Merci che producono merci. E il soggetto si scoprì oggetto!
di Stefano D'Andrea
Tutte le società del passato delle quali abbiamo una solida conoscenza hanno elaborato, raffigurato, descritto, teorizzato un ideale di uomo. La storia, anche e soprattutto letteraria, ci è stata narrata, sovente, come successione di ideali di uomo. Non era tutta la storia; ma era la storia.
E’ vero che le figure degli uomini ideali, apprese sui banchi di scuola, erano proprie dei ceti colti e comunque dei ceti dominanti. Ed è anche vero che sappiamo poco o nulla, o comunque sappiamo molto meno, degli umili, di coloro che conducevano “la vita grama di sempre”. Ma anche gli umili avevano un ideale di uomo al quale si ispiravano.
Infatti, se poniamo mente alla civiltà contadina ancora pressoché intatta fino a cinquanta anni fa, civiltà che conosciamo grazie ai racconti dei nonni più che dei genitori, scopriamo che anche le classi non colte e dominate hanno sempre posseduto il concetto di “uomo ideale”. L’uomo ideale della civiltà contadina era, ovviamente, un uomo semplice. Era un grande lavoratore; non doveva cedere al vizio del vino, che tuttavia doveva produrre e bere con piacere. Da un po’ di tempo, forse, non doveva necessariamente essere un uomo pio ma doveva “rispettare” la moglie, che invece doveva essere pia. L’uomo ideale doveva essere di poche parole e saper parlare ai figli con lo sguardo. Si trattava, invero, di un “ideale che veniva dal passato”; voglio dire che era la figura del “contadino ideale”. Ma i contadini sapevano anche guardare fuori dal proprio mondo e osservare quelli che chiamavano “signori”, i quali rappresentavano l’ideale futuro. I signori non erano i commercianti, che pure avevano il denaro (spesso più denaro di tanti “signori”). I signori erano gli uomini e le donne dai modi gentili e non ruvidi; erano quelli che sapevano leggere e scrivere ed esercitavano le professioni "nobili": la maestra dei figli, il dottore, l’avvocato. Quando i contadini ebbero la possibilità di far cambiare vita ai loro figli, li fecero studiare e vollero che divenissero maestri, professori, dottori ed avvocati, non commercianti o imprenditori. Così avrebbero realizzato il loro ideale futuro, che era concepito per lo più come arricchimento dell’ideale passato.
Questo è il dato che ci consegna il “mondo di ieri”.
E il mondo di oggi? Il “relativismo” consiste ancora nella presenza di una pluralità di tipi ideali di uomo (eventualmente all’interno di una medesima classe sociale o di un medesimo ceto)? O la figura dell’uomo ideale è scomparsa, perché il moderno capitalismo, asservendo l’uomo alle merci, al feticismo delle merci – degli oggetti e dei marchi compravenduti – ha distrutto anche e soprattutto ogni concetto di uomo ideale?
A me sembra che la civiltà moderna non elabori alcun ideale di uomo. L’uomo moderno è privo di ogni riferimento ideale. Provate a chiedere ad amici e conoscenti in cosa consista e quali caratteristiche abbia il loro ideale di uomo. Io ho provato spesso ultimamente e la reazione è stata quasi sempre la stessa: immediato silenzio e bocca aperta di stupore. E’ la stessa domanda sull’uomo ideale ad essere estranea alla civiltà contemporanea. Addirittura alcuni interlocutori hanno avuto difficoltà a comprendere che mi riferivo ad un astratto ideale e non ad un uomo in carne ed ossa, vissuto nel passato e che essi consideravano il prototipo dell'uomo ideale. Quindi è’ il concetto stesso di ideale di uomo ad essere estraneo alla civiltà contemporanea.
Può una società definirsi civiltà se non possiede idee (magari diverse e anzi molto diverse) di che cosa debba essere un uomo? Gli animali credo (è un campo dove sono totalmente ignorante) non abbiano concetti e quindi non elaborino il concetto di “pastore abruzzese ideale” o di “lupo ideale”. Ma hanno l’istinto: l’istinto animale. L’uomo contemporaneo lo ha perduto? Oltre la forza delle idee morali, l’uomo ha perduto anche quella che sorgeva dall’istinto animale?
Se l’uomo ha perduto anche l’istinto animale, allora non siamo più nemmeno esseri viventi. Siamo cose.
Cose. Corpi in balia dei segni; dei marchi; degli slogan pubblicitari; della inventiva e intelligenza di chi, ideando un nuovo prodotto o una nuova moda o una nuova tecnica di vendita, ha la capacità di cambiarci (e di cambiare sé stesso).
