Per un altro modello di banca al servizio dell'occupazione del paese
Dal socio Alessandro Andriola dell’ARS di Milano riceviamo e volentieri pubblichiamo.
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Il documento che segue è stato scritto ormai qualche mese fa ed è al contempo un tentativo di analisi politico-economica e commento critico alla piattaforma contrattuale ed al successivo documento “tecnico” (stilato con l’ausilio di esperti), presentati dai sindacati firmatari di categoria alla controparte datoriale, l’Associazione Bancaria Italiana (ABI) in vista del rinnovo del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) settore credito, la cui scadenza sarà più che probabile oggetto di nuova proroga fino a febbraio 2015.
Inserirò qualche breve nota esplicativa per la pubblicazione su Appello al Popolo, sperando di renderlo comprensibile anche ai non addetti ai lavori.
Per un ALTRO modello di banca al servizio dell’occupazione e del Paese
Il documento “Per un nuovo modello di banca al servizio dell’occupazione e del Paese” redatto dalle sigle sindacali firmatarie si affianca alla piattaforma contrattuale presentata a marzo 2014 nel tentativo di rafforzarne i magri contenuti.
La piattaforma si era rivelata palesemente NON all’altezza della situazione, anche se alcune idee erano e rimangono condivisibili (come quelle su esternalizzazioni, consulenze, tetto agli emolumenti del top management, limitazioni alle deroghe al CCNL*), ma nell’insieme era priva del coraggio e dell’ampiezza di respiro necessari ad un passaggio storico come quello attuale.
Evidenti criticità all’interno dello stretto ambito sindacale si palesavano:
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nel limitarsi spesso a richiedere informative e il coinvolgimento in commissioni bilaterali,
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nella richiesta economica di 175 euro che (con un ROE** medio allo 0,1%) nel caso, non potrà che sostanziarsi, come lo scorso rinnovo, in una partita di giro con la quota di retribuzione differita,
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nella troppa enfasi sull’ottenimento del “Fondo per l’Occupazione” in occasione dell’ultimo rinnovo, quasi fosse una conquista. Esso non è che un fondo pagato quasi interamente (80 milioni su 87) dai lavoratori (Aree professionali, Quadri e Dirigenti) che in vece di finanziare le 30.000 NUOVE assunzioni millantate, andrà, nero su bianco, ad integrare il “Fondo esuberi” (il fondo di solidarietà di settore che permette prepensionamenti fino a 5 anni prima della quiescenza) nella gestione delle prossime tensioni occupazionali (esuberi di personale) che imbastiranno le aziende.
* Per esternalizzazioni si intendono le cessioni di rami d’azienda a società terze non incluse nel perimetro del settore credito; sono pericolose perché i lavoratori ceduti, alla scadenza del contratto in essere, acquisiscono quello in vigore nella società cessionaria (metalmeccanico, commercio, ecc …), perdendo le caratteristiche migliorative del contratto del credito. Le banche in pratica si disfano di personale che rischia di essere dopo pochi anni licenziato dalle società acquirenti (spesso partecipate dalle banche stesse). Vanno pertanto contrastate con decisione.
Le consulenze esterne sono ormai una piaga. Le banche invece di assumere si avvalgono di società esterne di consulenza (spesso i manager della banca hanno lavorato precedentemente in queste società) anche per le lavorazioni di routine pagando fior di quattrini. Vanno contenute all’indispensabile.
Gli emolumenti del Top Management hanno raggiunto cifre stratosferiche, è assolutamente condivisibile la richiesta in piattaforma di adottare la proporzione massima di 1 a 20 rispetto al salario medio della categoria.
Le deroghe peggiorative al CCNL sono la normalità negli altri settori grazie a sciagurati accordi tra Confindustria e Sindacati, ciò non deve accadere anche nel settore del credito.
** ROE: Return On Equity, Risultato netto/Capitale proprio, è un indice di redditività: esprime la redditività complessiva dei mezzi propri, vale a dire quanti euro di utile netto l’impresa ha saputo realizzare per 100 euro di capitale di rischio.
Era inoltre trapelata da un documento “riservato”, poi ufficialmente reso noto, l’intenzione di ABI di portare una serie di attacchi:
– ai Consorzi (società di servizi che raggruppano ormai tutte le attività di “back office”), in quanto considerati come insieme di attività cedibili a terzi o, restando all’interno dell’area contrattuale, passibili di un contratto di serie B e
– alle RETI (che svolgono le attività core di servizio alla clientela, consulenza e vendita dei prodotti finanziari), per le quali vuole ulteriore flessibilità, collegare quote crescenti di salario alle vendite, e addirittura implementare l’utilizzo di rapporti di lavoro autonomo.
ABI in questo modo attua un serio tentativo di instaurare un nuovo MODELLO DI BANCA: la vera questione che la piattaforma non aveva affrontato rimandandola al documento tecnico oggetto della presente disamina, che non è mai stato discusso con i lavoratori (!).
