Perché vogliono modificare il Titolo V della Costituzione? Piccola analisi del rapporto fra sovranità e territorio.
Il capitalismo opera su più livelli, ma chi gli si oppone non riesce ad analizzare più di un problema alla volta
In quell’ambito frazionato e caotico che è oggi l’analisi politica, alcuni paradigmi interpretativi stanno cominciato ad acquisire peso crescente.
Innanzitutto si è diffusa la consapevolezza di come, in tutto l’occidente, il capitalismo stia attuando una strategia di ridefinizione, in senso post-costituzionalista, della sovranità popolare e della dêmos-crazia.
Dal momento che la sovranità popolare è giuridicamente sostanziata nelle Costituzioni degli Stati-nazione, anche la sussunzione di questi ultimi da parte di organismi sovranazionali comincia a essere messa in dubbio. Difatti l’opinione pubblica più o meno progressista era, fino a pochi anni fa, unanimemente concorde sull’interpretare la dissoluzione della sovranità nazionale come fattore di emancipazione sociale. Attualmente, invece, possiamo osservare come sulla superficie di quell’unanime certezza le increspature affiorino e si moltiplichino. In altre parole, mano a mano che il capitalismo evidenzia l’intento di creare un assetto istituzionale sovranazionale volto a superare il costituzionalismo, l’ideologia dominante fatica sempre più a mantenere rimossa l’evidenza; essa non riesce più a occultare, cioè, il fatto che le Costituzioni pongano il problema d’un legame materialmente indissolubile fra il concetto di sovranità popolare e quello di sovranità nazionale.
Purtroppo, però, la galassia dei movimenti, dei gruppi e degli ambiti che elaborano teoria critica, risulta estremamente frazionata. Questo fa sì che le soggettività che si oppongono al capitalismo non siano in grado, oggi, di analizzare più di un problema alla volta. Le èlite dominanti, al contrario dei loro oppositori, agiscono invece sulla base d’una strategia articolata su più livelli.
Venendo al contesto italiano, l’attacco al costituzionalismo e al principio di sovranità popolare viene per l’appunto attuato entro due differenti ma sinergiche linee strategiche. La prima è, come dicevamo sopra, l’attacco alla sovranità nazionale in quanto quest’ultima è consustanziale al costituzionalismo. Non altrettanto percepito, invece, è l’attacco alla sovranità delle autonomie locali ovvero – per dirla con una categoria sociologica molto in voga negli ultimi due decenni – l’attacco alla sovranità dei territori.
La mia tesi è pertanto che il dichiarato progetto del Governo Letta di modificare il Titolo V della Costituzione – quello relativo alle autonomie locali – sia parte integrante della strategia di attacco alla sovranità popolare-nazionale e che costituisca, altresì, un passaggio centrale per quel processo di taglio generale della spesa pubblica che ha reso ineffettivi – e che ancor più renderà ineffettivi in futuro – decine e decine di Articoli della Carta.
Ritengo necessario esporre, per la lettura del presente articolo, un altro presupposto analitico preliminare, riguardante la spesa pubblica. Senza mettermi a fare l’ennesima elencazione di economisti appartenenti all’arcipelago neo-keynesiano, parto qui da quella tesi sempre più condivisa che attesta l’evidente effetto recessivo delle politiche di taglio alla spesa realizzate nei paesi del sud dell’Europa. Questo comporta, di conseguenza, il rifiuto di tutte le istanze politiche fondate sui “tagli agli sprechi”. Non perché gli sprechi non esistano – ci mancherebbe – ma perché in questo specifico passaggio storico e strategico essi svolgono la funzione, del tutto ideologica, di sviare l’attenzione dell’opinione pubblica dalla cause primarie della crisi. Nel contesto del fiscal compact, con una prospettiva di taglio alla spesa lunga vent’anni, parlare di riduzione degli “sprechi” significa rinviare l’urgenza, ovvero rinviare il rigetto del Trattato di Stabilità europeo e dei suoi vincoli di spesa, ovvero rinviare l’elaborazione di un programma politico che punti all’aumento complessivo della spesa pubblica. In altre parole, chi parla degli “sprechi” anziché dell’abolizione del fiscal compact, incoraggia la prosecuzione delle politiche di taglio alla spesa e dunque dell’austerità; pertanto egli fa il gioco, magari anche in buona fede, della Commissione Europea, della BCE e, più in generale, di quella classe oligarchica che controlla attualmente tanto l’Unione Europea quanto i singoli Stati-nazione.