L’alienazione è stata reificazione. Facoltà atrofizzate. Tradizioni uccise. Declino e morte delle idee morali, che seppure nuove (le “idee nuove”) generavano possibilità e aspirazioni. Scomparsa del controllo della società su sé stessa. La società, il complesso degli uomini, è automatizzata. Perché l’enorme maggioranza degli uomini è stata automatizzata dalle sollecitazioni provenienti dalle merci.
Le merci hanno avuto la meglio. I segnali che le merci emanano e che indirizzano verso di noi sono le forze che ci muovono. Quelle forze muovono i nostri desideri e questi ultimi sono soltanto desideri di merci. Le merci si riproducono utilizzando gli uomini, come fossero macchine; così come, nella concezione comune, ormai del tutto falsa, l’uomo riproduce la sua vita servendosi di macchine. Quanto appare ingenuo l’interrogativo se nel capitalismo il lavoro subordinato sia merce ora che abbiamo scoperto che gran parte degli uomini – considerati nella totalità della loro esperienza (talvolta torna utile questo scivoloso termine filosofico) – sono macchine utilizzate dalle merci per riprodurre sé stesse!
colgo per primo, mi pare, l'invito di stefano al commento. Ben vengano, lo sostengo dall'inizio.
Pur toccando parecchie suggestioni questo articolo batte sulla reificazione, e su questo sono d'accordo con l'autore. Le cose producono cose, niente di più. O se non producono cose, diventano rifiuti. Di là dai cliché sempre più triti che si ripresentano ogni giorno, ogni mese, ogni anno uguali a sé stessi, non c'è alcuna ciclicità nella vita collettiva, ma solo stratificazioni che seguono desideri di cose.
La collettività (chiarisco: occidentale, cioè europea dell'ovest e nord americana) non ha nessuna intenzione di governarsi ma, secondo un malinteso significato di liberalismo, solo di lasciare il maggior numero possibile di possibilità a tutti e a ciascuno, salvo poi scoprirsi ogni giorno più compromessa, immobile e avara. Il capitale è senza bandiera e senza odore (pecunia non olet), e il lavoro difende sé stesso appoggiando posizioni di retroguardia. Le innovazioni scarseggiano, e hanno valore per e dànno profitto a un numero sempre minore di persone.
E va bene. Queste sono cose già dette, e dette meglio di così.
Vorrei contribuire però con una riflessione sull'ideale di uomo cioè sull'incipit dell'articolo. Col quale non sono esattamente in linea.
In senso generale, penso che l'ideale di uomo sia ancora presente nella lotta politica, che nasconde lotte di capitali e certo non più (o non ancora) di pensiero organizzato, ma fa uso di modelli di uomini come potrebbe far uso di figure retoriche, se i retori ancora abbondassero nella classe dirigente.
Comincio dalla vita sociale.
Dall'illuminismo francese in poi i semi del pensiero radicale sono stati gettati e hanno dato rapidamente dei frutti.
Dal complesso equilibrio di Montesquieu si è passati al Contratto sociale di Rousseau, e se i termini (l'uomo e la società) sono gli stessi è perché quelli erano già ideali. Ciò che è venuto dopo, l'uomo romantico nell'800, l'uomo asservito al totalitarismo nel '900 e il nichilismo attuale, sono solo tentativi di fuga, passi indietro, tentennamenti. In verità siamo fermi a quelle forme sociali, e le nostre costituzioni (roba seria) ne sono la prova. Non bisogna disprezzare chi vi fa riferimento, anche troppo spesso, perché quelle costituzioni sono ciò che ci tiene insieme, altro non c'è.
Allora bisogna tornare un po' più indietro. Le idee radicali ci sono, ma ferme negli uomini, non hanno ancora esondato divenendo modello di convivenza.
Un modello di uomo ci proviene dal mondo classico, filtrato attraverso la storia meditterranea. Le sue virtù e i suoi vizi – la cui somma non è mai zero – si incarnano nei miti che ci ha lasciato, nei pantheon degli antichi e nelle figure guerriere abbondanti almeno fino al medioevo, le quali sono mosse da sentimenti umani e non da dovere nel rispetto del padrone: i tratti umani di Achille noti quanto la sua ferocia, l'astuzia diplomatica di Saladino alla base di un'equilibrio mediorientale che in un certo modo dura fino a oggi, ma anche il rifiuto del mondo del Santo Francesco. Secondo me si tratta anche qui di radicalità, di poli opposti e contrastanti, che qualche volta tirano l'essere umano fino a dilaniarlo, caratterizzandolo comunque nella lotta.
