L'azzeramento della middle-class
Agli inizi degli anni ’70 nei Paesi avanzati occidentali si andava facendo strada una evenienza: la relativa perdita di potere dei ceti ricchi (renditieri) a discapito delle classi operaie.
Tutto ciò non avveniva per caso: dalla fine della seconda guerra mondiale, e dalla ricostruzione che ne seguì, l’industria si dovette man mano piegare alle crescenti pretese salariali dei lavoratori. Il lavoro era abbondante e i margini di crescita enormi. Questa miscela, unitamente alla solidarietà post-bellica tra imprenditoria emergente e manodopera, mise le fondamenta alla creazione della classe media, spiazzando momentaneamente l’ancien régime.
Dal 1950 i sindacati cominciarono a riunire sotto le proprie sigle centinaia di migliaia di lavoratori: grazie alla lotta di classe gli aumenti salariali e di diritti degli operai, costellati di scioperi e rivolte anche più o meno cruente, non tardarono a dare i loro frutti. La classe lavoratrice aveva capito e fatto suo un concetto fondamentale: senza del loro apporto NULLA poteva essere creato.
Gli industriali, loro malgrado, furono costretti a far partecipare in maniera crescente ai lauti utili aziendali la forza lavoro che, guadagnando più del necessario al mero sostentamento, cominciò ad avere capitale disponibile, oltre che per una spesa maggiore che fece crescere vertiginosamente l’economia di detti Paesi, anche per investimenti in beni strumentali che accrescevano ancora maggiormente i loro introiti. Moltissimi operai lavoranti nelle zone industrializzate, con i risparmi derivanti da privazioni ed enormi sacrifici, compravano case e terre nei loro luoghi di origine dandole poi in affitto o aprivano piccoli commerci affidati agli altri membri della famiglia che non erano impiegati, creando di conseguenza altra ricchezza aggiuntiva.
Negli anni ’70, grazie soprattutto ad investimenti statali mirati, il PIL nominale procapite dei Paesi industrializzati cresceva prepotentemente, sostenuto dai consumi di quella classe operaia che ambiva a scalare la piramide sociale, portandola ad un graduale livellamento, e che, finalmente, poteva assicurare un’istruzione e una aspettativa di vita migliore alla propria progenie. Tutto questo non andava troppo bene agli industriali e ai renditieri, benché anch’essi ne traevano immensi benefici: dove sarebbe arrivato il popolino di questo passo? Avrebbe sicuramente e per sempre sfaldato quella piramide di cui costoro erano da sempre stati all’apice, mettendo alla fine in pratica il sogno socialista.
Non è un caso che la via alla globalizzazione si avviò alla fine di quel decennio: nel 1979, grazie alla corrente conservatrice di Milton Friedman, la Gran Bretagna della lady di ferro Margaret Thatcher e a seguire (1981) gli USA del presidente repubblicano Reagan cominciarono a smontare i diritti acquisiti dai lavoratori in tanti anni di dure lotte sindacali e ad aprire la via dell’emigrazione industriale di massa verso lidi più convenienti, dove produrre sarebbe costato anche il 70% in meno. La deindustrializzazione di due delle maggiori potenze manifatturiere dell’epoca aveva avuto inizio, e fu l’esempio da seguire per molti altri Paesi.
Nei ricchi Paesi avanzati le componenti del prezzo all’industria di un prodotto sono così suddivise: ipotizziamo un manufatto che all’industria costa 100; il 70% del totale è formato da costi di manodopera, il 20% è relativo alle materie prime e il restante 10% è energia. A detto prezzo finito bisognerà aggiungere la componente guadagno che porterà, dopo vari passaggi, al raddoppio del costo iniziale, ovvero, troveremo detto prodotto sugli scaffali dei negozi a 200. Tenendo conto che 100 è il costo di produzione e che altri 50 andrebbero alla distribuzione, rappresentanza ecc il guadagno industriale ammonta grosso modo a 50. Mica male, direte voi, ma ….
Nei Paesi in via di sviluppo (quale era la Cina all’epoca) il costo per l’industria, nella peggiore delle ipotesi, poteva essere questo: 20 materie prime, 10 energia e 5 manodopera, abbassando così il costo finito dello STESSO medesimo prodotto a 35, ben il 65% in meno. Va da se che sullo scaffale il prezzo di vendita non subisce alcuno sconto, lasciando all’industria multinazionale 50 + 65 = 115, ovvero MOLTO più del doppio. Adesso consideriamo che la quasi totalità delle multinazionali si occupa anche della distribuzione, dello stoccaggio, del trasporto ecc, introitando anche gran parte di quei 50 destinati a terzi. Ricordate sempre che in occidente l’UNICO costo comprimibile di MOLTO è relativo alla componente “manodopera” e diffidate di aziende come l’ALCOA che indica nell’energia il problema essenziale. Quasi sicuramente, se avessero avuto l’opportunità di fare un contratto collettivo nuovo al 50% in meno sarebbero rimasti a produrre in Sardegna.