I federalismi della Seconda Repubblica e il concetto sociologico di territorio
Venendo alla politica odierna, sappiamo che gli attuali Presidente della Repubblica e Presidente del Consiglio hanno attribuito al governo in carica due compiti essenziali: la privatizzazione e/o svendita delle aziende a partecipazione pubblica, nonché un insieme di riforme atte a destrutturare dalle fondamenta l’attuale Costituzione. Per quanto riguarda quest’ultimo compito, l’aspetto che trova al momento d’accordo quasi tutti gli attori istituzionali è proprio quello relativo al Titolo V.
La maggioranza di governo intende dunque attuare una “riforma della riforma”, ovvero una revisione della modifica costituzionale entrata in vigore nel 2001 e anticipata nel 1997 con la Riforma Bassanini. Quel processo legislativo aveva sancito il riconoscimento degli enti locali come “enti esponenziali preesistenti alla formazione della Repubblica”. Province, Comuni e Regioni erano cioè divenuti, nella Seconda Repubblica, entità quasi paritetiche all’amministrazione dello Stato nazionale. Questa riforma rappresentò il tentativo, da parte del centrosinistra, di controbattere alla Lega Nord ovvero alla capacità di quest’ultima d’imporre il federalismo nell’agenda politica. La differenza tra la Riforma Bassanini e la visione leghista non era, però, di poco conto.
Da Ministro delle Riforme, Umberto Bossi formulò un progetto di riforma che prospettava, in buona sostanza, tanti piccoli “centralismi”. L’idea bossiana constava infatti di un netto incremento di potere a favore delle amministrazioni regionali. Questo progetto non trovò effettivo consenso nel paese e fu quindi bocciato, tramite referendum, nel giugno del 2006.
La citata riforma del centrosinistra, invece, si basava su un principio “a scalare”. Attribuiva cioè competenza amministrativa, in ordine decrescente, allo Stato nazionale, alle Regioni, alle Province e infine ai Comuni. A fianco della valorizzazione del ruolo delle Regioni, veniva dunque attribuita centralità alla funzione delle amministrazioni cittadine in quanto queste ultime rappresentavano, nel dibattito politico del tempo, la materializzazione istituzionale del concetto sociologico di territorio. Quest’ultimo, soprattutto negli ultimi decenni, è stato identificato dalle scienze sociali come uno degli ambiti costitutivi della sovranità. Come verificabile presso qualsiasi manuale di sociologia, il territorio è cioè quell’ambito in cui si sviluppa fisicamente, all’interno d’una relazione di prossimità, l’interscambio fra cittadini e istituzioni.
L’unanimismo ideologico che accompagna il progetto di revisione del Titolo V
Tutte le forze politiche che siedono in Parlamento sono più o meno concordi sulla prospettiva di mettere in atto, nei prossimi mesi, una riforma che ridisegni l’assetto istituzionale in chiave neo-centralista. Principale promotore è, manco a dirlo, proprio la coalizione politica autrice della Riforma Bassanini, vale a dire il centrosinistra.
Più in generale, però, siamo dinanzi a una dinamica di unanimismo ideologico che, attraverso la retorica del “taglio agli sprechi”, promuove la dissoluzione costituzionale con il consenso pressoché totale dell’opinione pubblica. Citiamo alcuni esempi per fornire un’idea delle dimensioni e della portata di tale unanimismo:
- Enrico Letta, in ottobre, ha pubblicamente dichiarato che la Riforma del 2001 fu “un errore clamoroso”.
- Matteo Renzi, da candidato alla segreteria PD, ha auspicato in novembre la riforma del Titolo V (“non è accettabile che in tempi di difficoltà economica la politica continui con i suoi carichi di costi e le Regioni si trasformino in dei macro Stati che pensano di poter governare tutto”) e l’ha altresì posta, soltanto pochi giorni fa, come uno dei tre punti su cui sarebbe possibile trovare un accordo istituzionale fra tutti i partiti.
- La sinistra del PD d’altro canto non è da meno e potrebbe, a buon diritto, rivendicare la paternità dell’idea. Durante la campagna elettorale per le elezioni del febbraio 2013, Pierluigi Bersani pose più volte la riforma del Titolo V come priorità in caso di vittoria elettorale (Stefano Fassina ne parlò a più riprese, per conto del segretario democratico, durante le interviste “tecniche” rilasciate nel 2012 al quotidiano Il Foglio).
- Anche il centrodestra, probabilmente fiutando l’aura di consenso che avvolge il progetto, ha espresso una concordanza piena (Angelino Alfano, a ottobre, ha infatti dichiarato d’essere “d'accordo su una immediata modifica”).
