La potenza del nemico
Continuo le riflessioni sul “perché la gente non si ribella”. Tempo fa leggevo, dal sito del “Corriere”, un articolo sull’Università, il cui contenuto non ricordo e adesso non è importante. Mi colpì un commento. Si trattava di un precario universitario che lamentava, del tutto giustamente, la propria condizione. Ciò che era interessante era la sua proposta per risolvere i problemi dell’Università e, se non ho capito male, anche quelli dei precari come lui: ovvero, rendere precari una metà degli attuali docenti e ricercatori non precari. Non è importante adesso recuperare quel commento e discutere su cosa intendesse veramente l’autore. La cosa davvero interessante è che esso è un piccolo segnale che permette di capire qualcosa sullo “spirito del tempo”. È chiaro infatti che nessuno, se subisce un’ingiustizia, chiederebbe che essa fosse subita anche da altri. Chi viene derubato in autobus se la prende con la sorte, con la mancanza di sicurezza, magari con gli immigrati, ma difficilmente dichiara che anche gli altri dovrebbero venire derubati. Una donna che subisce violenza chiede che il responsabile sia punito e che le altre donne siano più protette, non che subiscano la stessa violenza. Ma lo stesso vale per chi subisce non una ingiustizia (cioè un danno ingiusto derivante da un’azione altrui) ma una disgrazia non legata a volontà altrui: se qualcuno cade per le scale se la prende con la sfortuna o con la propria disattenzione, magari con il cattivo funzionamento della sanità se viene curato male, ma di certo non chiede che anche gli altri debbano cadere per le scale. In base a queste semplici considerazioni, uno si aspetterebbe che la richiesta di un precario sia quella di non essere più precario, cioè di essere assunto con un contratto a tempo indeterminato. Magari, addirittura, uno si aspetta che un precario manifesti solidarietà agli altri precari, e chieda quindi che non ci siano più precari, cioè che anche gli altri precari siano assunti. Invece, sorprendentemente, abbiamo un precario che chiede di precarizzare anche chi precario non è. Cosa significa questo? Dalle osservazioni appena fatte, sembrerebbe di capire che la condizione di precarietà non è percepita come una ingiustizia e nemmeno come una disgrazia. Ma allora come viene percepita, da chi fa una proposta come quella citata? Evidentemente, viene percepita come uno stato normale, giusto e benefico per la società (perché rende più efficienti e produttivi, immagino), che purtroppo, per la solita arretratezza del nostro paese, non è distribuito secondo giustizia. Si tratta allora non di combattere la precarietà ma di rendere precario chi se lo merita, chi non è abbastanza produttivo, efficiente e così via. Si potrebbe sollevare qualche serio dubbio sul fatto che chi non è abbastanza produttivo (qualsiasi cosa significhi “essere produttivo”) lo diventi una volta reso precario, ma non è questo il punto. Il punto è, naturalmente, che chi ragiona in questo modo ha perfettamente assorbito l’ideologia dominante. E non vale, temo, rispondere che si tratta solo di un commento ad un articolo, perché penso si tratti invece della manifestazione particolarmente chiara di un problema di fondo, del fatto cioè che le vittime condividono i principi su cui si basa il sistema di potere di cui sono vittime. È questa la base vera della potenza del nemico. Ma se questa è la situazione, è evidente che un peggioramento delle condizioni materiali di vita di per sé non porta alla ribellione, perché verrà vissuto o come una disgrazia di fronte alla quale arrangiarsi, o come l’esca per una guerra fra poveri. Solo strappando i ceti subalterni dalla loro adesione al pensiero dominante, si può sperare di trasformare il disagio in rivolta. Ma come farlo, non lo sappiamo.
Questa articolo è pubblicato anche sul blog “mainstream”:
http://il-main-stream.blogspot.it/2014/10/la-potenza-del-nemico.html
Se fossi gomblottista (e un po’ lo sono) direi che i poteri forti hanno sfruttato all’incontrario il Cd “effetto dimostrazione” di Duesenberry. La domanda di beni di consumo (e welfare?) diminuisce al diminuire della posizione sociale del ceto immediatamente superiore (meccanismo dell’invidia?).
Caro Marino, come sempre i tuoi articoli fanno riflettere in maniera non banale.
Penso che la condizione del precario non sia ben compresa neanche da chi precario lo è. Generalizzando, i precari allo stato attuale sono la generazione sotto i 40 anni, quindi l’attività lavorativa del precario medio è intorno ai 10-15 anni totali. Credo che il lavoratore precario stia ancora pensando di vivere un periodo di “gavetta” solamente più lungo di quello che hanno passato i suoi predecessori più anziani prima di accedere al posto fisso. Molti precari inconsciamente credono di arrivare al posto fisso, che però non arriverà mai. La sensazione è supportata spesso dai colleghi più esperti che ricordano al precario di turno di esserci passati anche loro e di non lamentarsi troppo. Tutto questo, soprattutto nel pubblico, scatena lotte tra poveri per accaparrare crediti agli occhi del capo, in un sistema che ha mantenuto la selezione tramite la cooptazione senza più il premio finale: il posto fisso.
Sia il precario che il collega anziano dovrebbero capire che questa nuova condizione lavorativa vista nel breve periodo non ha particolari differenze rispetto alle precedenti, mentre è nel lungo periodo che la percezione cambia totalmente: essere precario vuole dire non pensare a lungo termine, diventare incapace di progettare. Per concludere penso, forse in maniera un po’ troppo ottimistica, che quando i precari avranno contezza della loro eternità sociale, allora potranno (potremo) vedere le cose in comune che abbiamo, riconoscerci in una classe sociale e riprendere la lotta. Ora, salvo cambi di paradigma repentini, è troppo presto, e come hai giustamente detto tu, l’unica prospettiva è quella dell’ideologia dominante che ci fa sperare che tutti diventino precari prima o poi (tanto lontani non ci siamo). Mal comune mezzo gaudio.