Gli insegnamenti che nulla hanno insegnato
Il testo del 1999 “Les enseignements de l’aventure européenne” di Tommaso Padoa Schioppa[1] costituisce, con lucida e profonda consapevolezza, un magnifico archetipo della settaria ideologia europeista. Sarà nostro compito in questo frangente metterne in luce le aporie e gli errori teorici dal punto di vista politico prima che economico.
Niente più del processo stesso di costruzione dello Stato sovranazionale europeo, infatti, testimonia meglio l’ideologia liberista che permea così profondamente le sue strutture di governo. Quanto più si procede in questa strada, tanto più si annullano i divieti alla libera circolazione dei capitali, aumentano le dismissioni e le svendite del patrimonio pubblico parallelamente all’aumento di privatizzazioni e costituzioni di oligopoli sovranazionali. Tanto i critici, quanto i sostenitori e i fautori di questo processo ne ammettono ormai la realtà e la consistenza. Ciò che merita ancora di un’attenta analisi sono gli elementi dottrinali e politici che tale progetto implica e che il testo di Padoa Schioppa ha il merito di mettere in luce.
In primis il paradosso della concorrenza fra Stati quale cardine del processo di integrazione.”I paesi costruiscono l’Europa facendosi concorrenza ugualmente”. Con inadeguata comprensione del fenomeno, si scrive che il processo di unificazione è lungi dall’essere compiuto perché manca un’omogeneità dei paesi nelle politiche fiscali e giuslavoristiche, e non si capisce che proprio in virtù di questo punto, il capitale ha compiuto il suo più grande capolavoro. Mantenendo le divergenze tra gli Stati nazionali all’interno di una rigida cappa monetaria che non permette svalutazioni, con il sapiente uso della competizione, si sono create, e si continuano a creare, condizioni per illimitate occasioni di profitto.
In secondo luogo, tale competizione altera e distorce completamente il fine ultimo dell’Unione enunciato dallo stesso Padoa Schioppa, cioè la Pax europea. È Evidente che continueranno ad esistere Stati che contribuiranno di più al bilancio, e Stati a cui verrà chiesto di abbassare ulteriormente le tutele e le garanzie sulle normative giuslavoristiche; continueranno ad esistere Stati magnete per i capitali, e Stati a cui sarà chiesto di rinunciare ad ogni parvenza di sanità pubblica. Ma questo sarà solo il portato più evidente della traduzione dei principi del laissez faire come metodo di governo europeo. E’ possibile, e anzi fortemente realistico, che le disfatte sociali e politiche di alcuni stati di fronte ad altri, nel panorama europeo, creino l’occasione per nuove ritorsioni e revanscismi che, attraverso la mobilitazione delle masse, riportino l’identità nazionale ad imperativo politico esclusivo, esaustivo e totalizzante. Insomma l’Unione, nella realizzazione dei suoi particolari fini, sarebbe in procinto di realizzare, in suo seno, quelle esecrabili condizioni, che cerca di rifuggire. Dov’è la governance e l’unità europea in un quadro in cui i tedeschi perseguono ostinatamente con il paradigma del rigore; i francesi, con un presidente in piena cisi di consenso, che si propongono di sforare abbondantemente il limite del deficit del 3% imposto dal trattato di Maastricht, ma che non sono disposti a che anche altri lo facciano; i greci, notizia di pochi giorni, sempre più collocati ad uscire in anticipo dal programma di controllo e sorveglianza dei propri conti da parte della Troika; ed infine l’Italia, che a dispetto degli annunci del suo premier, sembra orientata a rispettare remissivamente tutte le assurde direttive europee?
In questo quadro paradossale si inscrive la concezione dello Stato nazione come realtà da superare. “Creare l’Europa unita significa liberare lo Stato nazionale dal demonio del totalitarismo, minaccia sempre latente fintantoché la sovranità è concentrata in una sola istanza. Distruggendo questa concezione esclusiva, la costruzione europea ha esaltato il ruolo benefico dello Stato nazionale, che conserva il suo valore positivo di tradizione storica e culturale”, o ancora “la frontiera fra il bene il male cessa di coincidere ipocritamente con le frontiere degli Stati per attraversare le nazioni e la coscienza individuale di ognuno. Tale è il senso più profondo della redenzione e della verità che la costruzione pacifica di una Europa unita offre alle nazioni europee”[2]. Tale apparato ideologico non si preoccupa di celare un meccanismo ricattatorio e volutamente paternalista nei confronti degli Stati nazionali e dei popoli europei. L’ispirazione della colpa è solo il dispositivo per far leva sulla costruzione della buona comunità politica, che, in tale prospettiva, non è mai quella storicamente realizzata negli stati nazionali, ma quella che dovrebbe essere negli intenti dell’uomo saggio. La virtù individuale è moralmente superiore ad un’etica condivisa di una comunità. Se la virtù è il bene supremo, non la patria in quanto tale, solo la comunità virtuosa o il miglior ordine politico può pretendere la lealtà del saggio[3]. La visione di questi uomini fanatici, dunque, contempla pienamente il tradimento della propria comunità e delle leggi costitutive del proprio Stato.
