L'insostenibile convergenza del Pil
La competizione è l’habitat naturale del PIL,
come lo stagno lo è per la rana
(P. Dacrema)
Misurare. ovvero esistere.
Si misura tutto: l’età, l’intelletto, quanto si ama, quanto si odia, quanto si lavora, quanto ci si diverte, di quanta salute si gode, di quanta malattia si soffre, quanto si pensa, si parla, si scrive, se si è più o meno efficaci, o se si è più o meno prolissi…
E la creatività? forse più di tutto il resto è soggetta alle misurazioni. Se pensiamo di avere un talento è necessario che qualcuno ce lo identifichi e quantifichi, è necessario che ci sia “riconosciuto” da più pubblico possibile, che ci sia data la possibilità di istruirlo, esercitarlo, migliorarlo e soprattutto farlo fruttare. qualunque talento è inutile se non ha tempo e luogo per essere collocato. e con altri talenti, confrontato. Perché se troviamo qualcuno con più talento di noi, il nostro ne viene automaticamente ridimensionato. Magari scopriamo che non lo abbiamo neppure, quel talento…
Misurare. quindi competere.
Il benessere è il talento per cui competono tutti: i cittadini tra loro, ma soprattutto i governi tra loro.
E in tema di benessere il trinomio esistere-misurare-competere si fa più stretto. Infatti parlare di benessere in termini qualitativi, non è questione agevole, implicherebbe discussioni pressoché infinite: ognuno ha una propria idea di “buona scuola”, buona sanità, buona occupazione, buone riforme, ecc., mentre parlarne in termini quantitativi assicura quantomeno un tempo limitato al dibattito e la possibilità di addivenire a una conclusione. Per questo ci sono i numeri. per questo c’è il Pil.
Secondo il Pil il benessere di una nazione si può misurare soppesando la sua capacità produttiva. E la capacità di produzione si traduce direttamente nella capacità di consumo, perché non si produce certo per mantenere tutto nelle stive, ma per dar modo ai cittadini di fruire del bene prodotto.
Le variabili di produzione e di consumo ruotano quindi attorno a una terza variabile: la domanda. È chiaro che non si produce un bene che si suppone non vorrà nessuno: poche imprese si sognerebbero di aprire negozi di sabbia nel deserto. È vero anche che molte volte il mercato e la sua imposizione mediatica, riesce a creare “bisogni indotti” (e spesso “indebitamenti indotti”…) di un bene di cui altrimenti non si sentirebbe alcuna necessità. Ma in termini quantitativi nulla cambia: indotta o genuina, endogena o esogena, per il Pil, sempre di domanda si tratta.
E arriviamo così alla quarta variabile, direttamente legata alle altre tre: il reddito. Va da sé che il cittadino, per poter possedere un bene, deve in ogni caso essere messo in condizione di poterlo comprare, deve cioè avere soldi, e deve quindi avere un lavoro.
Ne deriva che il Pil, come misura del benessere, dovrebbe virtualmente misurare tutte queste variabili.
Virtualmente, perché quando si ha a che fare con misurazioni statistiche – e tale è il Pil – vi sono alcuni problemi di validità interna ed esterna che vanno affrontati.
1) Il Pil, misura del benessere, misura veramente il benessere?
Vale a dire: il benessere è davvero dato dalla produzione e dal consumo?
Non è così facile: il consumo può dare vuote soddisfazioni, e altre attività, come una passeggiata in uno dei magnifici squarci di natura della nostra Italia, dare un appagamento pieno. Parallelamente chi lavora, se ha un lavoro faticoso e mal pagato, o che limita o ridicolizza talenti e capacità, può sperimentare lo stesso senso di frustrazione e inutilità di chi non lavora.
2) Il Pil misura davvero il benessere di tutti?
Tutti conoscono il paradosso statistico dei due polli arrosto e dei due tizi affamati: la media statistica ci dice che ciascuno avrà il suo pollo, l’esame della realtà ci ha spesso detto che i due polli andranno tutti e due a uno solo, e che l’altro rimarrà a guardare.
