Francesco Perfetti: Mediterraneo e Medio Oriente nella politica estera italiana
Estratti da un articolo pubblicato nel 2011 sul n. 2 della rivista “La comunità internazionale”. L’autore, allievo di Renzo De Felice, è docente di storia contemporanea alla LUISS Guido Carli di Roma.
L’uscita di scena di De Gasperi, e quindi la fine della stagione del centrismo classico e l’ingresso in un periodo di “centrismo instabile” proiettato verso la ricerca di nuovi equilibri, non mancò di riverberarsi sul dibattito riguardante il futuro e le scelte di politica estera. Di fatto nulla cambiò, dal momento che l’Italia rimaneva saldamente ancorata sia agli Stati Uniti sia all’Alleanza Atlantica sia, infine, all’idea che l’integrazione europea dovesse seguire il suo percorso di approfondimento. Tuttavia si registrò una importante novità rappresentata, proprio, dall’inserimento delle questioni di politica estera nelle discussioni che, attraverso stampa e convegni, si svolgevano tanto fra le principali forze politiche quanto, e soprattutto, tra le neonate correnti della Democrazia Cristiana.
Dalla metà degli anni ‘50 all’inizio degli anni ‘60 – grazie, in particolare, all’assestamento della posizione interna e internazionale del Paese e a causa, pure, delle «strettoie» che sembravano condizionare la politica atlantica – queste discussioni fecero emergere o, se si preferisce, riemergere la cosiddetta “opzione mediterranea” per la politica estera italiana. Alla base del dibattito c’era l’affiorare, sul piano interno, di sollecitazioni e istanze di natura politica ed economica che sembravano in qualche misura essere sacrificate o contrastate dalle scelte governative interne e, parimenti, dalla linea di politica estera filoatlantista e filooccidentale dell’Italia.
In questo contesto maturò una sorta di “impazienza” di taluni ceti emergenti dell’Italia del dopoguerra che auspicavano una politica estera di maggiore respiro e con più ampi margini di autonomia. Personalità del mondo politico ed economico incarnarono una tale volontà di cambiamento: Enrico Mattei, per esempio, dal 1953 alla guida dell’ENI, con la sua politica energetica o, ancora, Giovanni Gronchi il quale, durante la sua permanenza al Quirinale, cercò di svincolarsi dagli schemi classici della politica estera del governo fino al punto di innescare un vero e proprio scontro istituzionale e da allarmare gli alleati occidentali.
In sostanza – mentre, a livello internazionale, cominciava a manifestarsi e prendere corpo un nuovo clima, per certi versi “distensivo”, del quale erano sintomi significativi, fra gli altri, la Conferenza di Ginevra del 1955, la fine dell’occupazione quadripartita dell’Austria, la firma del Trattato di pace austriaco, l’ammissione dell’Italia all’ONU – finirono per scontrarsi, come si è detto, i sostenitori di una linea fortemente atlantica ed europeista e quanti ritenevano necessario cercare strade che consentissero all’Italia di avere una maggiore libertà d’azione pur nel quadro di un saldo ancoraggio all’Occidente. Agitato da quanti, a vario titolo, si proponevano di scardinare le rigidità della politica estera degasperiana, il disegno di una nuova politica mediterranea si rafforzò all’epoca della crisi di Suez del 1956.
La politica mediterranea, per un verso, solleticava le suggestioni di quanti sognavano un ritorno della grande Italia in termini nazionali, ma, per un altro verso, fungeva da stimolo per quanti, soprattutto nel mondo socialista e nei partiti laici minori ma anche nella sinistra della DC, accarezzavano progetti terzaforzisti. Sconfitta, infatti, l’ipotesi neutralista con la ratifica del Patto Atlantico, era in qualche modo sopravvissuta nel mondo politico italiano una corrente terzaforzista che, scomparso De Gasperi, ritenne di poter dare un impulso al ruolo internazionale dell’Italia affiancando alle opzioni imposte dalla guerra fredda nuove direttrici di espansione sia politica che territoriale.
