La repressione finanziaria come antidoto all’ERF e all’aporia del debito pubblico ipertrofico.
Sono passati poco meno di tre mesi da quando il Prof. Antonio Maria Rinaldi nel corso della trasmissione televisiva condotta da Gianluigi Paragone “la Gabbia” portava all’attenzione del grande pubblico, sdoganandolo dal ristretto circolo degli addetti ai lavori, il funzionamento di questo nuovo “leviatano giuridico” in gestazione presso l’UE. (1)
Stiamo parlando dell’ European Redemption Fund (contraddistinto dall’acronimo ERF) cioè fondo di redenzione europeo, elocuzione in limine al misticismo, come se gli Stati fossero dei peccatori in procinto di espiare i propri peccati.
Tecnicamente l’ERF è il “precipitato applicativo” del Fiscal Compact. Poiché nessuno degli Stati europei riuscirà da solo a far fronte agli enormi oneri finanziari derivanti dal Fiscal Compact, verrà creato un fondo comune ad hoc con il compito di emettere euro-union-bond; gli Stati aderenti, però, saranno costretti a conferire in garanzia gran parte dei propri assets (nella fattispecie italiana: ENI, ENEL FINMECCANICA, ecc), parte della fiscalità e parte del patrimonio immobiliare.
In una recente intervista al Corriere della Sera il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Graziano Delrio, uomo molto vicino a Matteo Renzi, ha affermato che per abbattere il debito pubblico verrà costituito un fondo europeo, con in pancia asset pubblici a garanzia, che si indebiterà al fine di ridurre il debito statale del 25% – 30% di PIL. (2)
Ma come osserva argutamente il Pres. Luciano Barra Caracciolo sul suo blog “orizzonti 48”: Delrio dimentica di far capire agli italiani che i 320 miliardi di beni reali offerti in garanzia, verrebbero escussi ogni anno nella misura prevista dal fiscal compact. (3)
Prima di pagare, però, un prezzo così alto come quello di impegnare i “gioielli di famiglia”, siamo sicuri che non vi siano alternative?
C ‘era una volta un Paese che per trent’anni prosperò con alti livelli di PIL e debito pubblico costantemente in calo. Quell’irenico Paese non si chiamava, oniricamente, Lunandia, ma Italia. Proprio così: parliamo dell’Italia dal 1945 al 1981. Possibile che nessuno degli statisti italiani che si sono succeduti al Governo in questi ultimi decenni non ricordi (o faccia finta di non ricordare) quel Paese?
La dimostrazione che il paradigma economico adottato dall’Italia nel c.d. “trentennio glorioso” sia riproponibile (e vincente) oggigiorno lo dimostra inequivocabilmente il caso della Cina. Il Governo di Pechino, infatti, si ispira (imitandone la politica monetaria) proprio al modello di sviluppo che innescò il boom economico nel Bel Paese. (4)
Questo modello, che va sotto il nome di “repressione finanziaria”, si realizza quando uno Stato paga interessi reali negativi (cioè al di sotto del tasso di inflazione) sui titoli del debito pubblico. (5)
Questo è possibile perché, in un’economia finanziariamente repressa, è lo Stato stesso che disciplina il proprio debito imponendo unilateralmente il tasso di interesse.
In questa situazione lo Stato si finanzia ad un costo tendenzialmente prossimo allo zero. La spesa pubblica (il deficit) viene finanziata ad un costo irrilevante e comunque sempre al di sotto del tasso di inflazione. Così facendo in termini reali lo Stato restituisce ai risparmiatori meno di quanto riceve nel momento dell’emissioni dei titoli e quindi il debito (e di conseguenza il rapporto deficit/PIL), invece di salire, scende.
(Per chi volesse approfondire il regime giuridico italiano di repressione finanziaria può leggere il punto 5 di questo pregevole lavoro del Prof. Stefano d’Andrea). (6)
Brevemente le caratteristiche fondamentali di una economia finanziariamente repressa sono:
1) una banca centrale che non è indipendente dal Governo, ma che al contrario è uno strumento del Governo stesso ed è chiamata a finanziarne il fabbisogno.
