Il luogocomunismo.
Si suol definire l’offensiva tutt’ora in corso, “crisi”.
Prende forma e si manifesta con una serie di slogan e luoghi comuni che sono entrati a far parte della nostra vita quotidiana: dal sempre verde “meno stato più mercato” a tutta una serie di parole d’ordine come “liberalizzazioni”, “privatizzazioni”, “libera concorrenza” che vanno a braccetto con “austerità”, “rigore”, “taglio della spesa”, fino ad un emblematico richiamo ai tempi dell’infanzia, “i compiti a casa”.
L’indignazione per una classe politica pesantemente delegittimata lascia trasparire la diffidenza per i servizi gestiti dalla mano pubblica. La necessità di imprecare contro tutto ciò che puzza di Stato, opportunisticamente instillata in un popolo disorientato dalla grancassa mediatica, sembra un tentativo di lasciar sfogare la montante collera popolare con una sorta di autoflagellazione.
Come è stato possibile che un luogo comune come “i politici sono corrotti” sia diventato il nucleo fondativo di una ideologia sociale?
Fino ad un certo punto potrebbe anche essere utile, se questo servisse a richiamare gli elettori ad una promozione e selezione più attenta della propria classe dirigente, ma appare evidente, con l’aria che tira, che il risultato desiderato sia un altro. In un contesto di sfiducia generalizzata, diventa molto più facile far passare l’idea, senza suscitare sgomento, che l’Unione europea sia il giusto antidoto ai governi democratici:
« I governi non hanno sempre ragione. Se i governi avessero sempre ragione non avremmo la situazione che abbiamo oggi. Le decisioni adottate dalle istituzioni più democratiche del mondo sono molto spesso sbagliate. »
(José Manuel Durão Barroso)
Le frasi d’effetto come “abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità” cozzano clamorosamente con il fatto che “siamo in una moderna economia capitalistica e finanziaria” in cui, guarda caso, la finanza serve proprio a vivere al di sopra dei propri mezzi, cosa che non necessariamente va fatta passare per una idea cattiva.
In economia il debito è un occasione per poter fare oggi pensando a domani e non è detto che sia sbagliato coglierla.
Dipende da come si utilizzano i soldi presi in prestito ma anche e soprattutto da cosa vuole ottenere chi ce li mette.
Se viene, ad esempio, concesso credito al consumo con eccessiva leggerezza ed inaspettata generosità, le banche poi si ritrovano in seria difficoltà e se a metterci una pezza interviene lo Stato, esplode il debito pubblico.
« Penso che, per avere una storia più accurata riguardo le cause della crisi, dobbiamo guardare non solo alle politiche fiscali: gli squilibri si sono originati per lo più nella crescente spesa del settore privato, finanziata dal settore bancario dei paesi debitori e creditori. Al contrario dei livelli del debito pubblico, il livello del debito privato è aumentato nei primi sette anni dell’euro del 27%. L’aumento è stato particolarmente pronunciato in Grecia (217%), Irlanda (101%), Spagna (75,2%), e Portogallo (49%), tutti paesi che sono stati sottoposti a grandissimo stress durante la recente crisi. La crescita repentina del debito pubblico, d’altra parte, è iniziata solo dopo la crisi finanziaria. Nel corso di quattro anni, i livelli del debito pubblico sono aumentati di cinque volte in Irlanda e di tre in Spagna. »
(Vítor Constâncio)
Le banche hanno prestato incautamente perché erano certe, con il vantaggio della rafforzata “credibilità” (al fine di rafforzare la credibilità della BC, si è ritienuto necessario garantire la sua indipendenza dalla politica, in modo da ridurre il rischio che essa potesse perseguire scopi di crescita dell’occupazione incompatibili con l’obiettivo di inflazione annunciato), che al momento opportuno sarebbero state salvate dai governi, i quali avrebbero fatto pagare il conto ai propri cittadini pur di sostenere la nuova architettura, alimentando in un sol colpo anche i soliti luoghi comuni.
E così, poiché in Italia avevamo un numeretto non in linea con i famigerati “parametri di Maastricht”, anche il luogocomunismo nostrano ha potuto facilmente diffondere le sue menzognere frasi fatte.