Il cosiddetto “revisionismo atlantico” o “neoatlantismo” (per usare la celebre espressione coniata da Giuseppe Pella nel 1957) ne fu di fatto l’espressione, non solo come strumento utilizzato da «una parte consistente del mondo politico ed economico italiano» per tentare di «marcare una maggiore autonomia della nostra politica estera» ma anche come mezzo per «tentare di recuperare, in qualche modo, quel ruolo di “media potenza” smarrito con la sconfitta nella seconda guerra mondiale» (Mammarella e Cacace). Si trattò di un fenomeno nel quale, com’è stato osservato, si mescolavano un «pacifismo atlantico» e un «nazionalismo mediterraneo» e che divenne una sorta di punto di coagulo di iniziative eterogenee le quali avevano in comune «la ricerca, sovente velleitaria, di un’azione originale nella condotta della politica estera» (Mammarella e Cacace).
Principale interprete del “neoatlantismo” e di questa auspicata nuova politica mediterranea fu Giovanni Gronchi, il quale, nella prima parte del suo settennato al Quirinale, fece diverse discusse incursioni nel campo della politica estera, tra le quali è rimasto celebre, per le polemiche che comport , il tentativo di inviare nel 1957 una lettera, poi bloccata dal ministro Gaetano Martino, all’allora presidente americano Dwight D. Eisenhower, lettera con la quale auspicava un nuovo partenariato italo-statunitense per il Medio Oriente.
Queste “aspirazioni mediterranee” trassero ulteriore alimento dagli indiscutibili successi economici registrati da alcune imprese italiane. Dalla fine degli anni ‘50, per esempio, l’ENI concluse importanti accordi economico-commerciali con la Libia, la Tunisia, l’Egitto. Si trattava di accordi che, prevedendo la cessione del 75% dei profitti al Paese dove si effettuavano le ricerche, si rivelarono assai favorevoli per questi Stati, dal momento che si offriva loro la possibilità di svincolarsi dalla morsa delle principali compagnie occidentali, la cui attività era sempre più spesso vista come uno sfruttamento. A tutto ci si aggiungevano le suggestioni religiose e culturali di Giorgio La Pira, cui si dovette il ripensamento del Mediterraneo come spazio di confronto tra le principali religioni monoteiste.
All’attivismo della diplomazia economica e culturale si accompagnarono numerose iniziative politiche e diplomatiche in senso proprio. Già nel 1960 si ebbe la prima visita ufficiale in Marocco di Segni e Fanfani: un evento di rilievo per i risultati concreti che ne derivarono (come l’Accordo sulla pesca nel Canale di Sicilia), ma anche per l’avvio ufficiale, da parte italiana, di una “politica della comprensione” verso i Paesi di nuova indipendenza destinata ad assumere sempre maggiore importanza. Le aperture nei confronti dei Paesi mediterranei e del mondo arabo rispondevano, sì, alla volontà di far guadagnare spazi operativi all’Italia, magari sottraendoli alla Francia, ma anche all’aspirazione della leadership democristiana di testare, sul terreno della politica internazionale, la possibilità di una convergenza con i socialisti. E, non a caso, uno dei principali punti di incontro tra democristiani e socialisti riguardò le modalità di approccio al processo di decolonizzazione.
Con la formazione del primo governo organico di centrosinistra, presieduto da Aldo Moro, nel dicembre del 1963, anche la politica estera italiana sembrò giunta al giro di boa. Sebbene con sguardo retrospettivo si possa concludere come di fatto ben poco fosse in realtà cambiato, il centrosinistra venne percepito come un momento di svolta anche per la collocazione internazionale del Paese. Fedele alla scelta euro-atlantica, l’Italia dei primi anni Sessanta sembrò aspirare a un ruolo più attivo sullo scacchiere internazionale, immaginandosi come ponte sia tra Est e Ovest sia tra Nord e Sud del mondo. Proprio lungo questa seconda direttrice si collocò la politica mediterranea e mediorientale che Fanfani e Moro perseguirono con vigore maggiore rispetto ai loro predecessori.
