La bubbola dello stato europeo
La bubbola dello stato europeo
di Luciano Del Vecchio
Oggi l’Unione europea è un corpo informe e tale rimarrà, perché per sua natura e per principi fondativi non può costituirsi stato. L’eurocrazia finanziaria, infatti, non intende per nulla trasformare l’Unione in uno stato, federale o confederale che sia, perché lo Stato è appunto ciò che i principi della dottrina economica liberista, incarnatisi nell’Unione europea, vogliono distruggere, ma non riprodurre su scala più grande. Ma, sia pure come ipotesi o come sogno, sappiamo che uno stato per nascere deve comunque darsi una politica estera e militare, altrimenti non nasce. Ogni stato nasce armato; e a volte, oltre che armato anche guerrafondaio. Qualora dovesse costituirsi stato, l’Europa non farebbe eccezione; per il momento è un paradossale monstrum perché riesce a essere guerrafondaia, presente su tre continenti, prima ancora di diventare stato. Perciò lo stato europeo non nasce, non solo perché manca di un popolo, di una lingua, di omogeneità culturale, di un comune sistema di comunicazioni, di capacità a darsi un comune fisco e bilancio, ma anche e soprattutto perché gli stati presunti confederandi non riusciranno mai a concordare ed esprimere una comune politica estera e militare.
Prendiamo in considerazione soltanto i tre paesi essenziali, “indispensabili” per far nascere l’eurostato, e cioè l’Inghilterra, la Francia e la Germania, giacché tutti gli altri non contano se non per stare sottomessi e fare da riempitivi territoriali al vagheggiato superstato. Escludiamo subito l’Inghilterra, che non accetterà mai di far parte di un organismo il cui baricentro di sovranità e di potere è collocato sul continente tra Parigi e Berlino. Qualunque processo politico che avanzasse troppo in questo senso porterebbe il Regno Unito fuori dall’Unione Europea. La non adesione all’euro lo ha dimostrato a sufficienza. L’Inghilterra continuerà a far parte dell’Europa solo culturalmente, come lo è stata per secoli, ma mai politicamente, se non per scompigliare carte e sparigliare giochi al minimo sentore di aggregazioni politiche troppo grosse. Perciò, al costituirsi di uno stato continentale, l’Inghilterra per tradizione e storia tramerà per farne sorgere un altro che frantumi il primo. Escluso dunque che l’Inghilterra possa farsi paese fondatore di una fantasticata Europa unita, essa comunque ci sta dentro a metà e con un piede solo: una condizione che, tutto sommato, fa molto comodo, consentendole di controllare dall’interno le scelte che maturano, anche se mal cela la sorda diffidenza e il giusto sospetto alla pretesa delle “direttive” europee di sovraordinarsi alle leggi nazionali.
Potenza mondiale sul piano militare, commerciale e finanziario fino a un circa un secolo fa, oggi Londra è un’appendice degli interessi finanziari della City e delle lobby americane, per cui porrà sempre condizioni sui tavoli europei, o per suo esclusivo interesse e/o per predilezione atlantica. Valga, a questo proposito, quanto ebbe a urlare Churchill in faccia a un De Gaulle che, il 4 giugno 1944 ad Algeri, gli rimproverava di ubbidire a Roosevelt invece di imporre una volontà europea: “De Gaulle, prendete atto che quando avrò da scegliere tra voi e Roosevelt, sempre sceglierò Roosevelt"! Quando avremo da scegliere fra i francesi e gli americani, preferiremo sempre gli americani! Quando dovremo scegliere fra il Continente e l’Atlantico, sceglieremo sempre l’alto mare!”». (http://informare.over-blog.it/article-il-d-day-la-vera-storia-della-liberazione-dell-europa-123872105.html). L’amore inglese, non tanto per uno splendido isolamento, ma per un rapporto speciale ed esclusivo con gli USA, ispirerà sempre la sua politica europea. Decisamente l’Inghilterra non è Stato disposto a entrare nel superstato, anche per un motivo analogo a quello che – vedremo – dissuaderà la Francia a farne parte: il possesso di un arsenale nucleare.
La scontata presa di distanza dell’Inghilterra costringe a limitare l’ipotesi di costituzione di uno stato europeo al solo asse franco-tedesco: l’asse che metterà sotto giogo e forca caudina tutti gli altri stati e popoli del continente, conditio sine qua non il fabuloso stato non nasce. In tal senso e visione, più che di un’Europa del nord contrapposta a una del sud su economia e finanza, sembra più credibile il formarsi di un’Europa orientale a influenza tedesca e una occidentale a influenza francese. In questa concordata divisione l’unica e storica anomalia resta il nostro Paese, difficile da collocare su l’uno o l’altro versante. Un vero grattacapo per l’asse carolingio – e anche per l’Inghilterra -, che diverrebbe problema inquietante, qualora l’Italia osasse concepire e attuare una sua politica estera centrata sul Mediterraneo e sui Balcani. La riscoperta da parte dell’Italia di questo ruolo naturale dettato dalla sua posizione geografica andrebbe a scombinare tutte le ripartizioni d’influenza politica concepite oltralpe e oltre atlantico sui punti cardinali.