In realtà, il debito pubblico è uno strumento finanziario che, in un paese a moneta sovrana, è classificato come privo di rischio. Un paese a moneta sovrana può emettere debito pubblico a bassi tassi di interesse reale (differenza tra tasso nominale e inflazione), se non addirittura negativi, proprio perché è il mercato ad averne bisogno.
I disavanzi di bilancio dello Stato hanno aggiunto attività finanziarie al settore privato, fornendo la domanda per beni e servizi che ci hanno permesso di mantenere la crescita del reddito. E quella crescita del reddito ci ha permesso di risparmiare e accumulare attività finanziarie a un tasso di gran lunga maggiore di quello che saremmo stati capaci senza i deficit.
Ma se questa opzione è stata fatta venire meno e il mancato aumento di reddito reale è stato compensato da uno sconsiderato aumento dell’indebitamento, allora dove si vuole andare a parare?
La corsa al taglio degli enti “inutili”, per giustificare le cosiddette “politiche di risanamento”, arriverà inevitabilmente a quelli che garantiscono la gestione pubblica di servizi essenziali e risorse strategiche.
Cosa c’è di meglio che affossarli tutti di fronte ad una opinione pubblica educata a ragionare grossolanamente.
La strategia è chiara e il terreno è stato preparato da almeno un trentennio di disinformazione durante il quale si è costruito un popolo di tifosi. E quel popolo si è precipitato a riempire gli stadi, mentre i governi di tutti i colori procedevano unanimi sulla medesima strada.
Tutti si sono concessi alla moda delle privatizzazioni e delle liberalizzazioni al grido “è più efficiente il privato rispetto al pubblico” e ancora “la gestione privata abbatterà i costi di produzione per lo Stato e i prezzi al consumo per i cittadini mediante una sana concorrenza”.
La ricerca economica mostra, tuttavia, che le liberalizzazioni non favoriscono una sana concorrenza né provocano necessariamente una riduzione dei prezzi. Talvolta implicano addirittura aumenti, ed inoltre, nei casi minoritari in cui i prezzi sono effettivamente diminuiti, ciò è avvenuto in larga misura grazie al sacrificio dei soliti noti.
I risultati sono sotto gli occhi di tutti: ad essere abbattuti saranno salari e diritti sociali perché dobbiamo essere “competitivi” e “attraenti”.
Come ogni ideologia anche il luogocomunismo è finalizzato ad indirizzare le masse.
Per risolvere i problemi di una finanza lasciata scorrazzare senza più controllo nelle sconfinate praterie del libero mercato, c’è bisogno non di meno, ma di più Stato. Di impartire una dura lezione non alla povera Grecia, ma alla finanza, reprimendola e limitando i movimenti internazionali di capitali.
Non a caso, negli ultimi trent’anni, tutti i paesi diventati irrimediabilmente “spendaccioni” e “inefficienti” sono stati prima inondati da una marea di capitali esteri.
Considerato che le crisi finanziarie non sono catastrofi naturali, dovrebbe essere facile intuire che dietro il luogocomunismo si nasconde chi, da quest’offensiva chiamata “crisi”, ci guadagna.
Chi ci perde, d’altro canto, stenta a capire che, a causa del luogocomunismo, a difendere i suoi interessi non è rimasto nemmeno lui.
Sarebbe ora di darci un taglio.
Ogni società è retta da luoghi comuni, perché sono gli unici comprensibili al gregge e poi perché sono facilmente ripetibili: ieri l’altro nelle chiese, ieri nelle scuole e oggi sui media di regime. L’essere umano è una macchina evolutivamente programmata per introiettare e riprodurre i comportamenti che vede ripetere nell’ambiente circostante.
Una società deve abbracciare tutti e il tutto è sempre riferito al minimo comune multiplo delle singole componenti.
Si tratta di inculcare nelle povere teste del gregge slogans di segno diverso rispetto a quelli inculcati oggi dai dominanti. Tanto più grande sarà la catastrofe a cui andiamo incontro, tanto maggiori saranno le probabilità di riuscita.