Al crescente attivismo nella questione israelo-palestinese, la diplomazia italiana affiancò un non minore dinamismo nel più vasto contesto mediterraneo e mediorientale. A partire dal 1970 cominciò a delinearsi una cauta azione diplomatica volta a creare un raccordo tra la sponda Sud del Mediterraneo e i Paesi del Medio Oriente, da un lato, e l’Europa comunitaria, dall’altro lato: le visite di Moro in Marocco, Turchia, Egitto e Tunisia e l’incontro a Roma con Abba Eban si collocarono proprio in tale cornice. E allo stesso schema è, pure, riconducibile il riconoscimento del nuovo regime libico effettuato dall’Italia, prima fra gli altri Paesi, dopo il colpo di stato che portò Gheddafi al potere.
Contestualmente all’azione mediterranea, Moro sollecitò una politica attiva nei confronti dell’area mediorientale propriamente detta avviando, in sintonia col nuovo orientamento filo-arabo del suo partito, iniziative di cooperazione con i principali Paesi dell’area – Egitto, Iraq, Algeria, Arabia Saudita – ma cercando, al tempo stesso, di mantenere i buoni rapporti con Israele. Il suo fu uno sforzo teso a bilanciare forze contrastanti: uno sforzo che lo spinse a ribadire la centralità delle Nazioni Unite, affiancate dall’Europa comunitaria, per la gestione, la pacificazione e lo sviluppo dell’area. In linea con tali direttrici di marcia, egli continuò a tessere una sottile trama diplomatica per organizzare, fra l’altro, una conferenza per il Mediterraneo la cui proposta venne formalizzata al Consiglio Atlantico di Bonn del 30-31 maggio 1972. In quella sede l’Italia fece presente la necessità di dare vita a un incontro, sul modello della CSCE, in grado di collegare in un quadro unitario i problemi di sicurezza dell’Europa centrale e quelli del Mediterraneo. Dietro tale iniziativa c’era la convinzione o la speranza che, oltre ad accrescere il suo livello di integrazione nei due contesti regionali, l’Italia sarebbe potuta assurgere a potenza di collegamento tra i due mondi assumendo così un “peso determinante”.
La guerra dello Yom Kippur portò a un approfondimento dei rapporti con gli arabi. La diplomazia, ispirata da Moro, assunse in modo sempre meno velato le parti degli egiziani, e l’Italia pose il problema dei territori occupati con la guerra dei Sei Giorni. Moro si fece promotore di iniziative, in qualche misura audaci, come le dichiarazioni a sostegno dei diritti dei palestinesi o il voto favorevole (insieme con la Francia) sulla partecipazione di Arafat al dibattito sulla Palestina alle Nazioni Unite o, ancora, l’impegno per la Dichiarazione CEE sul Medio Oriente. Tali iniziative, oggetto di critiche tutt’altro che velate da parte degli Stati Uniti, contribuirono a guadagnare all’Italia la stima di buona parte del mondo arabo.
Il rilancio della politica estera italiana nei confronti del mondo arabo prese avvio dalla seconda metà degli anni ‘70, dapprima limitatamente alla sponda mediterranea poi gradualmente esteso all’intera area mediorientale. Con l’accordo tra Libia e FIAT l’Italia si aprì alla penetrazione finanziaria da parte dei Paesi esportatori di petrolio, i quali, grazie alle decisioni del 1973, disponevano ormai di un surplus di capitali non collocabili nei loro Paesi per la mancanza di un sistema economico in grado di assorbirli. In questo quadro, maturarono iniziative per trasformare il Medio Oriente in un mercato per le esportazioni italiane ed ebbero luogo, a ciò finalizzati, diversi incontri dei responsabili della politica economica e commerciale oltre che della politica estera italiane con i governanti dell’area.