Quindi è possibile che un buon Pil NON sia indice di un buon benessere per tutti, ma che sia, anzi, indice del contrario: un Pil elevato è assolutamente compatibile con l’eventualità che un’esigua minoranza se ne appropri e che ben poco resti a disposizione della maggioranza della popolazione.
3) Il Pil dà la giusta valorizzazione del prodotto?
Partiamo dal presupposto che la povertà – intesa naturalmente non come capacità di vivere senza indecorosi eccessi e di saper fare a meno di bisogni dannosi e indotti, ma come reale indigenza senza possibilità di scelta – non sia certo un bene perseguibile, mentre un’ampia disponibilità di beni materiali, lo sia.
Sta di fatto che vi sono beni materiali intangibili e difficilmente misurabili per il Pil: non solo la bellezza dei luoghi di cui si parlava prima, ma anche, a voler essere più tecnici e puntigliosi, la salubrità dell’aria che respiriamo e di quello che mangiamo; l’igiene dei posti di lavoro, delle mense comuni, degli ospedali; l’efficienza e ragionevole immediatezza delle prestazioni sanitarie; l’educazione civica, ecc…
D’altro canto vi sono anche prodotti che per il semplice fatto di produrre lavoro e consumo, vengono definiti beni dal Pil, come per esempio la fabbricazione e commercializzazione delle armi, o le spese per la criminalità.
Proprio sulla base di queste considerazioni, nel 1994 un gruppo di ricercatori propose il GPI (Genuine Progress Indicator), uno strumento di misurazione in grado di distinguere tra spese positive destinate ad aumentare il benessere, come quelle per beni e servizi, e spese negative, come i costi relativi alla criminalità, all’inquinamento, agli incidenti stradali, ecc. Uno strumento quindi in netta contrapposizione con il Pil che senza alcuna discriminazione abbina un segno positivo alla totalità delle spese. La contrapposizione diventa addirittura interessante quando si rileva che mentre il Pil è cresciuto negli ultimi decenni, il Gpi sembrerebbe essere aumentato solo fino ai primi anni settanta, cominciando subito dopo a diminuire…
Ma si trattava evidentemente di rilevazioni troppo scomode, e così, anziché investire tempo e risorse su misurazioni e strumenti più accurati e precisi, che fossero o non fossero il Gpi, si è preferito non abbandonare il Pil e non rinunciare all’abitudine dei suoi vecchi calcoli. Forse perché per andare oltre il Pil, occorrerebbe andare oltre una certa economia, o quantomeno un certo modo di vedere l’economia, che badasse un po’ meno alle esigenze dei mercati, e un po’ più a quelle della popolazione.
Permane quindi il Pil, insieme a tutti i dubbi sulla sua capacità di definire e valutare la reale qualità dei prodotti.
Le cose si complicano quando la valutazione del Pil si traduce in prezzo del prodotto stesso.
Si potrebbe obiettare che a notificare il “dato” del Prodotto Interno Lordo provvede una banca centrale nazionale. Infatti vi sono due tipi di valutazioni economiche legate a un prodotto: a) una antecedente al fatto, che ne stabilisce la desiderabilità e quindi ne organizza la produzione, e b) una valutazione successiva al fatto, che ne stabilisce il prezzo. Quest’ultima in realtà è una valutazione prettamente politica. La politica, tramite la sua banca nazionale, dovrebbe in effetti controllare l’economia. Ma da quando le banche sono diventate sostanzialmente organismi privati, questo potere la politica non ce l’ha più e torna tutto, ancora una volta, in mano ai mercati, cioè all’economia delle grandi lobby finanziarie.
E guarda caso, i modi di funzionare del mercato, sono gli stessi del Pil: competizione ed efficienza.
Chissà che non sia proprio questo il motivo per cui non si cercano altri strumenti di misurazione: il Pil converge perfettamente con le esigenze della grande finanza…
Sulla competizione tanto si è sen
tito e tanto si è parlato, ma qualche perla ancora la si scova, persino da chi, come P. Dacrema, è convinto della bontà del mercato, ma che tuttavia ammette che il mercato (perlomeno quello attuale) anziché essere “luogo aperto a tutti” è “uno spazio accessibile solo a chi dispone di denaro, e comunque molto più confortevole e ricco di opportunità per chi ne ha tanto“.