Comunque, a parte la fastidiosa singolarità italiana, da neutralizzare da parte dell’Asse e dell’Isola ogni volta che le circostanze lo consentono, cioè sempre, a ostacolare la formazione del superstato è la divergenza se non l’inconciliabilità delle politiche estere di Francia e Germania, che diventa vistosa nei momenti cruciali di decisioni politiche e militari. Fin dal 1945 la Francia lotta per riaffermare un suo ruolo sullo scenario mondiale, che già nel 1956 la pose a capo dell’intervento franco-anglo-israeliano sul canale di Suez contro l’Egitto. Negli ultimi anni insegue questa funzione con particolare attivismo, intervenendo su tutti i fronti, sempre più di frequente delegata dagli USA: capeggia le potenze occidentali nell’intervento in Libia, assume la linea più dura nei negoziati con Siria e Iran e inoltre, in tempi recenti, riscopre un ruolo interventista e neocolonialista nell’Africa francofona, (Mali e Repubblica Centrafricana), a cui sembrava avesse rinunciato dopo l’indipendenza dell’Algeria (1962.)
Più che a interventi in campo aperto, dove ama rendersi protagonista la Francia, e dove scioccamente si espone l’Italia, Berlino limita il suo contributo al supporto logistico e medico, in operazioni aeree e navali a basso rischio o nel ruolo di osservatore che non preveda l'uso della forza; fornisce solo truppe di terra in “missioni di pace”. La Germania rifiuta l’intervento militare diretto in Irak (2003) in Libia (2011) in Mali (2013), in Siria, e nega anche il semplice supporto logistico nel Mediterraneo orientale. La sua posizione defilata è forse suggerita dal timore di suscitare reazioni internazionali a un suo eccessivo protagonismo politico-militare, lo stesso che, caduto il Muro, la spinse a espandersi e rafforzarsi economicamente piuttosto che politicamente. Ma, nelle situazioni di massima crisi internazionale, resta in Europa il paese chiave dove, a dispetto dell’ultima disfatta bellica, cova sempre l’esigenza strategica di uno spazio vitale a est, non più ovviamente come territorio da conquistare, ma come spazio su cui gestire accordi economici e commerciali con la Russia. Realizzare per intero questo progetto è una scelta preclusa alla Germania attualmente o almeno fin quando la presenza della NATO, schierata in funzione anti-russa, la terrà ancorata alla politica USA. Che l’Unione europea rimanga com’è senza evolversi a stato è un obiettivo accettabile per gli eurocrati ultraliberisti; andare oltre comporta il rischio di dilatare il ruolo politico della Germania, stato egemone, che la avvicinerebbe inevitabilmente alla Russia.
In definitiva, Francia e Germania, voci grosse sul continente e fioche altrove, sono condannate da storia e geografia a esprimere politiche estere divergenti, che uniformano e conformano a una unica soltanto quando a dettarla sono gli USA, come del resto si comporta l’Italia (Ucraina docet); il che equivale all’inesistenza di una politica estera europea e dunque all’infondatezza, all’irrealtà, all’illusione di uno stato “europeo”, sia pur soltanto centro-continentale. Soltanto la propaganda dello schieramento politico che, per abitudine e pigrizia mentale, ci ostiniamo a chiamare “sinistra”, racconta il mito di un’Europa autonoma dagli USA, o addirittura antiamericana. È una frottola che fa parte dello stesso repertorio propagandistico che alimenta e diffonde anche il sogno ingannevole di un’Europa sovranazionale, cioè di un’Unione capace di mediare tra i diversi interessi degli stati membri, predestinata a evolversi verso scelte fondamentali dettate da criteri di un’astratta e fatale razionalità europeista. Il sogno ci allontana da una brutale realtà.
