Le riviste fiorentine di inizio Novecento (seconda parte)
di GIAMPIERO MARANO (FSI Varese)
Nel 1908 Prezzolini dà vita a una nuova pubblicazione: il settimanale (in seguito diventato quindicinale) “La Voce”, che dirige fino al 1914, quando gli subentra, fino alla cessazione delle pubblicazioni avvenuta un paio di anni più tardi, il critico letterario Giuseppe De Robertis.
Il titolo suggerito da Ardengo Soffici allude, come spiega il fondatore, alla “voce dell’ispirazione poetica e filosofica”; e in effetti il periodico, che diventerà a un certo punto “rivista d’idealismo militante”, ospita testi di poeti come Campana, Palazzeschi e Rebora, autore, quest’ultimo, di enorme forza conoscitiva e tensione etica del quale escono presso le edizioni della Voce i Frammenti lirici: “Sopra gli uomini, in vere leggi pure, / Accomuna il mistero della sorte / Allegrezze e sciagure: / Del male è il bene più forte”.
La Libreria della Voce pubblica anche Il mio Carso di Scipio Slataper, intenso diario di un passaggio al bosco, di una conquista della selvatichezza che non si traduce in evasione ma prelude al rinsaldamento dei vincoli intersoggettivi. Il riconoscersi come “una dolce preda desiderosa d’inghiottirsi nella natura” non esclude il bisogno di tornare nella comunità degli uomini, e anzi lo alimenta: “La patria è laggiù. Bisogna ch’io sia fratello d’altre creature che tu non conosci, che io non conosco, monte Kal, ma vivono unite laggiù dove calano le nuvole turgide di piova”.
“La Voce”, che è stata la principale rivista italiana del Novecento, si propone un obiettivo ambizioso: aggregare l’élite degli “intelligenti” (Slataper), dei lungimiranti – “noi occhichiari”, dice Boine ,- sia pure di estrazione eterogenea (vi collaborano, per citare alcune firme note e prestigiose, anche Croce, Einaudi, Salvemini, Murri), che dovranno formare la nuova classe dirigente e rimpiazzare la vecchia, “un miscuglio nauseante di inetti, di scettici e di faccendieri senza fede e senza coscienza” (G. Amendola). Di qui la forte estroversione della rivista, che affronta e approfondisce i temi di più bruciante attualità in quegli anni (e non solo): la questione meridionale, la scuola, l’università, l’analfabetismo ecc.
Ma l’avanguardia vociana appare troppo affascinata dai miti incandescenti della vita e dell’azione, troppo impaziente di inchiodare a proprie leggi il caos della modernità, come scrive Piero Jahier: “Subito tutti i grandi dolori – subito tutti i sacrifici / – subito le consolazioni – / – subito tutti i tempi – subito tutti i suoni – / subito tutta la vita”.
La più recente delle riviste fiorentine di inizio secolo è il quindicinale “Lacerba”, fondato da Papini e Soffici, il cui titolo si ispira al poema incompiuto L’acerba di Cecco d’Ascoli, il rivale di Dante processato per eresia e condannato al rogo proprio a Firenze. “Lacerba” teorizza e pratica la letteratura come espressione dell’Io creatore assoluto, della “genialità indipendente che se ne strafotte della storia, della tradizione, dei doveri sociali e del concetto puro” (G. Papini).
Oggetto di un’aspra contestazione è perciò la filosofia di Croce, “quintessenza del perfetto borghesismo civile e spirituale”, scrive ancora Papini, alla quale i lacerbiani oppongono “la poesia libera e pazza” che rifiuta di adorare e imitare il passato. Da queste premesse avviene l’adesione della rivista al Futurismo, anche se i rapporti con Marinetti si incrineranno ben presto: “Lacerba” pubblica testi dello stesso Marinetti, di Boccioni, Carrà, Sant’Elia, come pure di Apollinaire, Palazzeschi, Govoni, avvicinatisi in quegli anni al movimento futurista.
Testimonia un individualismo ostinato il discorso che Papini, invitato da Marinetti, legge al teatro Costanzi di Roma davanti a tremila indisciplinatissimi spettatori, denunciando gli “effetti spaventosi” del revival religioso e del ritorno all’idealismo, che subordinano a Dio o allo Spirito “l’uomo solo, l’uomo nudo, l’uomo che sa camminare da sé, l’uomo che non ha bisogno di promesse e di conforti”.
Più interessante è il manifesto futurista di Palazzeschi, Il controdolore, che si apre con una riflessione, profonda nella sua intenzionale apparenza di giocosità, sulla gioia cosmica (“Uomini, non siete creati, no, per soffrire; nulla fu fatto nell’ora di tristezza e per la tristezza; tutto fu fatto per il gaudio eterno”) e si chiude enunciando il proposito di guarire gli Italiani dal “romanticismo cronico, dall’affettività mostruosa e dal sentimentalismo pietoso”, di distruggere il “fantasma (…) delle cose dette gravi”.
Con i futuristi e con i seguaci di D’Annunzio e Mussolini “Lacerba” condivide l’acceso nazionalismo e l’interventismo: non a caso, è proprio l’entrata in guerra dell’Italia nel maggio 1915 a decretare la fine della rivista, mentre tutta una generazione di giovani intellettuali rimane travolta dalle forze oscure, ctonie, evocate così intensamente.
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