- Per quanto riguarda Beppe Grillo e il Movimento 5 Stelle possiamo dire che, dal vasto mare delle contraddizioni e dei non-detti di questa formazione politica, una visione economica sembrerebbe alfine delinearsi e potrebbe essere sintetizzata con un imperativo netto: taglio della spesa pubblica. Quindi, secondo il paradigma interpretativo adottato nel presente articolo, anche in questo caso siamo dinanzi a una prospettiva volta a incrementare l’austerità. Naturalmente, come nel caso dei governi Monti e Letta, suddetta prospettiva troverebbe giustificazione e consenso grazie a un più che efficace paravento ideologico, ovvero grazie alla retorica del “taglio agli sprechi”. Essendo le autonomie locali le depositarie della maggioranza della spesa welfaristica – dalla sanità agli asili nido – è in qualche modo logico e coerente che esse siano divenute bersaglio privilegiato di chi promuove i tagli. Va detto, per completezza, che i pentastellati non hanno finora espresso una posizione netta sul Titolo V e si sono anzi, nei mesi scorsi opposti ai tentativi di stravolgimento costituzionale predisposti dal Governo Letta. D’altro canto, però, essi potrebbero rivendicare il fatto d’essere coloro che hanno avviato per primi – tramite la litania sull’abolizione delle Province e tramite la retorica generale sugli “sprechi” – quella campagna ideologica che oggi fa da propellente al progetto di azzeramento delle autonomie locali.
- Quelle organizzazioni sempre meno rappresentative della società e che soltanto i mass-media ancora si ostinano a chiamare “parti sociali”, parimenti, non si sottraggono al coro. Nel maggio 2013, per esempio, il Presidente di Confindustria Giorgio Squinzi ha definito il Titolo V “un ibrido inefficiente”.
- Il direttivo della Cgil – sindacato che, nel 2012, si era timidamente opposto alle riforme preliminari in materia apportate da Monti e di cui più avanti – ha votato in ottobre, all’unanimità, un documento affermante l’impellenza di “una profonda revisione del Titolo V della Costituzione che riduca drasticamente le materie concorrenti”.
- Infine, non può mancare da questo elenco il protagonista primario dell’attuale fase politica. Il fautore d’una situazione di eversione costituzionale che, grazie ai rapporti di forza nonché alla forza dell’abitudine, viene oramai percepita dall’opinione pubblica come usuale. Mi riferisco a quel presunto arbitro delle istituzioni che ha assunto, impunemente, la facoltà di dettare la linea politica a governo e Parlamento. Mi riferisco, insomma, al senatore Giorgio Napolitano. Pochi giorni fa – il 17 dicembre – questi ha formulato l’ennesima summa teologica del proprio pensiero. Non si tratta di nulla di nuovo ma ritengo non faccia male, di tanto in tanto, ripassare i lineamenti ideologici e strategici che guidano l’azione di colui che è oggi, all’interno delle istituzioni, il principale artefice del progetto di stravolgimento della Carta: “Le riforme come il superamento del bicameralismo paritario, lo snellimento del parlamento, la semplificazione, del processo legislativo, o come la revisione del Titolo V varato nel 2001, sono convinto siano ormai questioni vitali per la funzionalità e il prestigio del nostro sistema democratico, per il successo di ogni disegno di rinnovato sviluppo economico, sociale e civile del nostro paese nel tempo della competizione globale”.
Interludio: la privatizzazione della politica
Dunque, a sostegno della revisione del Titolo V, si staglia dinanzi a noi uno scenario di unanimismo ideologico in tutto e per tutto simile a quello dispiegatosi in occasione dell’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. Anche in quel caso, il Pensiero Unico Grillo-Renzi – ovvero il Pensiero Unico che promuove il taglio della spesa pubblica utilizzando il paravento ideologico degli “sprechi” – ha fatto da propulsore a una strategia perfettamente complementare a quella relativa alla svendita di Eni e Finmeccanica. Così come è stata predisposta la privatizzazione degli asset strategici dell’economia per sottrarre quest’ultima al controllo pubblico, parimenti è stato attuato – col consenso della semi-totalità della popolazione italiana – un inedito e parallelo processo di privatizzazione della politica.