L’Unione europea si regge su trattati intergovernativi, cioè sul dominio del Consiglio europeo, all’interno del quale decide il direttorio franco-tedesco, debole con i forti (USA) e forte con i deboli (PIGS), incerto e informale, che si palesa vero sovrano soprattutto nelle crisi, (come quella del 2008). Nelle contingenze d’eccezione le fasulle istituzioni comunitarie arretrano mute davanti ai due governi nazionali più forti, che riemergono sempre come attori principali della politica per difendere gli interessi finanziari delle loro oligarchie, non certo quelli dei popoli. La sinistra finanziaria urla molto contro il finto pericolo di un presunto nazionalismo dei piccoli stati, ma ignora o finge di ignorare quello vero e corposo che si annida nel Consiglio europeo. È essenziale in politica sapere chi ha diritto di comandare chi. “dice Vaciago in un'intervista […] su "Il Messaggero" "Forse non è chiaro che le sovranità nazionali sono state seppellite da tempo". Il fatto è che, come tutte le altre iperconvinzioni cialtroniche ripetute come mantra su tutti i giornaloni, questa affermazione è una falsità che dissimula una triste verità. La falsità sta nel fatto che paesi omologhi all'Italia, – come dovrebbero considerarsi, non a caso, Francia e Germania, ovvero come UK, (sia pure, in altre condizioni istituzionali-internazionali= non adesione a UEM)-, quella stessa sovranità non l'hanno seppellita affatto. E non hanno alcuna intenzione di farlo.” (http://orizzonte48.blogspot.it/2014/08/riformeriforme-e-poi-riforme-il-vuoto.html). Dunque uno stato europeo (isola britannica esclusa) si può costituire solo sul presupposto che le due nazioni più forti ne dettino, – già accade – la direzione di marcia, lungo la quale l’asse vince sempre e tutti gli altri perdono. L’egemonia carolingia su tutti gli altri stati e popoli è il soldo, la mercede, il compenso dell’ingaggio politico-militare che i “contractors” francese e tedesco hanno sottoscritto con l’americano. Con una nota non piccola: uno dei due contraenti, al pari dell’Inghilterra, dispone di un arsenale nucleare.
Già 60 anni fa Francia e Inghilterra, alleate, non erano d’accordo su come condurre la guerra, ancor meno concorderebbero oggi sulla politica militare. Nel ’64 lo statista De Gaulle decise l'uscita della Francia dal comando militare NATO per poter perseguire il proprio programma di difesa nucleare. Sarkozy l'ha fatta rientrare nei ranghi e ora la Francia, non più gollista, fa parte della NATO e quindi è sotto il controllo militare americano. La sua forza nucleare, piccola a confronto di quella USA, è tuttavia consistente e unica sul continente, sufficiente a impedire la formazione di un esercito unico europeo con armi comuni, nucleare compreso. In queste condizioni un improbabile stato europeo potrebbe disporre al massimo di un esercito con compiti di guerra intestina contro popoli e gruppi umani riottosi alle politiche sociali; o di polizia internazionale da inviare a presidio stabile in altri stati extraeuropei. Ma è ingenuo voler credere che la Francia accetti di far gestire i suoi ordigni nucleari a uno stato europeo, federale, popolare, democratico, “pacifista”, a guida alterna per semestri o quinquenni, da esponenti politici e ufficiali militari “stranieri”. L’arsenale nucleare francese è motivo sufficiente per disfare un neonato e gracile stato europeo un minuto dopo la sua fondazione. La politica estera e quella militare pongono ostacoli insormontabili, forse maggiori di quelli sorti dall’incapacità di unificare fisco e bilancio; da soli bastano a farci tranquillamente prevedere che la nascita dello stato europeo, federale o confederale o in qualunque forma lo si voglia costruire in aria, è collocabile in un’epoca imprecisata di un futuro remotissimo dalla durata delle nostre umane esistenze e di quelle dei nostri pronipoti.
Per l’Europa dei prossimi decenni rimane dunque l’ipotesi dello stato minimo, o più precisamente, del “niente stato tutto mercato”: la giostra libera della moneta unica a cambio fisso, della banca centrale indipendente, del capitale liberamente circolante, del flusso ininterrotto di merci servizi e carne umana, della maniacale lotta all’inflazione, della cancellazione dei diritti sociali, della riduzione del lavoro a merce, della decomposizione del popolo e della democrazia, dell’irrilevanza del territorio e dei confini: tutti obiettivi della dottrina economica liberista sanciti nei trattati, realizzabili e realizzati sotto i nostri occhi. Gli eurocrati non progettano nessuno stato; non c’è nessuna unificazione politica nella loro agenda; sanno di averla assunta a pura finzione da propagandare e lasciarla credere a milioni di cittadini. Il vero obiettivo mira a espropriare e dissipare sistematicamente la sovranità degli stati storici esistenti, democratico-costituzionali, senza condensarla e innestarla in un nuovo e più esteso organismo politico, ma semplicemente svuotarla diluendola in una pletora di comitati, commissioni, “governanze” ed enti vari transregionali. Non hanno bisogno di uno Stato, ma di un continentale caravanserraglio aperto al Mercato, un unico indistinto spazio stallatico, produttivo, consumatore e finanziario, dove impera la competizione violenta di tutti contro tutti, di cittadini contro cittadini, di autoctoni contro stranieri, di gruppi contro gruppi, di istituzioni contro istituzioni, terra di tutti e di nessuno, campo fertile su cui far attecchire il Trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti (TTIP), studiato apposta per territori de-istituzionalizzati, sviluppo logico e sbocco giuridico naturale del trattato di Lisbona.
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