La bramosia di Re Mida e del capitalismo
Il personaggio mitologico di Re Mida è noto nella tradizione occidentale per la sua capacità di trasformare in oro tutto ciò che toccava con le mani. Tale dono gli venne concesso da Dioniso, in seguito ad un servigio reso al dio, il quale per ricompensarlo gli chiese che cosa desiderasse ardentemente. Mida, che era un personaggio bramoso di ricchezze, chiese espressamente tale capacità, ma presto si rese conto che il potere che gli era stato concesso dal dio era più una punizione per la sua bramosia che un premio. Infatti, egli non poteva neanche mangiare e pertanto la sua smania di ricchezze lo stava uccidendo. Dinanzi al rischio dell’ autodistruzione, si pentì amaramente e tornò dal dio a chiedere che gli togliesse quella maledizione. Dioniso, impietosito dal pentimento del Re, gli tolse quel venefico potere.
L’insegnamento che si può cogliere dal mito di Re Mida è che l’eccessiva bramosia porta all’autodistruzione e che non tutto ciò che viene trasformato in oro è necessariamente buono, anzi potrebbe rivelarsi addirittura dannoso.
Sin da quando il capitalismo ha fatto la sua prima comparsa nella storia dell’umanità, poco più di due secoli fa, si è comportato esattamente come il re frigio. Esso ha tentato di trasformare in oro, o meglio, ha tentato di mercificare tutti gli elementi della società umana che riusciva a toccare, comprese cose che fino a quel momento non lo erano mai state: il lavoro, la terra e il denaro.
Come sostiene l’antropologo Karl Polanyi, nel suo capolavoro La grande trasformazione:
Il punto cruciale è questo: lavoro, terra e moneta sono elementi essenziali dell’industria; anch’essi debbono anche essere organizzati in mercati poichè formano una parte assolutamente vitale del sistema economico; tuttavia essi non sono ovviamente delle merci e il postulato per cui tutto ciò che è comprato e venduto deve essere stato prodotto per la vendita è per questi manifestamente falso. In altre parole, secondo la definizione empirica di merce essi non sono delle merci. Il lavoro è soltanto un altro nome per un’attività umana che si accompagna alla vita stessa, la quale a sua volta non è prodotta per essere venduta ma per ragioni del tutto diverse, né questo tipo di attività può essere distaccato dal resto della vita, essere accumulato o mobilitato. La terra è soltanto un altro nome per la natura che non è prodotta dall’uomo. La moneta infine è soltanto un simbolo del potere d’acquisto che di regola non è affatto prodotto ma si sviluppa attraverso il meccanismo della banca o della finanza di stato. Nessuno di questi elementi è prodotto per la vendita. La descrizione, quindi, del lavoro, della terra e della moneta come merce è interamente fittizia.
Il capitalismo ha una smania smodata di rendere tutto mercificabile. Secondo la sua dottrina, ogni cosa può essere comprata o venduta sul libero mercato e pertanto anche lavoro, terra e moneta avrebbero dovuto essere mercificati. Fondamentalmente, esso ha creato delle “merci fittizie”, come le chiama Polanyi: tutti noi facciamo finta di credere che siano merci e le trattiamo come tali, ma questa è una pura invenzione del nostro sistema economico-sociale. Polanyi, da grande antropologo, dimostra come nelle società contemporanee che noi definiamo “primitive”, lavoro, terra e moneta, qualora quest’ultima sia presente, non sono considerate come merci e neanche nell’epoca pre-capitalistica europea erano ritenute tali.
In un breve passo egli dimostra chiaramente come il lavoro non sia una merce:
Si suppone che il lavoro trovi il suo prezzo sul mercato e che ogni altro prezzo diverso da quello così stabilito sia non economico. Fino a che il lavoro non viene meno a questa responsabilità, si comporterà come un elemento nell’offerta di quello che è, la merce “lavoro” e si rifiuterà di vendere al di sotto del prezzo che il compratore può ancora pagare. Volendo essere coerenti, ciò significa che il principale obbligo del lavoro è quello di essere quasi continuamente in sciopero. Questa proposizione non potrebbe essere superata per assurdità: eppure essa è soltanto una deduzione logica a partire dalla teoria del lavoro come merce. La fonte dell’incongruenza tra teoria e pratica è naturalmente che il lavoro non è veramente una merce e che se il lavoro venisse rifiutato semplicemente per stabilire il suo prezzo esatto (così come in circostanze simili si rifiuta un aumento nell’offerta di ogni altra merce), la società si dissolverebbe presto per mancanza di sostentamento. Va notato che questa considerazione non viene quasi mai o addirittura mai citata nelle discussioni sullo sciopero da parte degli economisti liberali.
Questa idea con la quale conviviamo è una pure convenzione con la quale ci sforziamo di credere che il nostro sistema economico-sociale sia il migliore in assoluto, assecondando un’ideologia che negli ultimi duecento anni non ha fatto altro che dimostrare la sua fallacia.
Sempre secondo Polanyi, la cosiddetta “società di mercato” in cui viviamo non funziona proprio perchè innaturale, in quanto tende a mercificare elementi che non possono essere mercificati e ciò porta dei considerevoli problemi nel lungo termine. Una società siffatta è tendente all’autodistruzione, in quanto basata su una finzione che snatura eccessivamente l’uomo e le sue relazioni sociali. Tuttavia, lo studioso ungherese sostiene che non ci sia da temere perchè la società civile dinanzi a tali processi autodistruttivi innescherà automaticamente dei meccanismi di difesa che la riporteranno su binari più naturali. Esattamente come Re Mida che dinanzi all’impossibilità di nutrirsi si è recato a chiedere pietà a Dioniso.
Polanyi, infatti, interpreta gli anni ’30 del secolo scorso come la risposta naturale della società a più di un secolo di capitalismo liberista. In quel decennio la politica riprende il controllo dell’economia, così com’era sempre stato nella storia dell’umanità e il capitalismo liberista scompare completamente dalla scena politica mondiale. Nella sua interpretazione, fascismo, comunismo e New Deal non sono altro che “la risposta ad un sistema di mercato che si rifiutava di funzionare”. Essi, per quanto diversi tra loro, hanno tutti in comune il controllo dell’economia da parte della politica.
Oggi, invece, viviamo nuovamente in una società liberista che tende a mercificare tutto quanto ciò che riesce a toccare. Quando avremo preso coscienza di non poter sopravvivere come uomini in questa società, anche noi torneremo da Dioniso ad appellarci alla sua magnanimità.
Luca Mancini
ARS – Lazio
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