INVALSI: in arrivo i test per valutare empatia, grinta e auto-controllo (del futuro lavoratore ideale)
di ROSSELLA LATEMPA
Con il termine soft skills, non cognitive skills, life skills, o socio-emotional skills si indica “comunemente quella gamma di qualità personali, spesso descritte come dimensioni non accademiche e non cognitive dell’apprendimento. Categorie come auto-controllo, benessere, perseveranza, felicità, resilienza, mentalità aperta, grinta, intelligenza sociale, carattere”.
Così il prof. Ben Williamson, della Facoltà di Scienze sociali dell’Università di Stirling, Regno Unito, descrive il recente campo di interesse di quella comunità transnazionale fatta di organizzazioni governative e non, agenzie pubbliche e private, think thanks e gruppi accademici di varie aree disciplinari capace di incidere e dettare indirizzi economico-politici in campo educativo anche a livello nazionale.
Le soft skills devono essere interpretate come nuove categorie concettuali da standardizzare, misurare e confrontare, anche in contesti diversi. In quel processo che alcuni autori hanno ribattezzato “datification delle socio-emotional skills” un ruolo chiave è stato svolto dall’Organizzazione per lo Sviluppo e la Cooperazione Economica (OCSE), come di recente abbiamo già segnalato.
Attraverso il suo Centro di Ricerca ed Innovazione Educativa (CERI), l’OCSE ha svolto un poderoso lavoro di raccolta e stabilizzazione di un gran corpo di ricerche di tipo psicometrico sulle competenze socio-emozionali, il cui scopo è stato quello di costruire un “apparato” di oggettività e di consenso internazionale attorno all’idea che un certo insieme di tratti psicologici, atteggiamenti o elementi del carattere degli studenti possano essere tradotti in una nuova metrica di indicatori quantificabili, standardizzabili e sistematizzabili in scale e referenziali, che li rendano confrontabili anche tra contesti diversi, esattamente come è accaduto nel tempo per le hard skills (le competenze base in lingua, matematica e scienze misurate dai test OCSE-PISA). Contribuire a costruire la nuova “scienza delle soft skills”, un mix tra scienza dei dati e scienze psicologiche: questa la missione dell’OCSE.
L’OCSE non si limita a farsi garante e promotrice della misurabilità e della “scientificità” delle soft skills di bambini e adolescenti, ma compie un passaggio ulteriore: investe le soft skills di imperativi economici, trasformando le competenze trasversali degli studenti in veri e propri indicatori econometrici, determinanti e predittori del benessere prima individuale e poi sociale.
Le soft skills sono “attributi personali, disposizioni relativamente stabili, indipendenti dalle capacità cognitive, potenzialmente reattivi ad interventi esterni, dipendenti da fattori di contesto e vantaggiosi per un vasto range di risultati nella vita (life outcomes)”, la cui rilevanza è “dimostrabile per un ampio range di obiettivi [..pertanto..] importante oggetto di interesse politico”: così afferma il rapporto “Personality matters: relevance and assessment of personality characteristics”, 2017.
“Scientificità” e rilevanza politica, basate sull’oggettività di metodi standardizzati di misurazione e comparazione di tratti della personalità umana trasformati in nuova priorità economica, perché capaci di incidere sulla produttività individuale e sociale. Un vero e proprio “realismo metrico”, che dietro l’apparente neutralità e indipendenza dell’apparato di codifica numerica costruito e impiegato, omette l’immenso processo di disciplinamento, semplificazione e riduzione necessari per tradurre la complessità psicologica e la singolarità umana in variabili matematiche.
Tra le indagini (campionarie) che l’Organizzazione ha strutturato in corrispondenza dei vari traguardi di crescita, quella sulle competenze cognitive dei 15enni (Test PISA) ha visto coinvolti, a partire dal 2000 con cadenza triennale, anche i nostri studenti attraverso l’istituto di valutazione INVALSI.
Su scala nazionale, in diverse realtà, è già iniziata la misurazione standardizzata delle competenze trasversali di bambini e adolescenti.
Negli USA, l’Office of Educational Technology del Department of Education, nel 2013 ha pubblicato un rapporto dal titolo significativo: “Promoting grit, tenacity and perseverance” e, a due anni di distanza, una nuova legge federale Every student Succeeds Act (ESSA) ha reso obbligatorio “includere misure del carattere [degli studenti] nei [..] sistemi di accountability”.
Anche in Italia, oltre alla partecipazione dei nostri studenti agli studi internazionali, sono iniziate ufficialmente le grandi manovre. “Non è forse arrivato il momento di esigere ben altro dai sistemi educativi? Imparare a vivere, imparare a imparare”, ha dichiarato in un recente editoriale la Presidente dell’INVALSI Ajello.