Senza alcuna possibilità di smentita posso affermare che una multinazionale che oggi produce in Laos, Cambogia, Nepal, Bangladesh, India, Africa ecc alla fine marginerà sino a 150/155 di quei famosi 200, lasciando le briciole al resto dell’indotto. Tutto ciò farà in modo che non si formi più alcuna altra classe media nel resto del pianeta: saremo carne da macello nelle mani di pochi eletti. Tra qualche anno, una decina al massimo, i salari occidentali incroceranno quelli cinesi e non perché quest’ultimi saliranno di molto.
Un jeans prodotto in PRC, comprato a container, costa 80 centesimi di dollaro USA; un paio di buone scarpe prodotte in Indonesia non supera i 2 dollari; una Polo o una camicia prodotta in Bangladesh arriva a stento a mezzo dollaro. Tutto quanto eccede i prezzi che vi ho appena riportato è GUADAGNO per la filiera che produce/trasporta/commercializza e che nella stragrande maggioranza dei casi è riconducibile alla stessa multinazionale.
Cari amici, questa è la globalizzazione: la massima convenienza per chi produce a prezzi bassissimi e vende al meglio delle possibilità offerte da questo iper-liberista mercato globale. Meglio di questa evenienza, nel mondo imprenditoriale, esiste solo il monopolio.
La grande industria europea ama svisceratamente l’euro per questo motivo: una moneta forte che non si inflaziona è quanto di meglio possa chiedere un imprenditore globale (multinazionale) per garantirsi il massimo profitto. A loro non interessa il bene del Popolo.
Molti pensano che tutto sia stato disegnato e ordito da poche menti diaboliche. La mia idea è che l’inseguimento dell’arricchimento individuale, perseguito da un numero sempre crescente di attori senza scrupoli e remore, abbia portato verso questa via senza ritorno. Mi è difficile immaginare magazzini che vendono e industrie che producono quando le famiglie non possono più spendere oltre lo stretto necessario. Però è anche vero che diversi di costoro stanno spostando il tiro più in alto, mirando ai servizi essenziali che, a causa dell’esplosione dei conti pubblici fuori controllo degli Stati, saranno inevitabilmente privatizzati, portando essi ad agire in regime di monopolio. Cerco di spiegarmi meglio con un esempio. Un qualsiasi commercio che negli anni vede crescere il proprio fatturato tende ad ingrandirsi e ad offrire sempre più prodotti; tutto ciò comporta una serie di investimenti via-via crescenti che spesso vengono fatti indebitandosi pesantemente. Si comprano altri locali, si assumono altri addetti e a volte si attaccano altri settori. Poi, come per ogni ciclo, arriva la fase negativa. Si resiste anche oltre il lecito prima di ridimensionarsi e, di sovente, quanto lo si fa è troppo tardi: la merce resta invenduta per mesi, i locali vuoti e sfitti pesano come macigni, i mutui contratti ai bei tempi risultano impagabili e anche i lavoranti, una volta imploranti nel chiedere lavoro, ora ti attaccano con ogni mezzo per avere gli arretrati e la liquidazione. A questo punto si va in tribunale a portare i libri contabili: il liquidatore provvederà a svendere ad un valore DIECI volte inferiore quanto rimasto. Il fallimento è avvenuto. Quanto descritto può accadere a qualsiasi Stato della UE, la Grecia è lì a testimoniarlo, e l’Italia (ma non solo) ha preso la stessa deriva. Uno Stato che fa a meno del potere di poter battere la propria moneta, piegando ai propri bisogni tale politica è paragonabile all’esempio che vi ho descritto. I tagli promessi dall’esecutivo non andranno MAI e in nessun modo ad intaccare i diritti acquisiti: siate certi che chi ha la super pensione non la vedrà pesantemente decurtata e la scure cadrà dove i cespiti di spesa sono maggiori, ovvero, sanità, istruzione e welfare. L’industria, dal suo canto, nonostante i favori avuti dallo Stato sociale siano stati IMMANI in passato, chiederà un pesante taglio delle tasse e nuovi contratti meno onerosi, mettendo spalle al muro i lavoratori. Alla fine i costi sociali saranno interamente riversati sulle spalle delle classi più deboli che nell’arco di pochi anni vedranno il ridimensionamento, se non propriamente l’annullamento, di molti di quei diritti, una volta inalienabili, acquisiti nell’arco di cento anni di aspre lotte e rivendicazioni.
La classe media occidentale è stata distrutta da questa pratica selvaggia che corrisponde al nome di “globalizzazione”: essa svuota le Nazioni dal di dentro, negando qualsiasi possibilità di crescita ad interi Popoli. Senza protezioni doganali e senza che l’industria ritorni a produrre in occidente per europei e nordamericani il destino sarà segnato per sempre.
L’Italia, per le eccellenze che ancora detiene, potrebbe essere tra i pochissimi Paesi che ce la farebbero a prescindere ma non con questa classe politica, industriale e dirigenziale.
La UE è un’istituzione globalizzatrice che tende a dividere e la moneta comune euro è il suo mezzo di governo. La disoccupazione, i diritti basilari negati, l’emigrazione coatta a cui saremo sottoposti e la perdita dei valori familiari ed affettivi conseguenti sono propedeutici affinché il potere sia completamente nelle mani di questi inumani tecnocrati.
Spero che questo mio articolo possa aver portato a riflettere, convincendo magari anche un’altra sola persona che una via alternativa è possibile, anzi, più che mai necessaria.
Roberto Nardella, ARS Puglia.
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