2) le altre istituzioni finanziarie (le banche e i fondi pensioni) non sono indipendenti dallo Stato, ma sono sotto il suo diretto controllo e lo Stato stesso impone loro dei vincoli di portafoglio obbligandoli ad acquistare una certa quantità di titoli di debito pubblico.
3) il costo del denaro non è stabilito dai mercati, come avviene oggi, ma è gestito e indirizzato direttamente dallo Stato.
Per attuare la repressione finanziaria lo Stato dispone di diversi strumenti: a) il controllo amministrativo della circolazione dei capitali B) l’obbligo della c.d. riserva obbligatoria gravante su una certa quantità del denaro che viene depositato dai cittadini nelle filiali delle banche commerciali italiane (storicamente nella misura del 25%) e che viene destinata all’acquisto di titoli di debito pubblico C) l’obbligo per la Banca d’Italia di acquistare i titoli di debito pubblico.
Questo tipo di finanziamento pubblico ha luogo in condizioni ordinarie, in cui, cioè, la massa di denaro circolante non viene aumentata stampando moneta, che pure è un'altra prerogativa dello Stato sovrano, a cui raramente però si è fatto ricorso in ossequio ad una certa dottrina (monetarista) secondo la quale l’emissione di moneta ex nihilo comporterebbe un aumento consistente dell’inflazione.
Se non bastasse lo Stato prima del 1981 poteva finanziarsi ricorrendo anche allo scoperto di conto corrente presso la Banca d’Italia, cioè lo Stato aveva un fido ad un interesse molto basso (nell’ordine dell’1% e comunque sempre ampiamente al di sotto dell’inflazione ndr).
La Stato poi, al fine di condizionare l’economia in un’ottica redistributiva che mirasse al benessere diffuso della collettività, poteva utilizzare tutta una serie di strumenti che sono tipici di una impostazione economica di tipo dirigista anche in ossequio all’art. 41 terzo comma della Costituzione (che non a caso oggi si vorrebbe cancellare e che resta di fatto disapplicato). Tali strumenti, soltanto per citarne alcuni, sono: la possibilità di introdurre dazi (come sarebbe possibile altrimenti difendere le aziende nazionali dalla concorrenza di altre economie che, ad esempio, per profonde diversità culturali, impiegano nell’industria manodopera minorile), il controllo amministrativo sulla circolazione dei capitali, l’introduzioni di massimali sul credito privato al fine di scongiurare la pericolosissima “inflazione creditizia”, la possibilità di attuare restrizioni alle attività economiche per mezzo del rilascio di licenze di commercio, dell’istituzione degli ordini professionali, degli esami di abilitazione all’esercizio professionali, (che oggi sono oggetto di liberalizzazioni selvagge), ecc.
In sostanza in quegli anni l’Italia accetta una crescita modesta dell’inflazione (il controllo dell’inflazione, infatti, non è un principio costituzionalmente rilevante ndr) al fine di perseguire il benessere sociale (che, al contrario, è uno dei fini cardini cristallizzato in diversi articoli della Carta Costituzionale).
L’inflazione in Italia dal 1955-61 oscilla tra il 2 e il 3%, nel 1962 tocca quota 4,7 e nel 1963 sale al 7,5, ma in questo stesso anno l’Italia raggiunge la piena occupazione (con una disoccupazione, che può considerarsi fisiologica, al di sotto della soglia del 4%). Un’inflazione moderata non è per nulla un dato malevolo perché, come gli economisti sanno bene, inflazione e disoccupazione sono tra loro correlate in maniera inversamente proporzionale(curva di Phillips).
Negli anni 70 l’inflazione diventa a due cifre, per via della crisi petrolifera, ma questo non ha alcuna ripercussione sociale nefasta, sia perché l’Italia permane in una condizione di piena occupazione, sia perché il Governo interviene con la c.d. “scala mobile per tutelare il potere d’acquisto dei salari.