Purtroppo ciò che chiaramente già emergeva dalla piattaforma è la volontà da parte sindacale di NON voler elaborare una visione diversa, realmente alternativa e, diciamolo, scomodamente contrapposta. Essa preferisce abbracciare quella imperniata sui nuovi ricavi, perniciosamente mercatista, partecipando attivamente, seppur in funzione lenitiva, al dispiego dei dolorosi processi riguardanti la riduzione di salario reale, di previsioni normative, di occupazione, sollecitando nel contempo posti di potere e prestigio per sé all’interno delle Governance delle banche, argomento che ABI si è già detta disponibile a discutere.
Il fatto di voler accedere alla stanza dei bottoni, criticabile di per sé nell’attuale architettura del settore e dei sistemi di governo, diventa GRAVISSIMO nel momento in cui si colloca all’interno di una cornice antidemocratica (senza pari nel mondo del lavoro) che solo il menefreghismo e la pigrizia mentale dei bancari hanno reso possibile.
Siamo l’UNICA CATEGORIA in cui non esistono le R.S.U., le Rappresentanze Sindacali Unitarie, cioè i rappresentanti sindacali NON VENGONO ELETTI da TUTTI i lavoratori e nella pratica molto spesso nemmeno dagli iscritti (come vorrebbero le vigenti R.S.A., Rappresentanze Sindacali Aziendali) ma cooptati.
Citando l’ABI (Audizione parlamentare del 27/11/2013 “Esame delle proposte di legge C.5 ed abb. – Disposizioni in materia di rappresentanza e rappresentatività sindacale): “i ripetuti impegni contrattuali (in tema di RSU, compreso l’ultimo contratto – 19 gennaio 2012,- art. 24, ultimo comma) restano senza attuazione per la confermata indisponibilità sindacale …” quindi non è colpa della parte datoriale: sono i sindacati stessi che difendono il proprio “potentato” da ogni possibile pericolo, paradossalmente anche da quello che potrebbe derivare da un maggior coinvolgimento dei loro rappresentati … i lavoratori.
Tornando al documento tecnico, esso dà una lettura della realtà che spesso risulta a dir poco superficiale; esso sfiora alcuni temi importanti restando però lontano dai gangli vitali della questione, non facendo altro che seguire la magra visione della piattaforma che lo ha preceduto senza che i contenuti possano dare credibilità all’auspicata rinascita del settore e men che meno del Paese. Le radici della attuale situazione sono profonde e vanno ben oltre la mera cucina sindacale. E’ tutto il contesto economico e politico che va preso in considerazione ed analizzato, come già tentato di fare nella lunga introduzione alla Piattaforma del SALLCA (Sindacato Autorganizzato delle Lavoratrici e Lavoratori del Credito e Assicurazioni, una realtà di BASE attiva nel settore), se vogliamo capire dove stiamo andando e come fare per evitarci una brutta fine.
Le questioni centrali da affrontare sono certamente complesse. Tenterò di esporle nella trattazione delle criticità che a mio avviso sono emerse dalla lettura del documento, avvalendoci di qualche autorevole parere tecnico.
Questi in particolare i temi su cui si impernia il dissenso, di cui gli ultimi due forieri di alti rischi:
1 – la proposta di allargare l’offerta di consulenza e servizi negli ambiti immobiliare, fiscale, legale e amministrativo;
2 – la proposta di costituire consorzi di back office e addirittura consorzi di banche;
3 – il sostegno acritico alla diffusione della moneta elettronica.
Da segnalare inoltre una grande assenza: una lettura della Crisi, sforzo da ritenere ineludibile, alla cui luce individuare le conseguenti modalità di rilancio del settore e del Paese.
Cominciamo da quest’ultima, conditio sine qua non della ripresa. Sconfiggere la crisi quindi per far ripartire il Paese con un sistema bancario a cui è stato restituito il ruolo di supporto all’apparato produttivo. Affidiamoci a Robert Skidelsky (economista di fama mondiale e biografo di John Maynard Keynes) per una messa a fuoco delle problematiche:
“Keynes (1883 – 1946) inizia l’ultimo capitolo della sua Teoria Generale (1936) nel modo seguente: “i fallimenti più gravi della società economica in cui viviamo sono la sua incapacità di creare piena occupazione e la distribuzione dei redditi e della ricchezza arbitraria e iniqua” (Teoria Generale, p. 372).
Hobson (economista inglese 1858 – 1940) sostiene che a causa della distribuzione diseguale del reddito e della ricchezza le famiglie rimangono con troppo poco potere d’acquisto per acquistare i prodotti che contribuiscono a produrre. Per dirla più precisamente, il gap eccessivo tra consumo e produzione o, che è lo stesso, ‘l’eccesso di risparmio’ fa sì che si produca di più di quanto il reddito disponibile per il consumo possa acquistare a prezzi che garantiscono un profitto ai produttori. Quindi la società si ritrova periodicamente con troppo capitale, e la conseguenza è la crisi.
