L'art.18: la vera posta in gioco
Il 1° giugno del 1970 Mariateresa, una operaia diciassettenne di una tappezzeria veneta, fu licenziata dalla sua azienda perché assente ingiustificata; la ragazza aveva partecipato allo sciopero proclamato a livello nazionale per il rinnovo del contratto di categoria; fu quella la prima volta nella storia italiana in cui un Giudice della Repubblica applicò l’art. 18 della Legge 20/05/1970 n.300 meglio conosciuta come lo Statuto dei Lavoratori, e dispose il reintegro della ragazza nel posto di lavoro. La ragazza fu riassunta una settimana più tardi. Maria Teresa continuò tuttavia ad essere vessata all’interno della sua azienda e dopo qualche tempo si dimise.
Il 29 settembre 2014 una convulsa Direzione del PD ha dato il via libera alla definitiva abrogazione dell’art.18 dello Statuto dei Lavoratori; dopo anni e anni di dibattiti politici, manifestazioni, interi palinsesti televisivi dedicati all’argomento, due referendum falliti (quello del 2000 proposto dal Partito Radicale che voleva eliminarlo, e quello del 2003 proposto da Democrazia Proletaria che voleva estendere le tutele dell’art. 18 anche ai lavoratori di aziende con meno di quindici dipendenti) alla fine cala definitivamente il sipario su uno dei simboli più importanti di quelle conquiste sindacali che derivano dalle lotte nelle fabbriche iniziate nel 1967 e proseguite nei moti del ‘68.
L’impresa che nessun Governo di centro o di destra e nemmeno alcun governo tecnico era mai riuscito ad ultimare viene paradossalmente portata a termine da un Governo che ama definirsi “di sinistra” ma che della Sinistra non conosce la storia, il linguaggio, i simboli.
Ma che cos’è esattamente l’art.18 e perché esso ha scatenato questa lunga guerra tra opposte fazioni? Ha ancora senso battersi oggi per mantenere in vita questo simbolo di un’epoca che forse non c’è più?
L’art.18 delle Legge 300/70 nella sua originaria formulazione prevedeva l’obbligo per l’azienda con più di quindici dipendenti di reintegrare il lavoratore vittima di un licenziamento privo di giusta causa o di giustificato motivo; in altri termini lo Statuto dei Lavoratori consentiva il licenziamento soltanto per giusta causa o giustificato motivo ovvero per gravi ragioni legate o al suo comportamento (licenziamenti disciplinari) oppure al funzionamento dell’azienda (licenziamenti economici). Se il giudice però stabiliva che il licenziamento era illegittimo, un lavoratore -qualsiasi lavoratore- aveva diritto a un indennizzo. Ma per i lavoratori di aziende con più di quindici dipendenti oltre all’indennizzo il Giudice stabiliva, ex art.18, l’obbligo di reintegro del lavoratore nel proprio posto di lavoro con effetti “ex tunc” cioè che retroagivano alla data del licenziamento ritenuto illegittimo.
Nel corso degli ultimi dieci anni il mercato del lavoro in Italia è stato oggetto di una serie di “riforme” e tutte quante fondate sul mantra della “flessibilità” del mercato del lavoro considerata la chiave per la crescita e l’occupazione, ma tutte queste “riforme”, pur demolendo pian piano le tutele e le guarentigie dello Statuto dei Lavoratori, non erano riuscite ad intaccare l’ultimo baluardo eretto a tutela della dignità del lavoro: il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro. Berlusconi ci aveva anche provato a modificarlo ma la reazione violenta ed organizzata dei sindacati, che portarono in piazza tre milioni di lavoratori, l’aveva costretto a fare marcia indietro.
Ma alla fine del 2011 arrivò il Governo tecnico Monti e il ministro Fornero, tra le lacrime, fece approvare una legge che oltre a colpire pensioni e pensionati, inferse un colpo mortale anche all’art. 18, svuotandolo di fatto di gran parte del suo significato. La “riforma” Fornero di fatto liberalizzava il licenziamento individuale senza obbligo di reintegro. Bastava infatti la giustificazione economica (che diventa “giusta causa”, o meglio “giustificato motivo oggettivo”) per far partire le lettere di licenziamento compensate da un minimo di preavviso e da un indennizzo da 12 a 24 mensilità, a seconda dell’anzianità. Questo percorso era prima consentito unicamente per i licenziamenti collettivi e doveva essere confermato dalla dichiarazione di uno “stato di crisi” dell’azienda. La legge Fornero non solo lo ha esteso ai licenziamenti individuali ma, cosa ancora più grave, ha invertito l’onere della prova per cui ora è il lavoratore a dover dare la prova, spesso impossibile, della eventuale illegittimità del licenziamento, anche nel caso di licenziamento discriminatorio. Ove mai venga raggiunta tale prova il Giudice, e non più il lavoratore, sceglie se disporre il reintegro o il pagamento dell’indennità. L’art.18 per effetto di questa “riforma” era già in stato comatoso.
Ma siccome ogni nuovo Governo ha la necessità di mettere la sua bandierina sul mercato del lavoro ecco che il Governo Renzi si appresta a “riformare” nuovamente il diritto del lavoro e a cancellare definitivamente quel che resta dell’art. 18.
