L'aporia dell'economia mondo capitalista: universalità della misura ed etnicità della forza lavoro
Sin dagli esordi della sua nascita, il sistema di produzione capitalistico ha articolato il perimetro della sua azione spaziale in una duplice veste ideologica: quella etnica e quella universale.
L’economia-mondo capitalista ha declinato tale fondamentale contraddizione in maniera del tutto originale tramite meccanismi di adeguamento, senza che potessero mai intervenire elementi di paralisi e blocco, tali da pregiudicare il funzionamento del sistema stesso.
La prima determinazione della contraddizione è storica. Per affermarsi come economia mondo, infatti, il sistema ha dovuto passare attraverso il perimetro ben delineato delle economie nazionali dei nascenti Stati territoriali. Il mercato nazionale è stato uno degli spazi in cui si è elaborata una trasformazione per la crescita di una domanda interna, multipla, capace di accelerare la produzione e di dare avvio alla rivoluzione industriale, spiega efficacemente Fernand Braudel[1]. L’affermazione di un mercato interno, ha avuto, in alcune circostanze, il significato storico del successo di una classe sociale di imprenditori, così è stato per l’Inghilterra post-rivoluzionaria, per la Francia di Colbert e del Re Sole ed infine per gli Stati Uniti dopo la guerra di secessione. Le strutture dello Stato hanno servito come garanzia dei monopolisti, piuttosto che come protettrici della libera concorrenza, come viene comunemente dipinto. Tuttavia, se tale alleanza risultò fondamentale per determinare l’espansione del capitalismo come economia mondo, attraverso l’assoggettamento delle nazioni periferiche al centro nella forma coloniale, lo stato territoriale è sempre stato un’appendice congiunturale al sistema capitalistico. In origine, infatti, i comuni italiani tra XIV e XV secolo, le città dell’alleanza hanseatica, il polo delle Fiandre ed infine le Province Unite Nel XVII secolo, non hanno avuto bisogno di agire attraverso lo Stato territoriale, per attuare una forma capitalistica di scambio ineguale tra aree a differente sviluppo e variabile stato delle forze produttive. Possiamo dedurre anche da ciò come il capitale si sia sviluppato senza l’apporto determinante dello stato territoriale, è vero piuttosto esso ha avuto bisogno, in una seconda fase, della forza coercitiva degli Stati territoriali per la sua estensione ed unanime attuazione nel sistema mondo. Per i capitalisti, dunque, si è sempre trattato di adeguare l’imperativo della mercificazione di ogni cosa allo stato del processo di sviluppo storico delle forme di potere.
Il nucleo dell’aporia tra economia sopranazionale/nazionale, nel sistema capitalistico, è articolata a livello teorico nel concetto di scambio. Esso, infatti, come atto di cessione incrociata diretto all’acquisizione di beni, funge da collante tra produzione, distribuzione e consumo. Lo scambio è il fattore che, nella visione smithiana, subordina la divisione del lavoro e lo spazio economico. Se da una parte, in vista dello scambio, vengono disposte le differenze tra le forze lavorative, allo stesso tempo, occorre anche omologare gli aspetti formali del sistema affinché tutto possa assumere valore di scambio, fino ad arrivare alle estreme conseguenze, per le quali, l’identificazione del mezzo e della misura degli scambi rende possibile la nascita di un mercato della misura[2]. Tuttavia, lo scambio non è mai neutro, esso nell’economia mondo capitalista si configura sempre come scambio ineguale. Infatti, all’interno di tale sistema, per stati nazionali di differente livello di sviluppo che si legano in un trattato commerciale, è concepibile solo idealisticamente raggiungere un omogeneo livello di ricchezza. Il risultato di ogni convenzione pattizia sarà piuttosto quello di allargare il divario di risorse e benessere che separa due economie distinte. Proprio in vista dello scambio, emergono con forza, dunque, i due tratti costitutivi del sistema, da una parte l’universalizzazione, perché il sistema deve formare i quadri e la classe dirigente del paese più debole che non avrebbe alcun interesse all’abbraccio di quello forte. È preciso compito di queste classi dirigenti, plasmate da un sapere tecnico e scientifico, preparare le condizioni politiche e sociali che presiedono l’entrata nell’area di libero mercato, adattando la legislazione e le istituzioni economiche statuali per conformarli ai principi del mercato e della concorrenza, legittimando l’eliminazione di ogni resistenza all’espansione delle efficienze produttive, cercando di pervenire alla fase finale in cui il valore d’uso sia completamente sostituito dal valore di scambio. Nello stesso tempo, l’adesione ad un tale sistema non fa venir meno, le condizioni soggettive nazionali delle forze produttive, la divisione del lavoro su scala internazionale impone la loro distintività etnica[3].
L’Unione Europea unifica e porta alle estreme conseguenze la duplice polarità appena descritta, così da far affiorare contrasti insanabili e trascinare i conflitti tipici dei rapporti di produzione (stato della proprietà e stato della distribuzione della ricchezza) in sede istituzionale e geopolitica. La storia dell’Unione è ormai tristemente nota, i capitalisti creditori avevano bisogno di uno spazio liscio a geometria variabile, cioè aree differenti per sviluppo economico, fiscalità, welfare e stato sociale, ma perfettamente e rigidamente integrate dal vincolo monetario della valuta comune. Solo così le differenze hanno consentito la profittabilità dei capitali, mentre l’integrazione valutaria li ha protetti dalle svalutazioni. Inoltre, la rigidità del vincolo monetario ha contribuito a scavare un solco tra le bilance commerciali dei paesi dell’area euro, che non è stato supplito da alcun intervento redistributivo, e, come se non bastasse, i vantaggi del capitale sono stati gli svantaggi del fattore lavoro. Le differenze economiche, infatti, hanno causato una forte divisione del lavoro e una polarizzazione dei distretti industriali nelle aree del centro, causando deflazione e deindustrializzazione in quelle della periferia. Evidente, che una tale polarizzazione della ricchezza su scala internazionale abbia innescato fantomatiche convinzioni secondo le quali alcuni gruppi sociali potessero considerarsi “superiori” o maggiormente “produttivi” rispetto ad altri, convinzioni che dal campo economico si sono facilmente trasposte al campo politico e sociale, alimentando revanscismi e ansie di rivincita tra i lavoratori europei. Lungi dall’essere effetti collaterali di un cattivo funzionamento delle giovani istituzioni europee, i principi regolativi sono la sistematica attuazione di un piano lucidamente enunciato già nel 1999 da Tommaso Padoa Schioppa :“anche quando non è organizzata e nasce dalla volontà di prevalere, l’antica volontà di potenza che per lungo tempo animato gli Stati nazionali e li anima ancora, la concorrenza, purché non violi le regole dei trattati, è lecita e assolutamente utile”[4].
[1] F.Braudel, Civilisation materielle, economie et capitalisme, XV-XVVII siecle, Le Temps du Monde, Paris 1979. Pp. 235-237.
[2] M.Amato e L.Fantacci, Fine della finanza, Roma 2009. Pp.239-240.
[3] I. Wallerstein, Capitalismo storico e civiltà capitalistica, Trieste 2000. Pp. 64-75.
[4] T.Padoa Schioppa, les enseignements de l’aventure européenne, in Commentaire, n.87, 1999. Pp. 575-592.
Ottimo per certi versi. Moltissima carne al fuoco, che varrebbe una monografia.
Ti ringrazio per l’apprezzamento Stefano, ma non per modestia, devo ammettere che in gran parte è lo sviluppo di riflessioni di due grandi storici economici: Braudel e Wallerstein.