Questo punto di vista ha diverse affinità con la teoria della crisi del capitalismo di Karl Marx (1818 – 1883), o almeno con una delle sue teorie. Marx sostiene che poiché la classe dei lavoratori è privata di una parte della crescita della produttività, non possiede i mezzi per acquistare una quantità sempre crescente dei beni prodotti dal suo lavoro. Quindi, come nell’economia di Hobson, in quella di Marx ci sono periodiche “crisi di realizzazione”.
Un’analisi tipicamente sotto-consumista (Hobson) della Grande Depressione è stata fornita da Marriner Eccles, governatore della Federal Reserve dal 1934 al 1948:
“Un’economia di produzione di massa deve essere accompagnata dal consumo di massa. A sua volta, il consumo di massa richiede una distribuzione della ricchezza che fornisca agli uomini il potere d’acquisto. Invece di raggiungere quel tipo di distribuzione, una gigante pompa idrovora fino al 1929 ha portato in poche mani una proporzione crescente della ricchezza prodotta. Questo è servito all’accumulazione di capitale. Ma togliendo potere d’acquisto dalle mani della massa dei consumatori, i risparmiatori (nel senso di ‘produttori’ ndr) hanno negato a sé stessi il tipo di domanda effettiva per i loro prodotti che giustificherebbe il reinvestimento in nuovi impianti dei loro capitali accumulati. Di conseguenza, come nel gioco del poker, quando le chips sono concentrate sempre in meno mani, gli altri giocatori possono rimanere nel gioco solo prendendo a prestito. Quando il credito si esaurisce, il gioco si ferma.” (Eccles e Hyman, 1951, p.79 )
Ma il capitale in eccesso in una economia aperta, quale quella in cui viviamo, può sfogare nei mercati esteri. Ciò che sta facendo la Germania tramite le esportazioni e ciò a cui stanno spingendo anche il nostro Paese (la prima avvantaggiata dalla moneta unica a scapito del secondo) al prezzo della mortificazione della domanda interna, della cancellazione dei diritti basilari dei lavoratori, della deflazione salariale. Ma gli squilibri della bilancia commerciale alla lunga portano in ogni caso problemi. Dalla guerra economica a quella militare il passo è breve.
Ancora Skidelsky: “Hobson chiamava la necessità di trovare uno sfogo straniero per l’eccesso di risparmio la “radice economica dell’imperialismo” (Hobson, 1902, parte I, cap. 5). Questa idea è stata ripresa da Lenin per spiegare perché il capitalismo non era crollato con il passare del tempo.
Purtroppo, questo rimedio – che sia Hobson e Lenin chiamavano imperialismo – rimandava solo il ‘giorno del giudizio economico’. La spinta competitiva per conquistare nuovi mercati avrebbe portato a guerre tra le potenze per la “divisione e la spartizione del mondo”.
A differenza di Keynes, per il quale in assenza di stimoli esterni un’economia in recessione potrebbe trovarsi bloccata in una situazione di semi-depressione (“equilibrio di sotto-impiego”), Hobson e Marx erano teorici del ciclo economico. Le recessioni, per quanto severe, generano riprese. Nello scenario di Hobson mentre la depressione peggiora, la ‘classe dei risparmiatori’ (nel senso di ‘produttori’ ndr) vede il suo reddito ridursi, ma non fa alcun tentativo di ridurre il suo standard di vita – Hobson chiama questo comportamento “conservazione del consumo” – e questo riduce la propensione media al risparmio verso la ‘normalità’. L’economia di Marx trova la ripresa espandendo “l’esercito di riserva dei disoccupati”. Questo potrebbe ridurre ulteriormente il potere d’acquisto, ma permette alla classe dei capitalisti di ripristinare il tasso di profitto accaparrandosi sempre più “plus-valore”.
Il secondo effetto è più potente. Entrambi i rimedi sono temporanei, però, e il boom seguente immancabilmente produce la depressione seguente.
Sia Hobson che Marx hanno suggerito rimedi permanenti. Hobson voleva redistribuire la ricchezza e il reddito, al fine di ridurre la quota di risparmio sul reddito nazionale. La cura più radicale di Marx, come sappiamo, era di abolire il capitalismo”.
Secondo i dettati keynesiani, gli USA risposero alla Grande Crisi del 1929 (crisi che, secondo molti all’epoca, doveva segnare la fine del Capitalismo) col New Deal del Presidente Roosvelt e il Glass – Steagall Act del 1933 per ciò che riguarda le banche.
Ancor più profondo l’intervento dello Stato nella risposta italiana, quella risposta che continuò ad essere la caratteristica principale, nel bene e nel male, della nostra economia anche dopo il Fascismo e la guerra, trovandone sintesi democratica nel tentativo di composizione del conflitto tra Capitale e Lavoro nelle sedute dell’Assemblea Costituente e nel nobile frutto del loro lavoro: la Costituzione.