Tale impostazione economica, che potremmo tranquillamente definire dirigista, perdura in Italia fino al 1981 anno in cui attraverso un’operazione concertata tra l’allora ministro del tesoro Beniamino Andreatta e l’allora Governatore della Banca d’Italia Carlo Azelio Ciampi (poi diventato Presidente della Repubblica) si addiviene a quello che è passato alla storia come il “divorzio” tra Banca d’Italia e Ministero del Tesoro. (7)
Con esso cade il principale pilastro della repressione finanziaria e ci si infila in quel “nuovo corso monetario” eterodiretto dai mercati che ci avrebbe condotto (passando per l’anticamera dello SME) nel 1991 a sottoscrivere il trattato di Maastricht e ad aderire all’UE, accettando tutti quei vincoli esterni (3%, pareggio di bilancio, patto di stabilità interno relativo ai diversi livelli di governance nell’ambito del decentramento amministrativo, fiscal compact ed ERF) volti ad impedire l’intervento statale nell’economia.
A seguito del divorzio de qua la Banca d’Italia non è più un organo del Governo, ma diviene indipendente (da chi? Dal Governo naturalmente, ma, cosa che nessuno dice, per diventare dipendente da qualcun altro ovviamente!). Non a caso diversi esponenti politici, al tempo, parlarono di “congiura”, anche perché una decisione così vitale per l’economia del Paese non venne fatta passare per il vaglio del dibattito parlamentare. L’On. Andreatta si limitò ad inviare una missiva a Ciampi bypassando qualunque controllo democratico. (8)
Il primo effetto più evidente, in seguito alla fine della possibilità per il Tesoro di collocare i titoli emessi presso la Banca d’Italia, è il passaggio dei tassi di interesse da valori reali negativi a valori positivi. Se nel 1980, il tasso reale tocca quota meno sette, già nei due anni successivi risale a valori positivi intorno al 2-3% fino a superare il 5% nel ‘86.
Ora sono i mercati (il sistema bancario, gli intermediari finanziari e più in generale il capitale finanziario) a dettare le regole: sono loro e non più lo Stato unilateralmente a decidere i tassi d’interesse. E i tassi d’interesse (guarda caso) subiscono un’abnorme impennata generando l’ipertrofia del debito pubblico italiano. Questa è la vera ragione per cui negli anni ’80 il debito pubblico va fuori controllo non perché “i socialisti magnano” per usare un espressione colorita molto abusata dal mainstream negli anni 90.
Lo Stato è costretto a diventare un risparmiatore netto cioè a prelevare più di quanto restituisce in servizi. Da quel momento in poi lo Stato è obbligato, da un lato, a ridurre la spesa primaria (pensioni, stipendi, investimenti, sanità, welfare…) e, dall’altro, ad aumentare le tasse per realizzare avanzo di bilancio da destinare alla spesa per interessi.
In altri termini lo Stato è costretto ad attuare sempre più ingenti trasferimenti di ricchezza dalla collettività alle grandi istituzioni finanziarie che divengono le principali detentrici dei titoli di debito pubblico.
Ricapitolando: in questa nuova situazione post-1981 lo Stato per procurarsi il denaro necessario ai propri fini non può far altro che ricorrere al mercato, cioè al sistema bancario. Il sistema bancario impone le sue condizioni allo Stato per finanziarsi. Lo Stato, a sua volta, diventa un debitore del sistema bancario alla stregua di qualunque altro debitore privato, cioè un debitore come tutti gli altri, e quindi non è più il debitore anomalo che disciplina “per se ipse” il proprio debito. Ne deriva una conseguenza gravissima: in questa situazione (e solo in questa situazione!) lo Stato effettivamente non potrà spendere più di quanto non incassi, senza aggravare pesantemente il proprio bilancio.