Sarebbe sin troppo facile dimostrare che sia la legge 16 maggio 2014 n. 78 (meglio nota come Legge Poletti o Jobs act atto primo), che la nuova “riforma” in via di approvazione (Jobs act atto secondo) altro non sono che un ulteriore passo avanti verso una maggiore flessibilità, liberalizzazione e, conseguentemente, verso una “precarizzazione” del lavoro.
L’idea di fondo, diretta emanazione dei Trattati Europei, è che più si aumenta la flessibilità del lavoro, più lo si liberalizza, più le imprese saranno invogliate ad assumere lavoratori, sia pure precari, e questo determinerebbe crescita e maggiore occupazione. Esistono evidenze scientifiche, studi, esempi concreti che questa idea di fondo sia giusta? Assolutamente no, anzi esistono evidenze contrarie e studi che dimostrano che ad ogni aumento della flessibilità del mercato del lavoro non corrisponde affatto un aumento dei livelli occupazionali. Ma senza ricorrere agli studi scientifici basterebbe guardare alla nostra storia recente.
Nessuno può dubitare che l’Italia, al pari degli altri Paesi europei, abbia introdotto nel corso degli ultimi dieci anni elevati livelli di flessibilizzazione e liberalizzazione del mercato del lavoro; quanti nuovi posti di lavoro hanno creato? Nessuno, anzi il CNEL ci dice che dal 2008 ad oggi si sono persi in Italia un milione e centomila posti di lavoro e nell’UE circa cinque milioni di posti di lavoro. Un “successo” enorme che però non ha minimamente intaccato la fideistica adesione alle mortifere politiche imposte da Bruxelles.
Ma la cosa più grave, e quella sulla quale vorrei che tutti quanti riflettessimo in maniera più adeguata, è il mutamento di prospettiva, di visione, di valori e di ideali che stiamo gradualmente subendo da anni e che, a mio avviso, costituisce l’aspetto più oscuro e al tempo stesso più triste di questo “new deal europeo”.
Lo Statuto dei lavoratori porta come sottotitolo “norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori”; esso era destinato, dunque, a tutelare i diritti delle persone, uomini e donne, in carne e ossa, cittadini lavoratori. Oltre che ad anni di lotte e di conquiste sindacali, lo Statuto dei Lavoratori traeva la sua forza e il suo afflato da una Carta Costituzionale avanzata e moderna che indicava precisi valori e principi fondanti: “l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro…” (art.1); “ il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro ed in ogni caso sufficiente ad assicurare a se e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa” (art.36); “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica economica e sociale del Paese” (art.3)
La Costituzione repubblicana considera quindi il lavoro come un diritto e la piena occupazione come un obiettivo da conseguire, concreto e attuale. Con i trattati europei, al contrario, siamo passati dalla tutela del diritto al lavoro, inteso quale strumento di libertà e di dignità, alla raccomandazione di adoperarsi “per sviluppare una strategia coordinata a favore dell’occupazione”; dalla tutela del cittadino lavoratore siamo passati alla “promozione di una forza lavoro competente, qualificata, adattabile ai mercati del lavoro…” (Art:145 TFUE); dall’obiettivo di conseguire la piena occupazione alla raccomandazione “di contribuire ad un elevato livello di occupazione, promuovendo la cooperazione tra gli Stati membri sostenendone e, se necessario, integrandone l’azione” (Art.147 TFUE). E’ una rivoluzione copernicana silenziosa e progressiva ma non per questo meno devastante.
Il modello di capitalismo neo-liberista di Maastricht e dell’Unione monetaria, considera la piena occupazione una conseguenza (peraltro del tutto eventuale) di un mercato totalmente libero e concorrenziale che tenda ad un equilibrio naturale per effetto della legge di domanda e offerta. Conseguentemente non è più lo Stato a garantire il diritto, come nella visione classica di stampo ottocentesco, ma il mercato e, all’interno di questo, i soggetti in esso dotati del più ampio potere e ricatto contrattuale, le imprese. E’ un processo continuo ed inarrestabile verso la “mercificazione del diritto al lavoro” al pari della “mercificazione” di molti altri diritti fondamentali: salute, istruzione, pensione. Per cui oggi non ci si chiede più se un diritto spetta o meno al cittadino ma ci si chiede “se ce lo potremo permettere”, se è compatibile con le condizioni “di mercato”. Ed è il motivo per il quale oggi è mutato anche il lessico: oggi esiste la “forza lavoro”, il “capitale umano”, il “mercato del lavoro” e non più il diritto del cittadino-lavoratore. La civiltà del lavoro è all’origine del modello sociale europeo. Oggi è in atto un tentativo di riscrivere la storia, per mettere in discussione le fondamenta della convivenza civile, in Italia e in Europa. Il buon Gino Giugni, uno dei padri fondatori dello Statuto dei Lavoratori sarebbe inorridito difronte al “decreto Poletti”.