Da un lato, si ebbero riscontri positivi sul piano economico, ma, da un altro lato, sul versante finanziario, se ne registrarono di più modesti soprattutto per il tentativo di dirottare i petrodollari sulle piazze italiane. Risale a questo periodo un episodio rivelatore dell’esistenza di forti limiti a una effettiva autonomia dell’iniziativa italiana nella zona ed è quello degli aerei G222, possibile oggetto di un accordo con la Libia, saltato per l’opposizione degli Stati Uniti. Tuttavia, nonostante l’esistenza di limiti oggettivi e nonostante incoerenze od oscillazioni nell’azione politico-diplomatica, l’Italia riuscì a conseguire risultati concreti, beneficiando di circostanze favorevoli come, per esempio, la firma degli Accordi di Camp David tra Egitto e Israele, che alleggerirono, per qualche tempo, il problema della scelta tra i campi contrapposti, arabo e israeliano.
Il sia pur temporaneo appianamento di alcune tra le principali controversie esistenti, l’atteggiamento moderato dell’Amministrazione americana fecero sì che, a partire dai primi anni ‘80, l’Italia riuscisse a riprendere e a sviluppare la propria iniziativa nell’area mediorientale e mediterranea. La conduzione di una politica più incisiva e qualitativamente valida venne agevolata dal rasserenarsi del quadro economico: la “grande paura” della chiusura dei rubinetti petroliferi diventò un lontano ricordo, le iniziative di collaborazione energetica dettero i primi frutti (il gasdotto transmediterraneo venne ultimato nel 1982), si profilò un maggior grado di concorrenza tra produttori energetici. L’Italia, inoltre, poté beneficiare di un ulteriore vantaggio derivante dalla sua sovraesposizione verso alcuni Paesi, soprattutto Libia e Algeria, e poté avviare un serrato dialogo con i Paesi arabi moderati, accompagnato da una presa di distanza dalla politica israeliana.
In questo clima, la dichiarazione assunta dal Consiglio Europeo di Venezia sotto la presidenza italiana nel giugno 1983 – che ravvisò la necessità di associare l’OLP al negoziato di pace in quanto parte in causa – fu vista come un successo per l’Italia, fu ben accolta in tutte le capitali del mondo arabo e le permise, inoltre, di assurgere a partner ideale degli Stati Uniti per la gestione e la pacificazione dell’area, come fu poi dimostrato dalla partecipazione alla forza multinazionale inviata nel Sinai. Tale missione funse da prova generale del ben più grande impegno preso di lì a poco: la partecipazione alla forza multinazionale di pace in Libano. Per la capacità di gestire situazioni difficili e di interagire con la popolazione civile, gli italiani si guadagnarono meritatamente la fama di essere i migliori soldati di pace.
Con gli anni ‘80 l’Italia cominciò a confrontarsi con il fenomeno del terrorismo internazionale proveniente dall’area mediorientale. Si trovò a vivere a contatto diretto con esso. Il 7 ottobre 1985 avvenne il sequestro della Achille Lauro da parte di terroristi palestinesi, vicenda che portò a una contrapposizione tra Italia e Stati Uniti sfociata nella crisi di Sigonella. Ma il terrorismo internazionale, al di là dei singoli episodi e delle loro ripercussioni immediate sulle scelte politico-diplomatiche, contribuì a modificare l’immagine dell’area mediterranea, presto divenuta centro di un vero e proprio “arco di instabilità” destinato a sopravvivere anche alla fine della guerra fredda.
L’Italia, in questo scenario, non riuscì a realizzare quel ruolo di grande mediatore tra Occidente e mondo mediterraneo e mediorientale cui aveva sempre puntato, ma – come ha osservato Luigi Vittorio Ferraris – caratterizzò la propria azione con un notevole grado di autonomia e con attenzione alle questioni strategiche e di difesa. La decisione di partecipare alla prima missione UNIFIL in Libano e il crescente attivismo diplomatico per promuovere un’azione della Comunità Europea in alcune questioni problematiche, come per l’appunto il Libano ma anche la guerra Iran-Iraq, rappresentarono il segno di una rinnovata coscienza italiana del proprio ruolo.