A noi non rimane molto da aggiungere se non forse che rispetto al suo gemello concettuale di matrice darwiniana “selezione” – così brutale nello spiattellare la cruda realtà che il più forte vive e il più debole muore -, la “competizione” può contare su un’eleganza evocativa di “sportività”, fino alla vera e propria figurazione del campo di “gioco” sportivo, che invece l’altro termine nemmeno lontanamente ha. Che sia un gioco in cui molti perdono il lavoro, la dignità e spesso la vita, pare ormai altrettanto naturale. fa parte appunto, del “gioco” (dei mercati).
Dopotutto l’estinzione naturale è l’altra faccia della selezione naturale. E se si considerano le continue dichiarazioni del governo e della Troika contro il nostro sistema pensionistico e il nostro sistema sociale, si capisce bene quale sia la loro speranza: l’estinzione immediata di anziani, disabili, malati, vedove e deboli di ogni sorta, perché peso intollerabile per le casse dello Stato.
Sull’efficienza occorre invece puntualizzarne gli aspetti di velocità e specializzazione, ognuno con il suo strumento realizzativo.
Il denaro è lo strumento della velocità (va da sé che il baratto sarebbe più lento, non foss’altro per la scelta ponderata delle qualità e dell’utilità effettive del prodotto che lo scambio richiederebbe).
Per quel che riguarda la specializzazione, una lucidissima affermazione trasversale di David L. Kirk può aiutare a inquadrare la questione: “In biologia un po’ più di una cosa significa un po’ meno di tutto il resto“. Forse così è più facile capire quale possa essere lo strumento della specializzazione: lo snaturamento del lavoro, della sicurezza e dell’istruzione. questo è lo scotto da pagare per la sofisticatezza delle tecniche di produzione. E queste tecniche sofisticate, sono almeno usate a beneficio di tutti? Naturalmente no. Le regole del mercato impediscono che non solo la produzione, ma anche la distribuzione dei prodotti sia equa, perché la vita stessa del mercato si basa sull’esistenza di qualcuno abbastanza forte da potersi permettere la produzione e qualcun altro abbastanza debole da potersi permettere solo il bisogno.
E i consumatori, in tutto questo gran competere, hanno svantaggi o vantaggi?
In linea teorica il Pil avrebbe un fondamento etico in base a cui un grande Pil deve essere frutto della combinazione del maggior volume possibile dei prodotti con il minor livello possibile dei prezzi.
E qui inevitabilmente entriamo, anzi, trapassiamo il cuore del problema: per dare il prezzo più vantaggioso al consumatore, quali strade può percorrere un governo affinché un produttore “non si ammazzi e/o non ammazzi il consumatore” nella competizione? Ci sarebbero due strade maestre: 1) svalutazione della moneta e 2) alleggerimento della pressione fiscale.
Ma queste due strade ci sono vietate dalle transenne europee (i Trattati).
Rimangono quindi inevitabilmente le strade peggiori, quelle che paradossalmente impoveriscono il paese: 3) svalutazione del salario dei lavoratori; 4) svendita del patrimonio pubblico; 5) privatizzazioni che limitano fortemente l’accessibilità ai servizi essenziali ai cittadini meno abbienti; 6) delocalizzazioni che spostano altrove lavoro e consumo e quindi ricchezza; 7) internazionalizzazioni, che massificano i popoli in meri e impassibili consumatori predestinati, e che grazie alla ratifica del TTP non avranno più ostacoli di nessuna sorta, né etici, né salutistici, né politici, per imporre un mondo fatto su misura per le multinazionali.
Chissà come mai i Trattati ci obbligano a percorre queste strade a passo di velocisti olimpionici…
Si potrà obiettare: ma da che mondo e mondo è la miglior offerta fatta al consumatore che sancisce il profitto di un’azienda.