Già nel febbraio 2018 il Centro Studi della Chiesa Cattolica dedicava una giornata di lavori alla “Sfida educativa delle soft skills”; nel marzo successivo, durante il seminario ad invito MIUR – INVALSI in cui venivano presentati i nuovi quesiti di matrice psicologica introdotti nel “Questionario Studente” associato ai test 2018, il prof. Giorgio Vittadini, ordinario di Statistica a Milano, sottolineava l’importanza della misurazione delle skills non cognitive; ancora, nel maggio 2018, sempre MIUR e INVALSI tenevano un altro seminario ad invito sul tema “Soft skills e competenze chiave: alla ricerca di punti di contatto”. Infine, nel dicembre scorso, il nuovo ministro Bussetti costituiva una commissione ministeriale dedicata proprio alle soft skills, considerate tra le priorità del nuovo esecutivo.
La via italiana delle soft skills sembra dunque tracciata.
Per capire la direzione su cui ci incamminiamo, vale la pena dare un’occhiata a qualche passaggio tra i più significativi della relazione del prof. Vittadini, recentemente resa pubblica sul sito del Sistema Nazionale di Valutazione italiano.
Il professore, che attualmente dirige il progetto triennale sullo “Sviluppo delle competenze non cognitive negli studenti Trentini”, sembra partire da un presupposto nobile: superare il funzionalismo della scuola attuale, schiacciata sulla misurazione di abilità cognitive (mediante test standardizzati), che non colgono dimensioni umane fondamentali quali “lo sviluppo del carattere, della socialità e, ancor meno, delle doti morali”. Come fare? Ad esempio con i test Big Five, i test di Rosenberg e Rotler, i test sul capitale psicologico, suggerisce Vittadini. Semplice, quindi: per superare l’attuale riduzionismo scolastico basta fare altri test!
Bisognerà pur porsi il problema di tutti quei ragazzi poco empatici, poco collaborativi, non grintosi, non ottimisti, poco resilienti, musoni. Cosa sarà di loro, cosa se ne farà la società del XXI secolo, di studenti simili? Certo, “se si trovasse un accordo sulle dimensioni “utili” del carattere”, suggerisce Vittadini, allora sì che la scuola potrebbe agire, “diagnosticare, calibrare”. Considerando non solo le “dimensioni psicologiche”, ma anche “sintomi clinici, spettro di sintomi [..] eziologia, specificità per categorie a rischio”. Un lavoro di fino, “scientifico” insomma. Ecco infine l’auspicio conclusivo: è importante sviluppare, prima a titolo sperimentale e poi via via in modo stabile e istituzionalizzato, i test INVALSI sulle soft skills (NCS).
Il 12 Marzo scorso, ad un anno esatto da quell’auspicio, si riuniscono al MIUR, tra gli altri, il Presidente INVALSI, Ajello, il responsabile area prove, Ricci, e ancora una volta il prof. Vittadini.
La presidente Ajello presenta “indicazioni e prospettive” nel campo delle soft skills, distinguendo le competenze – chiave, più “concrete”, associate a quanto i nostri studenti sono capaci di “funzionare in gruppi eterogenei” o “funzionare nella vita pratica”, dalle life skills, più eterogenee (pensiero creativo, pensiero critico, empatia, gestione dello stress etc.). Che si tratti dell’una o dell’altra, tuttavia, Ajello è convinta: indagarle (e misurarle) rappresenta “una rivoluzione copernicana negli studi dell’apprendimento”.
Come valutare, allora, le soft skills degli studenti italiani in modo standardizzato? A questa domanda prova a rispondere il responsabile Area Prove INVALSI, R. Ricci. Nell’osservazione di una competenza finalizzata al raggiungimento di un obiettivo (task performance) si evidenziano determinanti sia di tipo cognitivo che di diversa natura: incentivi, impegno, character skills. Tutti questi fattori vanno presi in considerazione, nell’ottica di una standardizzazione del processo (dunque sono tutti fattori da matematizzare, separare, e poi correlare e far interagire attraverso opportuni modelli).
Riguardo l’età della platea di studenti di cui misurare “il carattere”, Ricci ricorda che sarebbe importante partire già da 0 a 6 anni: è proprio la primissima infanzia quella che presenta la maggiore duttilità, oltre che il maggior ritorno in investimento; tuttavia la neuroscienza suggerisce anche l’importanza dell’adolescenza, come fase della vita in cui ”sono particolarmente plastiche regioni del cervello che consento lo sviluppo dell’autoregolazione [..] e in cui si può sviluppare il senso della responsabilità”. La timeline è predisposta, tempo due anni e avremo le prime misure standardizzate delle soft skills degli studenti italiani,
Sono giorni, i nostri, scriveva Giorgio Israel, in cui “l’approccio meccanicistico riduce la complessità del reale a modelli matematici, ad algoritmi che pretendono di essere l’unica chiave di conoscenza. Un tempo, il nostro, in cui si pretende che solo quantificandola in qualche modo la realtà” – e oggi anche l’essere umano, aggiungiamo – “ possa essere conoscibile, mentre, per dirla con il filosofo francese Alain Finkielkraut, ‘tutto il resto è letteratura’”.
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