La “via” italiana pose le basi per una economia mista a metà tra la pianificazione e il libero mercato avvalendosi di un grande intervento dirigista dello Stato.
“Con la recessione economica il ritiro immediato dei depositi privati fece tremare banche importanti come la Banca Commerciale italiana, il Credito Italiano, Il Banco di Roma, l’Istituto Italiano di Credito Marittimo. Queste banche, nella loro natura di ‘banche miste’, avevano investito a lungo termine ingenti capitali nelle industrie ed ora dovevano fare i conti con giganteschi immobilizzi di capitale. Il fascismo, viste le dimensioni della crisi industriale, non poté fare uso della consueta strategia consistente nell’assunzione dei debiti delle imprese da parte dello Stato.
Non potendo contare sulla finanza straniera, di fronte al pericolo reale del fallimento delle principali banche che avrebbe travolto l’intera economia nazionale, il regime attuò una vera e propria svolta dirigista. Il primo passo fu il definitivo smantellamento della ‘banca mista’ che, nata dopo la riforma bancaria del 1894, gestiva il risparmio, il credito a breve termine e finanziava le imprese con prestiti a lungo termine che, in caso di mancata restituzione, si traducevano nella possibilità della banca mista di rilevare quote azionarie delle imprese insolventi.
Dal 1933 le funzioni di prestito a lungo termine insieme al portafogli di partecipazione azionaria alle imprese furono attribuite all’I.R.I., l’Istituto per la Ricostruzione Industriale, in cui si concentrò un ingente patrimonio industriale costituito dall’industria siderurgica bellica (Terni e Ansaldo), dall’industria estrattiva e cantieristica (Odero-Terni-Orlando, Cantieri riuniti dell’Adriatico), dall’industria automobilistica (Alfa Romeo), dalle imprese costruttrici di locomotive, da importanti pacchetti azionari nei settori chiave dell’industria elettrica, della siderurgia civile, delle fibre artificiali. L’I.R.I. acquisì, per scongiurarne il fallimento, anche la proprietà delle tre principali banche miste quali La Banca Commerciale, il Credito italiano e il Banco di Roma. All’I.R.I. fu affiancato l’I.M.I., Istituto Mobiliare Italiano, che aveva il compito di finanziare l’industria a medio e lungo termine attraverso l’emissione di obbligazioni.
La crisi del 1929 segnò, con la nascita della banca pubblica e della partecipazione statale, il mondo economico ed industriale italiano per i successivi 60 anni: dallo Stato liberale si passò allo Stato imprenditore e banchiere, che si fece mallevadore di una via italiana al capitalismo. […] Non più arbitro super partes, ma giocatore attivo. Il capitalismo italiano si separava dal capitalismo europeo e occidentale”.
Lo Stato italiano attua quindi a piene mani le politiche keynesiane di deficit spending, nella particolare cornice di repressione finanziaria, regolamentando i mercati di capitale, l’iniziativa privata e le banche (con la Legge bancaria del 1936). E’ ovviamente uno Stato che può agire sul Debito positivo, perché monopolista nell’emissione della moneta tramite la propria Banca Centrale ed è libero dai lacci e lacciuoli di qualsivoglia trattato sovranazionale.
Il potenziale immenso di questo strumento ce lo illustra il Giornalista Paolo Barnard: “Gli USA nel 1946-47 avevano un deficit di bilancio del 27% sul PIL. Oggi la UE giudica un 3% già troppo alto! Gli USA lo mantennero finché non ebbero creato la nazione più ricca del mondo e finanziato l’Europa a risorgere dalle macerie. Nel 1994, l’Italia fu giudicata dalle agenzie di rating come “un’economia leader”, e aveva un deficit tre volte quello di oggi, al 10%! Altro che PIIGS”.
L’Italia diventerà, pur tra squilibri distributivi a volte ampi, uno dei Paesi più ricchi al mondo. L’Italia raggiungerà, inoltre, la piena occupazione a metà circa degli anni ’60.
A questo punto torniamo a Skidelsky per chiudere il cerchio:
“Tuttavia, lo Stato si è rivelato incapace di proteggere la rivoluzione keynesiana dalle conseguenze del continuo pieno impiego che essa garantiva. La piena occupazione rafforzava il potere sindacale, i sindacati usarono la loro forza per spingere i salari oltre la produttività, e hanno cominciato a ridurre i profitti. Ecco che la classe imprenditoriale ha chiesto la fine dell’impegno alla piena occupazione, tasse più basse, e libertà di esportare il Capitalismo.
Penso che questa analisi spieghi molte caratteristiche dell’economia post-Reagan e post-Thatcher: i livelli molto più alti di disoccupazione, l’indebolimento dei sindacati, la decurtazione della rete di sicurezza sociale, la stagnazione dei salari reali e la concomitante esplosione dell’indebitamento delle famiglie, l’aumento della pressione sull’orario di lavoro, le riforme fiscali a favore del capitale, la de-regolazione della finanza, e molto altro.