I partiti, che necessitano di risorse economiche per esistere, in seguito all’abolizione del finanziamento pubblico diverranno nell’immediato futuro ancor più di oggi dipendenti da lobbisti, finanzieri e banchieri. I partiti-azienda come Forza Italia e M5S, le riunioni a porte chiuse fra Matteo Renzi e gli speculatori di borsa alla Davide Serra, rappresentano soltanto una timida avvisaglia di ciò che verrà. Lo scenario politico italiano è insomma destinato a sviluppare una similarità crescente con quello americano, laddove soltanto chi dispone di ingenti risorse economiche è in grado di esercitare pressione sulla politica e, soprattutto, sull’azione legislativa.
Orbene, quello stesso unanimismo ideologico che ha portato alla privatizzazione della politica torna a materializzarsi nuovamente. Questa volta, però, con il rischio di provocare una catastrofe di proporzioni anche maggiori. Infatti, è arrivato il momento di porsi una semplice domanda: perché tutto questo interesse a riformare il Titolo V?
Le modifiche al Titolo V apportate dal Governo Monti
Per rispondere dobbiamo tornare al 2012, ovvero al tempo del Governo Monti.
Nel silenzio e nel disinteresse più assoluti da parte dell’opinione pubblica, il Titolo V ha già subìto modifiche recenti – in senso neo-centralista – proprio da parte del governo dei “tecnici”. Oltre alla nota modifica dell’Articolo 81 della Costituzione relativa al pareggio di bilancio, il Governo Monti ha infatti realizzato due ulteriori e complementari modifiche.
- Grazie alla riforma dell’Articolo 117, è stata attribuita allo Stato la prerogativa di “armonizzazione dei bilanci pubblici”, vale a dire la possibilità d’intervenire sulla facoltà di spesa delle amministrazioni locali.
- Grazie alla riforma dell’Articolo 119, si è imposto a Comuni, Province e Regioni “l‘osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione Europea”.
Per farla breve, l’attuazione delle politiche di austerità imposte dall’Unione Europea ha necessitato di sottrarre il potere di spesa agli enti locali. Nel periodo in cui queste riforme venivano attuate, Monti trovò dura opposizione da parte di tutti i Presidenti di Regione. Per l’ex-advisor di Goldman Sachs fu allora un vero e proprio colpo di fortuna che, poco prima dell’attuazione dei tagli previsti dalla spending review, la magistratura mettesse sotto inchiesta dieci amministrazioni regionali su venti. E così, negli stessi giorni in cui l’opinione pubblica volgeva la propria beata e ignorante attenzione verso le feste in maschera di Franco Fiorito, in maniera completamente indisturbata Mario Monti procedeva con un taglio di 12 miliardi alla Sanità realizzato in larga parte sottraendo risorse alle Regioni.
La finalità della revisione del Titolo V: abbattere il welfare state
Come a questo punto dovrebbe risultare chiaro, l’azzeramento delle autonomie locali risponde allo stesso disegno strategico che muove le politiche economiche a livello nazionale: incrementare l’austerità, realizzare quanto annunciato senza giri di parole da Mario Draghi con l’affermazione “il modello sociale europeo è morto”. In breve: abbattere il welfare state.
Nel caso italiano, a partire dalla Riforma Bassanini, non è però possibile demolire il welfare senza sottrarre preliminarmente potere agli enti locali. Che si tratti della competenza delle Regioni sulla Sanità, di quella delle Province sull’istruzione oppure del ruolo dei Comuni rispetto ad asili e assistenza ai senza fissa dimora, poco importa. Il fiscal compact imporrà manovre da 50 miliardi di euro all’anno per vent’anni e il reperimento di tali risorse renderà inevitabili tagli progressivi alla spesa pubblica. Questi tagli, naturalmente, verranno ogni volta presentati come “riduzione degli sprechi”, come “razionalizzazione delle risorse” e con tutte le altre mendaci formule di cui dispone la propaganda ideologica della classe dominante. Eppure, basterebbe osservare il processo dell’ultimo decennio per comprendere come non sia possibile venire a patti con l’ideologia dei tagli alla spesa, come sia necessario smascherare la funzione ideologica degli enunciati contenenti la parola “sprechi”, come sia prioritario contrastare integralmente questa tendenza.