La politica mediterranea italiana degli anni Ottanta è indissolubilmente legata alla figura di Bettino Craxi e a quella di Giulio Andreotti. Fu il leader socialista che ridefinì il ruolo dell’Italia come “potenza regionale”, in quanto tale dedicata a iniziative specifiche nei confronti dei Paesi del Mediterraneo, dei Balcani, del Medio Oriente e del Nord Africa. Gli anni Ottanta, invero, non portarono alla fine delle contraddizioni tra ortodossia atlantica e slanci filoarabi, come dimostrò la rammentata crisi di Sigonella del 1986. Non mancarono, neppure, iniziative generose, anche se talora velleitarie, per affrontare la questione palestinese.
L’Italia si impegnò per favorire un accordo tra israeliani e palestinesi, i cui rapporti erano gravemente degenerati (nel dicembre del 1987 scoppi la grande intifada nei territori occupati) e cercò di sviluppare un’azione intensa tanto sotto il profilo del dialogo con i principali attori dell’area quanto sotto il profilo della ricerca e dell’indicazione di proposte di pace alternative. E basterà, in proposito, ricordare l’idea di una confederazione giordano-palestinese attraverso la quale garantire la sicurezza di Israele e una patria per i palestinesi. Anche se non ebbero l’esito auspicato, queste iniziative mostrarono come, a differenza di quella dei decenni precedenti, la politica mediterranea e mediorientale dell’Italia fosse caratterizzata da un elevato livello di autocoscienza del proprio ruolo.
Proprio questa rinnovata autoconsapevolezza permise all’Italia di affermarsi come un Paese rilevante nel contesto mediterraneo durante la transizione dalla guerra fredda al nuovo ordine mondiale. Nonostante i molti problemi posti dalla fine del confronto bipolare, essa mantenne le sue posizioni e riprese l’iniziativa negli anni Novanta. La sua linea d’azione politicodiplomatica si adatt alle evoluzioni che caratterizzarono le relazioni internazionali e le dinamiche specifiche dell’area. Da un punto di vista generale la fine del confronto bipolare accentu l’importanza complessiva di quell’ampio settore geopolitico che è il “Greater Middle Est”, concetto – introdotto per la prima volta nell’Atto finale di Helsinki del 1975 e divenuto di moda all’epoca dell’Amministrazione di George W. Bush – indicativo della rinnovata importanza, tanto strategica quanto economica, attribuita dagli Stati Uniti all’area.
Fu soprattutto a partire dal 2001, quando l’emergere dirompente della minaccia terroristica internazionale mutò il quadro generale dei rapporti tra aree globali, che la politica estera italiana nei confronti del Mediterraneo e Medio Oriente si trovò ad affrontare crescenti criticità. I governi guidati da Silvio Berlusconi hanno bilanciato la tradizionale politica filoaraba degli anni precedenti alla guerra fredda con una politica di forte sostegno a Israele, dettata tanto dalla convergenza con l’orientamento filo-israeliano dell’Amministrazione americana quanto dalla sincera convinzione dell’importanza del legame ideale e politico con Tel Aviv.
Nell’attuazione di questa politica i governi italiani del decennio appena trascorso hanno perseguito l’obiettivo comune della lotta al terrorismo e all’instabilità subordinando talora ad esso anche l’immediato interesse nazionale: scegliendo di concentrare i suoi sforzi nell’area del Medio Oriente l’Italia ha infatti distolto risorse dalla sua politica mediterranea, pur essendo quest’ultima potenzialmente più rilevante per gli operatori economici nazionali e più in generale per il Sistema Paese. Ma tutto ci conferma che la proiezione verso il Mediterraneo e Medio Oriente rappresenta oramai una costante della politica estera italiana.
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