Ma la soluzione di Reagan e Thatcher al problema del capitalismo ha ricreato il problema Hobsoniano del sottoconsumo. A partire dagli anni ‘80 i ricchi, nei paesi occidentali, sono stati in grado di appropriarsi della fetta del leone della crescita della produttività. Ecco perché crisi future sono inevitabili. Per evitarle dobbiamo riequilibrare la nostra vita economica: dal consumo verso il tempo libero, dalla finanziarizzazione verso la sostenibilità, dalla globalizzazione verso la comunità, dall’amore per il denaro verso l’etica. Come farlo è una questione politica […]”
In piena sintonia col nuovo corso ultraliberista la risposta politica italiana all’attuale crisi si sostanzia (oltre che nella privatizzazione del patrimonio pubblico) nel protrarsi delle ben note austerità (tasse e tagli alla spesa pubblica) e nelle cosiddette riforme, delle quali è perno e fondamento imprescindibile la riforma del lavoro dettata dalla BCE: demolizione delle conquiste sindacali del trentennio d’oro, ricattabilità dei lavoratori per imporre moderazione salariale, precarietà, disoccupazione; fattori che, come precedentemente visto, non possono portare che ad altra crisi.
Tale risposta politica ben si riassume nel Campione dei provvedimenti: il pareggio di bilancio in Costituzione: la garrota delle austerità sempiterne, la torchia dei popoli. Ecco il sacrosanto commento di Stefano Rodotà: “Il pareggio di bilancio in Costituzione ha reso Keynes anticostituzionale”.
Ora, in simili condizioni, è impossibile pensare che si possa riprendere un qualsiasi segmento del settore privato SE NON RIPARTE IL PAESE, men che meno le banche se vogliamo siano funzionali alla ripresa stessa … ed il Paese potrà ripartire solo se in primis riconquisterà la propria sovranità politica, economica e monetaria. E con questo, riprendendo il percorso ideale tracciato dalla nostra Costituzione, si intende perlomeno la possibilità:
– di essere padroni della propria moneta svincolandosi dal ricatto dei mercati e di poter attuare le necessarie politiche monetarie,
– di controllare il debito pubblico perché denominato in una moneta di cui si ha il monopolio dell’emissione e perché in regime di repressione finanziaria attraverso la fissazione dei tassi e la regolamentazione delle attività finanziarie,
– di poter usare il potente volano dell’intervento pubblico, con una seria e costruttiva politica industriale, nei settori strategici, nella ricerca scientifica e nei servizi primari alla popolazione come scuola e sanità,
– di proteggere ed incentivare il MADE IN ITALY, patrimonio immenso che si va velocemente depauperando,
– di attuare quelle politiche che sono nell’interesse del LAVORO (autonomo o dipendente che sia),
– di poter trattare da pari con gli altri Paesi europei al fine di tessere la trama di una Europa dei Popoli e degli Stati sovrani che seguendo lo schema del matematico John Nash (Beautiful Mind) e sconfessando l’individualismo di Adam Smith, vedano nel perseguimento dell’interesse comune il maggior vantaggio per il singolo, in modo da debellare le teorie coercitive del “vincolo esterno” e delle conseguenti “austerità” a cui siamo oggi incatenati dall’Euro e dai trattati europei.
Detto questo, ca va sans dire, che riguardo al problema del nanismo dell’industria italiana, le soluzioni proposte dal documento tecnico unitario paiono assolutamente risibili.
Lasciando da parte le produzioni agricole ed alimentari, specchio della nostra storia, della nostra diversità territoriale ed immensa ricchezza invidiataci da tutto il mondo, spesso il “piccolo è bello”, come andava di moda anni fa, si rivela oggi un grosso limite. Grazie alle economie di scala, più grande è l’impresa e più produttivi sono i lavoratori, maggiori sono i salari, minore è l’orario di lavoro, maggiori gli investimenti per addetto. Ma la questione è che nessun Centro di assistenza e consulenza in tema di concentrazione, ricapitalizzazione, quotazione in borsa o fiscalità e normativa (soluzioni previste nel documento sindacale per il rilancio di settore e sistema), potrà mai sostituirsi ad una decisa e concreta politica industriale da parte dello Stato, che inverta con coraggio il deleterio processo di privatizzazione partito negli anni ’90. E non sarà certo l’abolizione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori a incentivare a fare il salto dimensionale ad un imprenditore. Non è la possibilità di licenziare ad libitum, ma una economia sana e adeguati consumi che lo indurranno ad assumere ed investire nella produzione.
Folle inoltre l’incentivo alla corsa all’internazionalizzazione, come se l’export ci potesse salvare dal baratro. L’export trova la sua maggior linfa … nella depressione del mercato interno e nella moderazione salariale … niente di nuovo sotto il sole!
Viviamo in un mondo dove le idee di mercato e competitività dominano senza una vera critica se non da parte di esigue minoranze. Ormai il pensiero unico ha invaso le menti e assorbito qualsiasi ambito dell’esistenza, in un monopolio culturale senza precedenti, da cui non è rimasto immune nemmeno il sindacato.