Per questo motivo la frase più grave, triste e pericolosa pronunciata dal “parolaio di Firenze” a sostegno dell’abolizione dell’art. 18 è che “il lavoro non è un diritto ma un dovere”! Mi auguro solo che nell’ansia affabulatoria che lo contraddistingue gli sia “scappata” senza nemmeno che si sia reso conto della portata di quell’affermazione.
Al contrario l’art. 18 non andava assolutamente abolito. E non per ragioni economiche. La sua abolizione non determinerà un solo posto di lavoro in più, alcun beneficio concreto per le imprese, alcun euro risparmiato a carico delle casse statali; ma anche mantenerlo in vita avrebbe avuto effetti economici assolutamente trascurabili. Eppure non vi è alcun dubbio che esso rappresenti storicamente l’avamposto più avanzato di una concezione che pensa al lavoro non come a una merce ma come un diritto; che esso rappresenti e non soltanto simbolicamente il risultato di decenni di battaglie, di conquiste, di tutele che hanno caratterizzato la storia sindacale e politica del nostro Paese; esso rappresenta l’emblema di una concezione del diritto del lavoro che mette al centro le persone e non il mercato. Perdere definitivamente l’articolo 18 ci renderà tutti un po’ più poveri.
Solo su una cosa non concordo, dove scrivi che la frase ““il lavoro non è un diritto ma un dovere” pronunciata da Renzi ti auguri gli sia scappata.
Perhé dovrebbe essergli “scappata”? Forse ancora dubiti che non sia che l’esatta verità?
Succede spesso che di fronte ad affermazioni pubbliche del politico di turno la nostra incredulità respinga la verità di quelle affermazioni quasi a volersi proteggere.
Eppure, non gli “scappa” niente, dicono esattamente ciò che fanno e ciò che hanno intenzione di fare.
Scambiare la pochezza di chi pronuncia tali frasi per frasi dal sen fuggite, è pericoloso, per noi.
Tanto prima riusciremo a comprendere che quelle frasi “scappate” indicano un punto di programma preciso, tanto meglio vedremo il quadro che si andrà sviluppando.
Non sono che esecutori (Monti, Letta, Renzi, etc), ma sono appunto esecutori decisi a esserlo fino in fondo.
Il “lavoro come dovere”, implica l’idea sottostante di una massa di schiavi privilegiati (lavori, mangi) contro una massa di esclusi finanche dall’accesso a una scodella di minestra se non si piegano al “dovere” del lavoro schiavo.
L’incredulità di D’Andrea è ironica, almeno presumo. La frase in esame è solo un altra versione della famigerata frase della Fornero: “il lavoro non è un diritto va guadagnato”. Sono coerenti loro.
Concordo sulla coerenza “loro”. Proprio per questa vivida coerenza, forse sarebbe il caso di prenderli molto sul serio…
Farci dell’ironia è pur sempre un modo di disconoscere la realtà, la fondatezza, di un’affermazione.
Ed è questo non riconoscerla per la reale minaccia che è, a farci ancora lavorare (e pensare), per ipotesi, quando tutto il panorama davanti ai nostri occhi ormai è chiarissimo.
E’ perfino troppo tardi per darsi un’idea di come contrastarla, questa realtà, abbiamo passato più tempo a discuterne filosofeggiando che a costruire intorno a noi una efficace barriera di difesa.
Intanto, la barriera l’hanno eretta loro, e per come la vedo io, siamo ostaggi ancora (per la maggior parte)inconsapevoli di esserlo.
Certamente la frase era sarcastica. Questi personaggi, purtroppo, tocca prenderli molto sul serio e noi dell’ARS lo facciamo, tanto da aver compreso che con questa classe dirigente finiremo molto male e da impegnarci per crearne una nuova, che possa un giorno sostituirla e promuovere controriforme in linea con la Costituzione, come questa:
http://www.riconquistarelasovranita.it/teoria/documento-su-lavoro-e-previdenza-sociale-approvato-dallassemblea-nazionale-dellars-16-giugno-2013
Chiedo scusa a tutti. L’articolo l’ho inserito io ma è di Antonio Stragapede dell’ARS di Bari. Per errore l’ho inserito come se ne fossi io l’autore. Ora ho corretto.Ovviamente mi scuso soprattutto con Antonio.
La costituzione è chiara: il lavoro è un diritto (sociale) che obbliga lo stato a creare le condizioni per la piena occupazione (art. 4, 1° co.) ma è anche un dovere (Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività p una funzione che concorra al progresso materiale e spirituale della società (art. 4, 2° co.). Salvo un simpatico socialista ottantenne (Lombardi) che proponeva di internare gli oziosi (fu incaricato anche di scrivere una relazione), ossia, socialisticamente voleva fare del dovere di lavorare un dovere giuridico (chi non lavora non mangerà era in epigrafe della Costituzione sovietica), gli altri concordavano che si trattasse soltanto di un dovere morale. In realtà, la concezione abbastanza diffusa nell’assemblea costituente era che se il lavoro c’è perché lo stato lo ha promosso e quindi ha adempiuto il proprio dovere di creare le condizioni della piena occupazione, chi decide di non lavorare non meriti nessun aiuto.