Esattamente da dieci anni, lo Stato non ha fatto altro che operare tagli progressivi dei trasferimenti dal governo nazionale agli enti locali: prima col governo Berlusconi (2004), poi col governo Prodi (2006), poi ancora col governo Berlusconi (2011), poi col governo Monti (2012) e infine col governo Letta (2013). Tutto questo ha provocato un ridimensionamento di proporzioni immense per tutto ciò che concerne i servizi sociali amministrati dai territori e, in generale, per tutto l’esiguo e traballante impianto del welfare italiano. Non è possibile, in questa sede, elencare tutte le conseguenze che hanno colpito la vita concreta e quotidiana di milioni di persone. Basti citare, tanto per fare un esempio, come la spesa per la sanità sia stata tagliata di 25 miliardi nei soli ultimi tre anni, con conseguente aumento generalizzato dei ticket sanitari e con la riduzione di decine di migliaia di posti letto negli ospedali italiani. Si potrebbe poi continuare parlando dei tagli di 23 miliardi alla scuola pubblica previsti per il triennio 2015-2017 – ambito amministrato finora dai vari enti locali – ma direi che, a questo punto, il concetto che sto cercando di esprimere dovrebbe risultare chiaro.
In sintesi, le motivazioni che sottostanno al progetto di revisione del Titolo V sono legate all’abbattimento del welfare e collegati ai vincoli sottoscritti con l’Unione Europea. Pertanto, chi vuole baloccarsi con la retorica degli “sprechi” o con le tesi velleitarie del genere “riduciamo qui così poi aggiungiamo là”, si accomodi pure e buona fortuna. Nel quadro delle immense risorse necessarie a ottemperare quanto prescritto dal fiscal compact, il processo dei tagli generalizzati non potrà essere arrestato da nessuna riduzione dello spreco e da nessuna razionalizzazione della spesa. In questo quadro, non esiste altra prospettiva politica fuorché il rigetto giuridico, attraverso gli Articoli della Costituzione nazionale, dei Trattati dell’Unione Europea nonché l’antagonismo assoluto verso tutti i progetti di taglio alla spesa. Fra questi progetti rientra, per l’appunto, la revisione del Titolo V.
Il rapporto fra sovranità e territorio, ovvero l’ingresso del sociologo Giuseppe De Rita tra le fila degli apocalittici
È importante sottolineare, in conclusione, come questo progetto di riassetto istituzionale in senso neo-centralista non abbia alcuna valenza di tipo nazionalistico. Al contrario, la dissoluzione delle autonomie locali è voluta da quelle stesse forze politiche ed economiche che promuovono la cessione di sovranità nazionale alla BCE e alla Commissione Europea. La destrutturazione della sovranità popolare e del costituzionalismo, in altre parole, passa attraverso due piani d’intervento, entrambi volti all’abbattimento del welfare state:
- l’impossibilità per gli organi elettivi nazionali (parlamento) di modificare gli indirizzi di politica economica decisi in sede europea;
- la sottrazione di potere politico e di facoltà di spesa ai territori.
Per quanto riguarda il rapporto fra sovranità e territorio, vale la pena soffermarsi sullo studioso che negli ultimi decenni ha maggiormente approfondito il tema, ovvero il sociologo Giuseppe De Rita. Personalmente, dal punto di vista delle idee politiche, mi considero decisamente distante da De Rita. Ritengo però che i rapporti Censis pubblicati negli ultimi anni abbiano fornito strumenti interpretativi comunque molto utili e che sia interessante, soprattutto, osservare come un teorico d’impostazione cattolica e moderata sia andato a ingrossare, in seguito ai cambiamenti determinati dalla crisi economica, le fila dei pensatori “apocalittici”. Gli avvenimenti più recenti hanno portato De Rita, infatti, a modificare non di poco quella narrazione ottimistica con cui aveva per tanti anni descritto il panorama italiano. Suddetta narrazione era basata su tre concetti-cardine: a) l’ineluttabile cetomedizzazione della società italiana; b) la crescente centralità economica delle piccole-medie imprese; c) il ruolo del territorio come sintesi fra piano istituzionale, piano delle soggettività sociali e piano produttivo. Il povero De Rita, ebbene, ha visto a un certo punto quel mondo da lui narrato crollargli tutto intorno.
In primis, come ormai attestato da tutti gli istituti di ricerca sociale nazionali e internazionali, la cetomedizzazione è un concetto del passato in quanto la classe media risulta in fase di assottigliamento – se non di estinzione – in tutto l’Occidente. Per quanto riguarda la forza propulsiva delle piccole-medie imprese, basti dire che il numero dei fallimenti è aumentato in Italia del 65% negli ultimi quattro anni.