In quest’epoca si è persa l’idea della funzione sociale dell’impresa privata, sollecitata anche dalla Costituzione. Adriano Olivetti diceva:
“La fabbrica non può guardare solo all’indice dei profitti. Deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia. Io penso la fabbrica per l’uomo, non l’uomo per la fabbrica.”
Le banche, fabbriche del credito, sono soggetti privati ormai completamente espropriati della funzione sociale e dediti esclusivamente al perseguimento del lucro. Dichiarazioni di circostanza a parte, la miopia propriamente connaturata al risultato aziendale non permette loro di porsi il problema né delle prospettive del settore né del Paese.
L’impostazione del documento unitario non esplicita il tentativo di alcuna analisi macro e di fronte ai dati che testimoniano la gravità del tracollo si limita a individuare ragioni e soluzioni che sono del tutto marginali.
Un esempio: “la stabilità del sistema sta pesantemente mettendo in discussione il ruolo di intermediazione del sistema bancario”. Certo le regolamentazioni sono sempre più stringenti in fatto di capitalizzazione ma il problema principale, dopo varie stagioni di chiusure e rientri anticipati delle linee di fido effettuati sull’onda della crisi, delle austerità e del panico derivato, è che le aziende superstiti, ora, si guardano bene dall’aumentare gli investimenti, soprattutto se a debito, dal momento che non c’è una domanda idonea ad assorbire una maggior produzione. In gergo si dice che IL CAVALLO NON BEVE.
A nulla potranno, per lo stesso motivo, il reiterato taglio dei tassi e neppure le nuove LTRO di Draghi, le TLTRO, ossia Targeted Longer-Term Refinancing Operations (e si sta dimostrando proprio così, tanto da essere definite un FLOP dai giornali economici, ndr), cioè liquidità fornita alle banche dietro l’impegno di finanziare imprese e famiglie (impegno falso perché sono esclusi i mutui e perché le sanzioni per un utilizzo speculativo sono risibili).
I dati riguardanti i crediti deteriorati e le sofferenze sono impressionanti, forse pensare che la colpa sia tutta dei modelli di valutazione del rischio ormai fortemente automatizzati, è troppo riduttivo. Soprattutto se, dati alla mano, la maggior parte di essi riguardano i prestiti concessi ai Grandi Clienti, gli amici insomma …
Le banche dovrebbero fare la loro parte TORNANDO A “FARE LE BANCHE”, nell’alveo di una ripristinata sana regolamentazione della finanza ispirata ai principi costituzionali che preveda innanzitutto:
– il ritorno alla divisione tra banche d’affari e banche commerciali, (e su questo concordiamo col documento unitario) come voleva la legge bancaria del 1936,
– forti limitazioni alla libertà di movimento dei capitali,
– la nazionalizzazione di Bankitalia ed il suo consolidamento col Ministero del Tesoro,
– il ritorno in auge nel settore del fine pubblico che sia prioritario rispetto a quello imprenditoriale/privato, prevedendo anche la partecipazione dello Stato nelle maggiori banche.
Solo su queste fondamenta la “cucina sindacale” di settore potrà costruire una base di tutela per tutti i dipendenti (su cui edificare i miglioramenti per le professionalità più elevate), attraverso la reintroduzione degli automatismi, il superamento del Sistema Incentivante (un sistema che in Rete premia la quantità delle vendite a scapito dell’etica e nei Back Office assolutizza la discrezionalità aziendale), la liberazione dal ricatto delle odiose pressioni commerciali in modo da sostenere un modo di fare banca virtuoso per il Cliente, per il Collega, per il Paese.
L’alternativa è la svendita e il declino senza ritorno di tutto il Sistema Italia e il Sindacato non può evitare di farsi carico delle sue responsabilità: in futuro non avrà alibi a propria discolpa.
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Veniamo ora al primo dei tre punti del documento unitario indicati precedentemente, cioè la proposta di allargare l’offerta di consulenza e servizi negli ambiti immobiliare, fiscale, legale e amministrativo. Esso ci permette di affrontare un argomento importantissimo, sempre legato a quanto fin qui esposto.
In sintonia col documento unitario, è giusto chiedere alle banche di tornare a fare il proprio mestiere, cioè erogare credito, perché questa è la loro vera e imprescindibile funzione, ma non possiamo certo pretendere che esse si approprino di nuove attività per recuperare la redditività perduta.
Non è plausibile pensare di trasformare i lavoratori che compongono la categoria, o una gran parte di essi, in fiscalisti, avvocati, consulenti immobiliari od economici, revisori dei conti, ecc…, professioni che richiedono al giorno d’oggi una altissima specializzazione, vista la complessità degli adempimenti e delle problematiche. Né tantomeno farne degli improbabili “tuttologi”. Non è questo il modo di rilanciare il settore né di mantenere i livelli di occupazione, ne è solo un tentativo cerchiobottista e maldestro.