Più indietro ancora c'è l'altro modello di uomo, che è un anti-modello. Per come ci è stato tramandato dal vangelo, Cristo non dice di guardare a un modello, non deve rappresentare un modello – benché le gerarchie che lo hanno seguito ed elevato a simulacro fondando la Chiesa romana ne abbiano stilizzato i tratti quasi come si fa con un modello, appunto – ma raccomanda di cercare dentro. Il resto sono dogmi di fede, ma quello mi pare che abbia un valore più universale.
Chiudendo con una battuta di spirito, direi quindi che se dentro si scorge il vuoto, si cerca un modello di uomo. E non è un caso che ora si ricominci a parlarne, a cercarlo.
In tutti gli altri casi, si cerca (e infatti si è cercato) di fare un passo avanti e si costruiscono modelli di convivenza tra uomini. Poiché la storia si ripete, sì, ma mai uguale a sé stessa, è difficile imparare dagli errori. Ma questo è un'altro problema.
Altro non so dire, scusate se mi sono dilungato.
Il bell'articolo di Stefano non fa altro che stigmatizzare la differenza tra modernità e postmodernità. E' vero: i nostri padri, stanchi di lavorare come muli senza tregua, decisero che ai loro figli (noi, cioè) spettasse una sorte migliore. Meno miseria, più benessere. Ma questo faceva ancora parte del progetto modernista. Una volta arrivati alla conquista dell'agognato Posto, tutto sarebbe stato più facile.
Ed invece si è complicato tutto. Siamo entrati nella postmodernità.
Tanto avevano ideali forti e chiari i modernisti nostri padri, quanto siamo relativisti e disincantati noi. Perchè? La mia risposta è semplice: perchè quegli ideali hanno portato più malessere che benessere (non me ne vogliano i padri, la cui rettitudine e onestà non posso che osannare).
Certo, siamo più ricchi: ci possiamo permettere di mangiare tanta carne tutti i giorni, ad esempio. Poi scopriamo che tanta carne fa male. E ci possiamo permettere quelle vacanze esotiche che i nostri padri potevano solo sognare. Certo, i posti esotici sono ormai gli unici dove non è presente l'orrore ecologico in cui viviamo immersi per 11 mesi all'anno. E così via.
Ci sono cascati attraverso il mito modernista. Lo hanno fatto con onestà, con integrità, con perseveranza. Ma noi che stiamo raccogliendo i frutti di quella sudata semina, dobbiamo necessariamente anche essere contenti e riproporre quel modello anche ai nostri figli?
Diceva uno sciamano che per realizzare una società, bisogna prima sognarla. I nostri padri l'hanno lungamente sognata. Noi che invece l'abbiamo vissuta ne stiamo sognando un'altra. Ne abbiamo un urgente bisogno, ma non sappiamo ancora come strutturare il sogno. Quello che salta fuori a livello di mito è la ribellione contro i padri. Il complottismo tout-court non è null'altro che un urlare ai propri superiori: "NON CI CREDO A QUELLO CHE MI STATE DICENDO! SONO MENZOGNE!" Con buona ragione, molto spesso.
Quindi la prima parte del sogno consiste nel liberarsi da questi vincoli, la seconda consiste nell'elaborare il lutto (e siamo qui), la terza è quella di riprogrammare il nostro inconscio (ci stiamo arrivando) ed infine di elaborare un sogno autonomo, indipendente.
Ci credo quindi, Stefano, che i tuoi conoscenti e amici facciano la figura della trota lessa quando fai certe domande: sei in anticipo sui tempi. E' un po' come chiedere la soluzione di un'equazione ad uno scolaretto: che faccia vuoi che faccia?
Sta quindi a chi ha già elaborato il lutto e riprogrammato l'inconscio il compito di elaborare il sogno.
Sogni d'oro!
Non è vero che il PCI non è stato al Governo. Lo fu nel momento più decisivo di questo Paese.
alla fine della guerra in tutti i paesi europei, furono giustiziati i criminali Nazisti e fascisti, in Italia furono amnistiati. Era ministro della Giustizia un certo Palmiro Togliatti. il fascismo aveva soppresso lo stato liberale per cui avevamo fatto molte guerre, compresa la presa di Porta Pia. Alla fine della II guerra Tgliatti, avallò il concetto fascista di Stato confessionale, all'articolo VII della costituzione.
I comunisti hanno sempre obbedito alle lobby come tutti glia altri partiti. il comusmo in Italia l'URSS, non lo voleva. Avevatto un patto di divisione del Mondo a Yaltà, anche se i cosiddetti storici politicanti non si ricordano mai, o fanno finta.