Da ciò deriva anche la ragione per cui le istituzioni europee debbano essere messe al riparo dai processi elettorali o dalle influenze politiche, il bene superiore per cui agiscono non può essere messo al servizio del popolo. Per una tale ideologia il compito della banca centrale europea, ad esempio, è quello di “convincere che la sua indipendenza e la sua azione non sono responsabili della disoccupazione in Europa”, non di lottare per abbatterla. La disoccupazione è solo un effetto collaterale necessario, del comandamento generale della stabilità dei prezzi. In tale concezione, le istituzioni non sarebbero altro che un sistema di appagamento di tendenze e di bisogni, e quindi un organismo neutro, asettico, naturale. Niente di più assurdo, ogni istituzione ha sempre un connotato sociale (e politico), funzione del gruppo che ne promuove la genesi, la diffusione e la resistenza[4]. L’indipendenza di una banca centrale, in questo senso, è il portato ideologico estremo di un gruppo di “burocrati rivoluzionari” iperliberisti.
Infine, il tema della sovranità. Con quale superficialità e astrattezza si può scrivere che essa può essere ceduta? Lo stesso art. 11 della Costituzione italiana reca nell’inciso la condizione necessaria per alcune limitazioni di sovranità, ovvero la loro l’attuazione simmetrica e con equivalente forza anche negli altri Stati, condizione che per ora manca del tutto: «l’Italia […] consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni». Occorre, per di più, notare che il verbo utilizzato è limitare non cedere. Differenza fondamentale. Uno Stato che limita i propri poteri, rinuncia ad utilizzarli, ma ne rimane il legittimo possessore. Ne deriva che i trattati europei non possono essere altro che diritto internazionale, che acquisiscono la loro forza in virtù del fatto che gli Stati rinuncino ad utilizzare alcune delle loro prerogative. Ciò invalida nettamente la proposizione secondo la quale l’Unione Europea non sarebbe altro che il primo passaggio dallo stato di natura allo stato civile nel campo dei rapporti tra Stati sovrani[5]. Il rapporto tra Stati è ancora un rapporto profondamente immerso nello stato di natura. Non c’è nessuna autorità morale che obbliga a rispettare i patti tra Stati, perché primo e incondizionato può essere solo il diritto col quale uno Stato si autodetermina. Gli Stati sovrani vivono l’uno di fronte all’altro nello stato di natura e possiedono il carattere della personalità giuridica. Ciascuno è sovrano alla pari degli altri, ciascuno possiede il medesimo diritto alla guerra. Eppure, non siamo di fronte ad una situazione priva di diritto, nella misura in cui ogni stato riconosce queste qualità distintive nell’altro da sé. Tuttavia, se il diritto internazionale si crea a partire da questo riconoscimento, esso può basarsi, come richiama Machiavelli[6], solo sulla forza specifica di ciascuno Stato rispetto ad un altro e in base a determinate condizioni estrinseche che portano a stringere patti. Proprio di entrambi i fattori è la loro occasionalità. I fattori alla base di ogni patto tra Stati sono cioè congiunturali, e nessun patto può essere eterno, nella misura in cui i fattori che lo fondano si trovano a cambiare.