Soprattutto, però, il territorio ha perso non soltanto le risorse economiche, ma finanche quel potere politico che rappresentava il fondamento principale della sovranità popolare subito dopo la Costituzione. Nel 2012, De Rita ha quindi scritto: “La marginalizzazione dei territori del nostro paese sono la conseguenza del cambiamento dei connotati della sovranità del potere. Per secoli, questa sovranità era data dai territori, oggi dai flussi finanziari con le conseguenze che conosciamo”. Nello stesso periodo, il sociologo del Censis ha quindi messo in rilievo la complementarietà esistente fra le micro-sovranità territoriali e la sovranità in senso più esteso, ovvero la sovranità costituzionale e nazionale: “Gli Stati non hanno più sovranità. Se non c’è sovranità cade la politica. E la politica viveva, deve vivere, di essa”.
Sovranità nazionale e sovranità di territorio sono quindi due principi differenti ma accomunati dal fatto di ritrovarsi, nella fase attuale, sottoposti all’attacco sferrato da un solo e unico nemico: la tecnocrazia europeista ovvero il capitalismo finanziario.
(*) Note sull'autore
Riccardo Paccosi è attore e regista teatrale, residente a Bologna.
Caro Riccardo,
il tema è complesso. Tu metti in rilievo le "esigenze" finanziarie che muovono verso la "riforma della riforma".
Ma esigenze diverse, una positiva e una negativa, possono talvolta muovere verso uno scopo comune. Se e nella misura in cui la eventuale nuova disciplina ripristinasse la vecchia del 48 (ma ci credo poco) sarei felice.
Dal mio personale punto di vista, distinguerei tra comuni province e regioni.
Per quanto riguarda i comuni, sono a favore dell'autonomia perché intuitivamente, caratterialmente e culturalmente sono localista, affettivamente attaccato alla mia marsica dalla qualenon mi stacco. Tuttavia, esistono casi macroscopici in cui il Comune non funziona (paesi ubicati su laghi meravigliosi senza depuratore funzionante). Credo che all'autonomia dei cittadini debba essere concessa più di una possibilità ma sforati alcun standard, diciamo al terzo richiamo, debba subentrare qualcosa di simile al podestà, re-introdotto nel 1926 come sistema generale con legge "fascistissima" e che tuttavia, come sistema assolutamente straordinario, potrebbe mettere ordine a situazioni sconcertanti.
Per quanto riguarda le province, penso che esse già sforino la nozione di territorio. Tu vivi in città ma chi vive in provincia o in cittadine di provincia sa che il territorio è la contrada che è parte della provincia (una provincia è normalmente costituita da due, tre o quattro contrade). Io conosco benissimo tutti i paesi, le strade, i laghetti e i canali della marsica, che ho battuto da calciatore pulcino ed esordiente, da pescatore di ranocchie, da quasi ultimo dei moicani nel bagnarmi nel laghetto di Papacqua, per accompagnare amici pscatori o papà a cercare funghi nella Valle Roveto o nella variante di Tagliacozzo o a Marano, perché la domenica salivo sul Viglio, il Velino, il Sirente, il nostro Salviano, perché i miei amici di scuola al liceo venivano da vari paesi della marsica e per altre ragioni. Conosco la zona di L'Aquila (che peraltro ho amato) soltanto per avervi svolto il servizio civile, dunque casualmente. Io sono avezzanese e marsicano (non "della provincia di L'Aquila", come mi impone la burocrazia). E ovviamente ciò vale, in senso simmetrico e contrario, anche per gli aquilani e per i sulmontini.
Credo quindi che le province vadano moltiplicate o meglio che ad esse debba essere sostituita la contrada, che è il vero ambito territoriale italiano (salvo per chi vive in grandi città).
Per quanto riguarda le regioni, esse credo che non abbiano nulla a che fare con il territorio. Sono piuttosto artificiali e probabilmente indispensabili per ragioni amministrative. Quindi non le eliminerei totalmente ma quasi, nel senso che ridurrei enormemente le funzioni che hanno, per tante ragioni che non sto qua a spiegare.
Insomma, è una materia tutta da studiare e se le esigenze finanziarie invocate dal liberismo in questo momento storico si incontrano con il carattere indubbiamente pasticciato della riforma del 2001, non è detto che la materia delle autonomie locali non debba essere oggetto di una profonda riflessione.
La spesa delle Regioni e' ormai del tutto fuori controllo. Non risolvono poi affatto il problema dei contrasti Nord-Centro-Sud, quindi le regioni vanno, se non abolite, quasi.
Le regioni sono anche il regno della inefficienza, della incompetenza, della corruzione e delle clientele al massimo livello. Il luogo di riciclo di omuncoli. Quindi concordo, ribadendo quanto ho espresso.