebbene abbia perduto gran parte del suo appeal scientifico, la retorica liberista di Fama potrebbe rivelarsi più in sintonia con l’attuale tempo politico di quanto si possa immaginare. Dopotutto, il regime di accumulazione trainato dal mercato finanziario è entrato in crisi più e più volte, in questi anni, sotto i colpi dei danni che esso stesso provocava. Ma nessun movimento politico ha finora osato anche solo accennare a una sua messa in discussione. Potremmo dire, insomma, che sebbene la sua inefficienza risulti per molti versi conclamata, il mercato finanziario e i suoi apologeti stanno opponendo una efficace resistenza politica alle pressioni della critica. Il futuro rischia pertanto di essere ancora una volta di Fama e dei suoi epigoni, piuttosto che di Shiller. E la “repressione della finanza”, che Keynes negli anni Trenta invocava e che almeno in parte riuscì a conseguire, resta per il momento solo una chimera.
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