Dunque, come scrive Rousseau la sovranità è indivisibile, per la stessa ragione per cui essa è inalienabile, “Poiché la volontà è generale o non lo è; essa è volontà del corpo del popolo o soltanto di una sua parte. Nel primo caso, questa volontà dichiarata è un atto della sovranità e fa legge; nel secondo, non è che una volontà particolare o un atto della magistratura, tutt’al più un decreto. Ma i nostri politici, non potendo dividere la sovranità nel suo principio, la dividono nel suo oggetto; la dividono in forza e volontà, in potenza legislativa e in forza esecutiva, in diritti di imposta, di giustizia e di guerra, in amministrazione interna e in potere di trattare con lo straniero; a volte confondono tutte queste parti e a volte le separano e fanno del sovrano un essere immaginario formato di più pezzi messi insieme, come se componessero l’uomo a partire da più corpi, uno dei quali avrebbe gli occhi, l’altro le braccia, l’altro i piedi e nient’altro[7]“. Il filosofo francese ci dice, cioè, che ogni separazione all’interno del potere sovrano è fittizia ed irreale. La stessa tripartizione dei poteri in legislativo, esecutivo e giudiziario, non annulla l’unità e la pienezza della sovranità, che risiede nel popolo e nelle sue leggi costitutive. In questo senso i poteri concessi all’Unione non sarebbero altro che una mera delega, una rinuncia temporanea. Essa, quindi, può esercitare la propria forza solo in virtù di una finzione giurisdizionale, ovvero che i legittimi popoli sovrani, attraverso le loro assemblee, abbiano rinunciato ad esercitare o delegato la propria sovranità, peraltro senza mai essersi mai veramente espressi su questo punto. Si può e si deve distinguere fra il diritto e l’esercizio del potere supremo, ma non si può non ammettere che il secondo derivi dal primo. Lo stesso Padoa Schioppa non può sorvolare sul fatto che “l’Europa si è fatta seguendo un metodo che si potrebbe definire col termine dispotismo illuminato, procedura perfettamente legittima, ma ancorata al metodo democratico solo per l’esistenza della democrazia all’interno degli Stati, non da un processo democratico europeo”[8]. Questo è di gran lunga il paradosso più rilevante cui si trova di fronte la costruzione sovranazionale europea: essa trae tutti i suoi poteri da quegli organismi che intende cancellare. Le istituzioni europee, però, spingono con insistenza le burocrazie nazionali e i partiti a compiere “il lavoro sporco”, a tagliare salari, pensioni e stato sociale, ponendo nell’immaginario sociale i poteri statuali nazionali nel negativo, mentre, con abile propaganda le istanze europee volte alla modernizzazione all’efficientamento, alla sburocratizzazione passano nel positivo. L’uomo che governa deve ordinare ad altri di punire colui che ha bisogno di costrizione, mentre lui stesso deve assegnare premi, consiglia il saggio Simonide al tiranno Gerone, oggi la tirannia europeista ha imparato in pieno la lezione.
[1] T.Padoa Schioppa, les enseignements de l’aventure européenne, in Commentaire, n.87, 1999. Pp.575-592.
[2] T.Padoa Schioppa cit., pp.582-583.
[3] L. Strauss, Sulla Tirannide, VII, p.140.
[4] C. Lévi-Strauss, “Histoire et ethnologie”, Revue de Métaphysique et de Morale, 54 (1949), pp. 363-91, ristampato in C. Lévi-Strauss, Anthropologie structurale, cit., trad. it. “Storia ed etnologia”, in Antropologia strutturale, cit., pp. 13-41.
[5] T.Padoa Schioppa cit., p.575.
[6] N.Machiavelli, Discorsi sulla prima deca di Tito Livio, l.3, XLII.
[7] J.J. Rousseau, Il contratto sociale, L. II, cap. 2.
[8] T.Padoa Schioppa cit., p.577.
Scusate, io ho letto il libro di pino aprile ( terroni ). Nel libro parla di 3 fazioni : i garibaldini; la chiesa; i briganti. Si narra che i garibaldini vennero al sud si impadronirono delle nostre ricchezze violentarono le nostre donne impiccarono i briganti, e successivamente con la cancellazione del Regno delle Due Sicilie unirono tutti i popoli d’Italia sia politicamente che economicamente con la lira e i piemontesi che avevamo un enorme debito lo elusero con la lira facendolo diventare di tutti (su tutti il debito non seìmbrava enorme ).
Furono chiuse tutte le fabbriche al sud e portate al nord.
Sul vostro sito che apprezzo molto trovo una versione miope della storia, fate passare i garibaldini come eroi.
Walter,
il libro di Pino Aprile non dice proprio ciò che dici tu, per fortuna (di Pino Aprile). E comunque è un libro che dice molte ovvietà note (prova a leggere il terzo volume del manuale di storia per le scuole superiori del De Rosa, che io studiavo nel1988) facendole passare per teorie rivoluzionarie. Per altro verso contiene un mucchio di valutazioni immorali e insensate.