Il grande problema della disoccupazione tecnologica fu già previsto da Keynes nella sua “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta”:
“Siamo affetti da una nuova malattia di cui alcuni lettori possono non aver ancora sentito il nome, ma di cui sentiranno spesso parlare negli anni futuri – chiamata disoccupazione tecnologica. Questo significa disoccupazione causata dalla scoperta di nuovi mezzi per risparmiare sull’utilizzo del lavoro ad una velocità superiore a quella con la quale riusciamo a trovare nuove forme d’impiego”.
Superando Marx, che vedeva il fenomeno dell’innovazione tecnologica portatore di un suo equilibrio intrinseco:
“L’innovazione tecnologica e organizzativa è un’arma a doppio taglio, mentre crea nuovi sentieri di sviluppo per l’assorbimento dell’eccedenza di capitale produce anche un effetto destabilizzante. Le ondate di innovazione nel campo della tecnologia e delle forme organizzative sono invariabilmente associate a crisi di ‘distruzione creatrice’, nelle quali un complesso di forme dominanti viene rimpiazzato da un altro”.
Il processo ineludibile di automazione che ha visto protagonisti prima l’agricoltura, poi l’industria e successivamente i terziari non va subìto ma messo a frutto. E’ l’occasione per dare continuità a quel percorso di emancipazione che ci ha portato dallo sfruttamento schiavistico della prima rivoluzione industriale ad oggi: una situazione ancora accettabile dal punto di vista salariale e normativo, almeno in categoria (nonostante i continui peggioramenti), ma ancora lontanissima da ciò che potrebbe realmente essere.
Certamente non è il pretesto per percorrere la strada inversa, quella che nell’ottica di sudditanza alla produttività (cioè al ripristino del tasso di profitto) vogliono imporci nuovamente, usando come pretesto la crisi e come strumenti il ricatto, la flessibilità e la precarietà (le famose riforme) che gonfiano l’esercito di disoccupati e sottoccupati rigettandoci in una crisi peggiore come visto precedentemente grazie alle analisi di Hobson e Marx.
E’ sensato credere che le macchine, scusate la grezza generalizzazione, debbano essere al servizio dell’uomo e non il contrario. Per questo è plausibile ritenere che alla lunga solo la tendenza ad una progressiva universale riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario (un po’ meno o, perché no, un po’ di più) potrà portare alla soluzione dei fenomeni di disoccupazione tecnologica e di crisi di sottoconsumo (o sovrapproduzione che dir si voglia), mantenendo alta una domanda (salari) che dovrà equilibrare una offerta (produzione di beni e servizi) potenzialmente a crescita infinita, la quale sarà opportunamente modulata e indirizzata verso i servizi alla persona, alla cultura, ai viaggi, al tempo libero, alla qualità della vita, facendo un domani del lavoro una parte accessoria della vita umana.
Già nel 1945 Keynes ricordò a T.S. Eliot che “la politica di piena occupazione tramite gli investimenti” era “[…] solo una particolare applicazione di un teorema intellettuale. È possibile produrre lo stesso risultato consumando di più o lavorando di meno. Personalmente consideravo la politica di investimenti come un primo soccorso. Ma quasi certamente non sarà sufficiente. Meno lavoro è la soluzione definitiva: una settimana lavorativa di 35 ore negli Stati Uniti sarebbe una soluzione ora“ (nel 1945! ndr).
Ancora Skidelsky: “Keynes pensava che per i tempi attuali avremmo facilmente raggiunto la fase in cui l’accumulazione di capitale non è più così importante. Le economie ricche potrebbero produrre tutti i beni di consumo necessari alle nostre esigenze ragionevoli, quindi la politica dovrebbe mirare a realizzare una più equa distribuzione della ricchezza e ad aumentare il tempo libero, (il cosiddetto “periodo d’oro dell’abbondanza di capitale” ndr).
Ma purtroppo “siamo ancora fissati con la crescita economica, pur avendo abbandonato ogni tentativo di controllare il livello o il tipo di investimenti. Per promuovere la crescita incoraggiamo sempre di più il consumo attraverso la pubblicità (e il debito ndr), e promuoviamo attivamente le disuguaglianze”.
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Gli ultimi due punti sono forieri di alti rischi. Riguardo la proposta sindacale di costituire consorzi (fino a ieri il contrasto a queste politiche era la madre di tutte le battaglie) si riporta uno stralcio del volantino SALLCA – CUB che ben ne individua i rischi e le incongruenze:
“La principale asserzione (del documento tecnico ndr) riguarda infatti la proposta di costituire un consorzio dove infilare tutte le attività di back-office al fine di rafforzare l’area contrattuale. Ci chiediamo da dove sia uscito questo uovo di Colombo, visto che negli ultimi anni tutti i lavoratori, a partire naturalmente da quelli direttamente coinvolti, hanno tentato in ogni modo di contrastare la formazione dei consorzi, visti giustamente come un’iniziativa aziendale tesa a sganciare un segmento lavorativo dal contratto del credito al fine di poter un giorno applicare norme, accordi e trattamenti retributivi meno costosi (-20% di stipendi, 40 h settimanali di lavoro, inquadramenti inferiori). Incuranti di questa resistenza dal basso, i sindacati hanno sempre firmato, tra feroci polemiche, accordi che consentivano la formazione dei consorzi di Gruppo, limitandosi a chiedere garanzie occupazionali e normative “a tempo”, destinate a decadere dopo un certo numero di anni.