A questo punto è importante mettere in luce un ultimo concetto fondamentale: questa condizione in cui l’Italia si è andata a cacciare è frutto di una scelta politica ben precisa e dunque discrezionale. Non si tratta, cioè, di una scelta tecnica vincolata. Uno stato sovrano, infatti, per finanziarsi non ha alcun bisogno di dover ricorrere ad un creditore professionale (la banca) o ad un fondo comune (arriviamo all’ERF dei giorni nostri) a cui conferisce, addirittura, beni reali in garanzia.
In altri termini lo Stato, tra le tante opzioni possibili, ha scelto, a partire dal 1981 in poi, di finanziarsi indebitandosi con le banche nell’ottica di redistribuire maggiori ricchezze al settore creditizio a scapito della collettività. Abbiamo visto che prima di questa data non era così (anzi era esattamente il contrario) e potrebbe tornare di nuovo a non essere più così qualora prevalesse una diversa volontà politica che oggi, però, (purtroppo!) appare del tutto assente all’interno del Parlamento nazionale.
Tornare al sistema di finanziamento statale ante-divorzio rappresenta non solo una valida alternativa al fiscal compact e quindi all’ERF, e più in generale ai vincoli esterni imposti dall’UE, ma rappresenta l’unico modo per risolvere definitivamente la “vexata quaestio” dell’inarrestabile aumento del debito pubblico oltre che per reperire le risorse necessarie a sostenere la spesa pubblica, indispensabile per una manovra espansiva anticiclica atta a far ripartire la crescita, in una risolutiva prospettiva di affrancamento dai dannosi dictat dei mercati.
Infatti qualunque siano la bellezza formale delle teorie economiche della finanza moderna (di derivazione liberista) e il carattere rassicurante delle loro conclusioni (la famigerata “mano invisibile” che è talmente invisibile che storicamente nessuno l’ha mai vista) la storia è ostinata e ci insegna che, generalmente, i mercati finanziari funzionano male.
L’avidità degli operatori di questi mercati, come direbbe Joseph Stiglitz, li porta a correre rischi eccessivi, soprattutto quando sanno che gran parte delle eventuali perdite sarà socializzata. Questa cupidigia propria dell’homo oeconomicus diventa il motore delle più grandi stravaganze.
A.R.
“Prendiamo una decisione, poi la mettiamo sul tavolo e aspettiamo un po’ per vedere che succede. Se non provoca proteste né rivolte, perché la maggior parte della gente non capisce niente di cosa è stato deciso, andiamo avanti passo dopo passo fino al punto di non ritorno".
Jean-Claude Junker nuovo Presidente della Commissione Europea
Note:
(1) Cfr http://www.youtube.com/watch?v=KjFjBK2mmEs
(2) Cfr http://www.liberoquotidiano.it/news/economia/11648097/Il-piano-di-Renzi–.html
(3) Cfr. http://orizzonte48.blogspot.it/2014/07/laudizione-i-costituzionalisti-e-il.html
(4) “la Cina ha scelto di sostenere gli investimenti sollecitando una poderosa
formazione di risparmio interno (delle imprese e delle famiglie), incentivata da politiche di
“repressione finanziaria”(controllo dei tassi di interesse e stabilizzazione delle passività
bancarie) e fondata sull’introduzione di barriere nei confronti dei flussi valutari e finanziari
esterni”
tratto dalla Tesi “Le caratteristiche finanziarie dello sviluppo economico cinese. Vi è un problema di sostenibilità?” di Giuseppe Iannini pag. 7 Cfr http://www.stat.unipg.it/aissec2009/Documents/papers/16_Iannini.pdf
(5) http://argomenti.ilsole24ore.com/parolechiave/repressione-finanziaria.html
(6) Repressione finanziaria, potere monetario e cancellazione del debito di Stefano d’Andrea: http://www.riconquistarelasovranita.it/teoria/275 .
(7) Vedi anche http://www.lintellettualedissidente.it/cera-una-volta-la-repressione-finanziaria/
(8) Vd. http://www.ilsole24ore.com/fc?cmd=anteprima&artId=891110&chId=30
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