L’esercito meridionale di Garibaldi alla fine, al momento della battaglia sul Volturno, era composto da circa 50.000 uomini, metà dei quali erano del sud. Quindi sicuramente non era un esercito del nord. Discorso diverso merita la scelta dei Savoia di scogliere l’esercito meridionale e di far reprimere il bragantaggio dall’esercito (per lo piu’) piemontese.
Quando vuoi ne parliamo con calma. Ma una cosa è certa: il Risorgimento fu la rivoluzione borghese in Italia e infatti TUTTI i borghesi del sud (notai, farmacisti, avvocati, amministratori, imprenditori) stavano con i “rivoluzionari” (come li chiamavano i borboni). Siccome il popolo allora ancora non entrava nella storia (nel 1848 era entrato nella storia della francia ma noi eravamo indietro: il partito socialista italiano verrà fondato nel 1892), il consenso per l’Unità coinvolgeva dunque TUTTI COLORO CHE ERANO PARTE DELLA STORIA. L’accusa al risorgimento di non essere stato popolare (e in piccola parte in realtà pure lo fu) è dunque assurda: come accusare Annibale di non aver usato i carri armati.
I garibaldini erano per almeno un terzo borghesi senza alcun problema economico (ripeto: per metà erano del sud), che da anni e talvolta da generazioni combattevano per il loro ideale. Se noi nani e minuscoli moderni non riusciamo oggi ad avere stima per quegli uomini idealisti e coraggiosi, forse meritiamo la schiavitù verso la quale stiamo scivolando.
Ora e’ di moda parlare male del Risorgimento. Naturalmente anche in quei fatti storici ci sara’ stato qualche difetto o errore, ma il fatto che sia cosi’ di moda denigrarlo fa sorgere il dubbio che cio’ rientri in una campagna anti-Stati nazionali favorita dalla UE. In particolare, mi piacerebbe che qualcuno gentilmente mi spiegasse come e perché il Sud Italia sotto i Borboni fosse cosi’ prospero, possibilmente fornendomi anche dati sullo stato del popolo comune e non solo della Corte di Napoli o dei baroni siciliani.
Da persona del Sud, ritengo che l’idea risorgimentalista non fosse di per sè un male come viene descritto dalla retorica preunitaria ma sia riconducibile a chi si pose alla testa di quella rivoluzione. Penso ad esempio a Carlo Pisacane (meridionale tra l’altro) che aveva capito che il risorgimento per realizzarsi a pieno doveva avvenire per via popolare, fallendo purtroppo. Ma anche Mazzini aveva idee ben chiare sul risorgimento, in quanto considerava la forma repubblicana l’unica possibile, infatti i repubblicani mazziniani durante i periodi di governo della destra storica e della sinistra storica erano annoverati tra l'”estrema sinistra”.
Quindi gli errori commessi durante il risorgimento vanno secondo me, perlopiù attribuiti alla miopia dei sabaudi che ai risorgimentali stessi, i quali avevano visioni della società radicalmente diverse.
Caro Luigi,
la tua è una impostazione seria. Io per esempio l’ho sempre pensata come te. Adesso, forse sono diventato piu’ maturo (o forse adesso sbaglio) e allora vado scoprendo che in fondo alla fine tutti si resero conto che quella dell’egemonia sabauda era l’unica strada per raggiungere l’unità (mazziniani, garibaldini, federalisti). La Repubblica di Mazzini è arrivata nel 1948, con in più una disciplina dei rapporti economici di tipo socialista.
Forse le nostre visioni idealiste non tengono conto che in Italia mancava ancora una sinistra socialista o anche soltanto il partito radicale. Solo Pisacane non fa un partito. Quindi, non poteva vincere chi non competeva, perché non c’era. E nemmeno Mazzini, che era l’ala radicale repubblicana consistente poteva vincere.
Tuttavia, talune recenti prese di posizione, semplicistiche a dir poco, mirano a condannare il risorgimento in sé considerato, quando invece il volontarismo risorgimentale, ossia la dedizione e il sacrificio per un’idea, molto spesso non motivato da ragioni economiche, dovrebbe essere sempre fonte di ispirazione e oggetto di devozione e ammirazione. Chi siamo noi, per permetterci di giudicare negativamente i martiri di un’idea? Chi siamo noi per non ammirare?