Non paghe di questa erosione progressiva dell’area contrattuale, le organizzazioni sindacali firmatarie fanno ora un salto di qualità, proponendo esse stesse la costituzione di un consorzio
“di settore” che risolva i problemi anche di quelle aziende o quei gruppi che ancora non hanno provveduto autonomamente. La giustificazione è “preventiva”: lo proponiamo noi ai banchieri così
riusciamo a preservare l’area contrattuale del credito. Della serie: se ci facciamo del male da soli sarà meno doloroso…
La proposta è evidentemente inaccettabile, nel merito e nel metodo: come si permettono di estrarre dal cilindro una cosa di questa portata senza averla mai discussa con i lavoratori? Perché non hanno espresso le loro intenzioni nel giro di assemblee che si è concluso due mesi fa? Perché non prendono atto che il CCNL del 2012 sul punto dell’”insourcing” è totalmente disatteso, visto che alcune aziende (MPS con Fruendo e Unicredit con Ubis) hanno fatto esattamente l’opposto, esternalizzando e cedendo attività, così come sembra orientata a fare BNL?”
Belle domande a cui ciascuno può provare a darsi una risposta …
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Due parole infine sulla moneta elettronica, tema molto delicato, visto che tra l’altro proprio dal 30 giugno imprese e lavoratori autonomi sono tenuti ad accettare i pagamenti sopra i 30 euro tramite il POS (Point Of Sale), cioè il bancomat. Sebbene per gli inadempienti non sia prevista sanzione ciò costituisce un primo e notevole passo verso ciò che potrebbe essere realmente un pericolo: l’abolizione del contante.
Se da una parte la tracciabilità delle transazioni potrebbe portare all’emersione del “nero” e dell’evasione fiscale che ne consegue, dall’altra una forte limitazione dell’uso del contante o addirittura una sua eventuale abolizione costituirebbe un grave limite alla libertà personale e un altrettanto grave pericolo per l’integrità dei depositi.
In uno Stato virtuoso tornato padrone della propria moneta e del proprio agire politico-economico e che attui le necessarie politiche redistributive, l’evasione non sarebbe un grande problema perché la tassazione (che servirebbe solo ai fini redistributivi e a regolare la quantità di moneta all’interno del sistema economico ma non a finanziare alcunché) avrebbe un volto umano e laddove vivessimo in un Paese con un alto livello civico e culturale costruito nel tempo con l’esempio personale della classe dirigente e l’impegno educativo quotidiano della scuola e della famiglia, il fenomeno sarebbe del tutto marginale.
Nel caso di uno Stato predatore che a causa del “vincolo esterno” (assenza di monopolio nella emissione della moneta, necessità di finanziarsi con la tassazione, debito pubblico in moneta estera) deve in ogni modo prelevare dalle tasche dei cittadini il denaro per affrontare qualsiasi spesa, l’evasione diventa per molti una questione di sopravvivenza.
Una eventuale abolizione del contante sgraverebbe le banche dai costi di trasporto e custodia dei valori ma soprattutto le salvaguarderebbe dalla corsa agli sportelli (quella che fu fatale nel ’29) in caso di crisi aziendale o sistemica.
Sarebbe inoltre più facile eseguire prelievi forzosi in stile Cipro per far fronte ai diktat europei …
E per finire ciò che fino ad oggi è, per la singola banca, iscritto a bilancio come DEBITO nei confronti della clientela esigibile a vista o a scadenze concordate, diventerebbe per il sistema bancario IRREDIMIBILE, cioè non rimborsabile. Il denaro potrà cambiare banca ma mai uscire dal circuito bancario.
A questo punto a livello di sistema non potremmo più considerare i depositi dei clienti DEBITI da parte delle banche ma poste assimilabili alle voci di Patrimonio Netto!
Se poi aggiungiamo che già oggi, in Germania, i correntisti sono chiamati a concorrere all’eventuale fallimento dell’istituto di credito c/o il quale detengono i propri depositi (anche se per ora solo quelli con giacenze superiori ai 100.000 euro) e tanto si vuole estendere a tutti i Paesi dell’Eurozona, il quadro è presto fatto.
Potremmo ritrovarci inseriti in un sistema che si riveli potenzialmente uno strumento di controllo, ricatto e coercizione, degno dei migliori film di fantascienza.
Alessandro Andriola
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