No: le grandi Corporations che dovrebbero darsi battaglia spietata per garantire al consumatore questa fantomatica miglior offerta, in realtà dialogano tra loro più di quanto si creda, cercano accordi più di quanto siano disposte a combattere, e quasi sempre trovano una soluzione, a vantaggio proprio e a svantaggio del lavoratore, ovvero del consumatore. Il tonfo di una di queste corporation – o meglio: del suo amministratore delegato – sarà sempre un volo con rete di salvataggio. rete spesso intessuta da stipendi che uno dei suoi ex dipendenti non riuscirà a sognare neppure in 100 anni di lavoro.
“Nella guerra tra gli elefanti sono le formiche ad essere travolte”.
Come mai questa spavalda supremazia economica non provoca reale ribellione nella popolazione?
Perché i mercati sono riusciti a renderla accettabile grazie alla più grande usurpazione semantica della lingua italiana: spacciando la competizione per meritocrazia.
L’ossessiva campagna mediatica contro gli italiani corrotti, inetti, “bamboccioni”, è il frutto di questo grande inganno: siamo poveri perché ce lo meritiamo. non solo: dobbiamo espiare questa colpa diventando ancora più poveri, con austerità e contentezza.
Ancora una volta: al Pil non interessa che si tratti di una competizione basata sull’inganno.
Eppure, nonostante tutti questi difetti e questi imbarazzi, il Pil è diventato non solo un parametro fondamentale nelle misurazioni nazionali e di confronto internazionale, ma addirittura il pilastro tecnico e ideologico di due delle norme più importanti tra i cosiddetti Criteri di convergenza di Maastricht enunciati dall’articolo 127.
La prima norma si basa sul principio del 3%, il numeretto estraneo ad ogni formulazione matematica, inventato per caso e accettato da tutti gli altri per obbligo, in base a cui il rapporto tra disavanzo pubblico (le spese non coperte dalle entrate) e Pil non deve eccedere la percentuale suddetta.
La seconda norma pure riguarda una percentuale, in questo caso il 60%, limite invalicabile del rapporto tra debito pubblico e Pil.
La cosa sconcertante non è più – ormai – il fatto che queste norme impediscano qualunque tipo di politica espansiva, rendendo di fatto impossibili politiche di crescita, occupazione e lavoro, perché “il denaro è lo spirito, la fonte del Pil, ma solo altro denaro può consentirne la crescita” (P. Dacrema), e “altro denaro” lo si trova solo tornando alle Sovranità nazionali che possono permettersi una propria moneta e quindi sono legittimate sia a sforare quelle ridicole percentuali, sia a fermare finalmente il massacro di questa tassazione che deprime ulteriormente i redditi, e quindi i consumi, e quindi la crescita.
Ciò che davvero ci lascia con un fumettistico punto interrogativo impresso sulla fronte, è l’ennesimo paradosso, l’inconciliabile contraddizione e il palese raggiro della buona fede dei popoli, perpetrati da questi Trattati: da una parte pretendono in modo vessatorio ed anticostituzionale che gli Stati cedano ad un organo sovranazionale MAI eletto e autoreferenziale le proprie sovranità nazionali con annesse e connesse tutte le decisioni politiche ed economiche; dall’altra pretendono di utilizzare uno strumento come il Pil per dare del Pig a chicchessia, ignorando (o omettendo?) che l’esistenza stessa del Pil (e di qualunque altro strumento di misurazione del benessere di un popolo) “poggia sull’idea di nazione come soggetto giuridico, politico ed economico autonomo, sul presupposto della divisibilità del mondo e dell’eterogeneità delle sue parti”, altrimenti non sarebbe possibile stabilire un confronto tra le parti, e la co
mpetizione non potrebbe avere luogo.
Questi Trattati espropriano ogni logica, ogni scrupolo, ogni pudore.
E noi, i popoli? finora siamo stati gli espropriati. senza pudore, senza scrupolo, senza logica, li abbiamo lasciati fare.
È arrivato il momento di misurare quanti siamo. Misurare per tornare ad Esistere.
Esistere e riscoprire quei beni intangibili ma essenziali del NON arrendersi, NON renderci complici delle loro ingiustizie, NON farci più raggirare.
Siamo già tanti. ma ti aspettiamo.
Lucia Biasco, ARS Puglia
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