L'intervento di Stefano chiama in causa diversi temi tra i quali mi sembra di scorgere quelli della trasformazione della vita umana nel corso delle generazioni e quello della società post moderna.
È vero che nelle società contadine vi era il desiderio di migliorare le proprie condizioni e, soprattutto quelle dei propri figli; ciò è vero anche per le società industriali. Gli operai, al pari dei contadini narrati da Stefano erano impegnati a investire sul proprio futuro e, soprattutto, su quello dei loro figli, affinché diventassero avvocati, maestri, dottori eccetera. Le ideologie collegate alla società industriale avevano sognato un mondo migliore, un uomo ideale impegnato nel miglioramento della propria condizione e di quella dell'umanità. Quelle ambizioni sono fallite prima con la fine del comunismo. In assenza dell'ideologia la condizione post moderna è quella che Ascanio Celestini (
) o i Csi (
) descrivono come la condizione “produci, consuma crepa”. Questa condizione è quella del soggetto (che consuma per il suo piacere) e dell'oggetto (che produce, come mezzo, per gli altri). Questa condizione non piace ad alcuni, piace ad altri; la maggior parte delle persone però rimangono come scrive Stefano con un “immediato silenzio e bocca aperta di stupore”. Perché? Perché per esse la domanda non ha senso. La maggior parte delle persone ambisce a consumare meglio in termini di qualità e quantità e cerca di evitare il lavoro concepito solo come sofferenza necessaria. Quello che mi sembra un deficit dell'intervento di Stefano è che l'uomo non ha perduto il suo istinto. La maggior parte degli esseri umani agisce proprio in base ai suoi istinti. L'istinto guida l'uomo (o la donna) nella ricerca del piacere e nella fuga dal dolore, nella ricerca del consumo e nella fuga dal lavoro. La maggior parte degli esseri umani si chiede come godere di più e soffrire di meno; questo forse si chiedevano anche la maggior parte degli uomini nelle società contadine e industriali. Le questioni morali costituiscono solo un oppio narrativo il quale è sostituito in modo crescente dalle molecole chimiche delle pillole della felicità.
Nell'analisi di Stefano mi pare di scorgere almeno due punti bisognosi di approfondimento e riflessione.
Il primo consiste nella constatazione che anche il capitalismo ha un suo uomo ideale: l'homo oeconomicus e in particolare l'uomo consumatore, l'utente di mercato, l'acquirente potenziale di merci e servizi, in una parola: il cliente. Non bisogna scomodare riflessioni di marcusiana memoria per accorgersi che per la maggioranza degli occidentali la dimensione dell'essere tenda a coincidere con quella dell'avere. E questo spiega come nell'uomo ideale del postmoderno Occidente le manifestazioni dell'essere si traducano quindi con le esibizioni dell'avere. Il dogma economico al quale acriticamente mostrano segni di indelebile fede milioni di uomini è divenuto allora : consumo quindi sono. Le dimensioni dell'io si dilatano in funzione della quantità e della qualità delle merci che siamo in grado di acquistare, consumare e mostrare agli altri. E questa è un'ideologia onnipervasiva che spiega l'adesione incondizionata delle folle al valore del denaro. Denaro e capitale significano potere e malgrado le condizioni economiche riservino soltanto a pochi i privilegi della vita vagheggiata negli spot pubblicitari il delirio del sogno dell'uomo ideale circondato da merci di lusso (comprese anche le donne-merci) affascina e trascina una buona parte della nostra società. Che piaccia o no è un fatto che un certo uomo ideale ci viene proposto in tutte le salse mediatiche.
Il secondo punto che mi pare degno di attenzione è il rapporto fra soggetto e oggetto che si configura nel mondo post-moderno. Non è questo il luogo in cui Individuare le matrici filosofiche dell'oggettivazione del soggetto e quindi mi limito ad una constatazione: se l'unico valore dell'essere è quantificabile con un equivalente in denaro è ovvio che scompare anche la distinzione fra l'essere soggetto e l'essere oggetto. Ne segue la mercificazione dei rapporti interpersonali e un crescente atomismo individualista.
Il disagio della nostra civiltà di fronte a questo modello di uomo si manifesta in tante forme di dissenso ma il recupero della soggettività e delle diverse dimensioni dell'essere uomo passano necessariamente da un rovesciamento della gerarchia dei valori che orientano la nostra esistenza a favore di un'etica, di una politica e di un'economia, fondate sulla persona e non sul cliente.