Vanini e la teologia economica bocconiana
Trascrizione parziale dell’intervento di Diego Fusaro durante la presentazione del suo libro “Coraggio” (Raffaello Cortina, 2012), svoltasi il 22 giugno 2012 a Taurisano (Le), presso la casa natale di Giulio Cesare Vanini. La trascrizione è stata eseguita da Mario Carparelli e rivista da Diego Fusaro.
di Diego Fusaro 20 centesimi Parola di filosofo
Viviamo in un’epoca del coraggio oppure no? Io credo che se l’epoca dei greci era l’epoca del coraggio per eccellenza e la modernità invece tende a essere un’epoca centrata su altre virtù, a voler essere benevoli, oggi invece viviamo in un’epoca totalmente post-eroica in cui del coraggio non c’è più nulla. Viviamo nell’epoca in cui trionfano altre virtù, se volete, in cui trionfa l’adattamento, in cui trionfa la rassegnata accettazione.
Basta fare anche una rapida incursione nella costellazione semantica della filosofia oggi più in voga e vi accorgerete che trionfano quelle che sono state giustamente definite le “passioni tristi” con stigma spinoziano: disincanto, cinismo, rassegnazione, accettazione dell’esistente. Mai coraggio, naturalmente. Mai coraggio.
Viviamo appunto nell’epoca anti-eroica in cui il più grande imperativo, il più grande credo della nostra epoca è quello di accettare l’esistente così com’è. Potremmo dire: il comandamento del nostro tempo è quello “non avrai altra società all’infuori di questa”.Quindi viene destrutturato il presupposto stesso del coraggio, che è quello di agire, nonostante tutto, in vista di qualcosa di diverso e di migliore.
Gli intellettuali, oggi, altro che essere intellettuali vaniniani o fichtiani! Sono intellettuali totalmente organici al capitale, direbbe Gramsci, totalmente organici alla strutturazione reale e simbolica dell’esistente.
Oggi la funzione di apologetica dell’esistente non è compiuta da sacerdoti o monaci: è compiuta dagli operatori dei mass media, dai giornalisti, dagli intellettuali che duplicano incessantemente a livello simbolico la realtà così com’è, presentandola appunto con i tratti degl’intrascendibilità, della fatalità, della destinalità e così via.
Il mondo capitalistico, come sapete, non pretende mai di essere il migliore possibile, ma semplicemente nega in partenza la possibilità di alternative, questa è la contraddizione: convince le nostre menti di essere in qualche misura il solo mondo possibile. Autoelimina le possibili alternative. Questo è il grande problema dell’ideologia come lo identificava Marx. Cioè l’ideologia rende naturale ciò che è invece storico e sociale. Questo fa. Fa esistere la borsa, le leggi, le istituzioni economiche con lo stesso statuto ontologico di montagne, alberi, di cose della natura che non possono essere criticate né tanto meno trasformate.
Per cui allora qual è il coraggio fondamentale, oggi, nell’epoca post-eroica, nell’epoca della viltà generalizzata, potremmo dire. Dal mio punto di vista, il coraggio, oggi, sta anzitutto nel riprendere la funzione critica della filosofia, nel ritornare a Vanini, se volete; nel ritornare a Fichte e a Spinoza, i più grandi pensatori moderni del coraggio, ma poi anche tornare ai greci e alla civiltà del coraggio.
Appunto, il grande gesto del coraggio oggi deve essere quello di dire di no, di cercare una ulteriorità nobilitante rispetto all’esistente.
Una prima forma di coraggio – perché bisogna sempre partire dalle cose piccole per poi avere delle trasformazioni in grande – secondo me, una grande forma di coraggio ,oggi, e mi rivolgo soprattutto ai giovani, è quella di iscriversi a filosofia all’università, ad esempio. Perché ci vuole coraggio, appunto. Perché fin dal liceo venite continuamente bombardati con una forma di terrorismo psicologico per cui “chi si iscrive a filosofia non trova posti di lavoro, fate economia!”, cioè la teologia del nostro tempo.
La teologia oggi non è quella che appunto combatteva Vanini. Se oggi Vanini fosse in vita, secondo me, combatterebbe la teologia economica bocconiana nei governi tecnici. Quella è la teologia: il monoteismo del mercato, i mercati, le borse, in cui appunto stiamo di fronte alla borsa come se fosse qualcosa che non abbiamo prodotto noi. Voglio dire: l’abbiamo posta noi, possiamo anche toglierla.
Viviamo in maniera ineluttabile le leggi che abbiamo posto noi in essere. Questo è il paradosso del feticismo, come lo chiamava Marx. Per cui chi si iscrive a filosofia oggi fa già un gesto di grande coraggio, di grande rifiuto integrale di questo orrore, di questa “compiuta peccaminosità”, come la chiamava Fichte, in cui siamo situati. Iscriversi a filosofia già è questo, è già mettere in discussione l’intrascendibilità dell’esistente. Per cui appunto il coraggio è sempre coraggio filosofico e si inizia appunto a essere coraggiosi quando si fa filosofia.
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Sugli intellettuali si può fare un discorso più ampio, perché li vediamo operativi continuamente intorno a noi. E mi piaceva soprattutto ricordare a questo proposito la definizione che degli intellettuali dava il grande filosofo e sociologo francese Pierre Bordieau il quale diceva che “gli intellettuali sono la parte dominata della classe dominante”. Cosa vuol dire questo? Vuol dire che gli intellettuali sono in qualche misura dominanti, perché hanno un capitale culturale, quindi sono al di sopra di chi non ha nulla, di chi è ignorante, potremmo dire, ma sono anche dominati, all’interno della classe dominante, perché devono vendere il loro capitale culturale appunto ai capitalisti al potere. E quindi questo capitale culturale non può mai confliggere con l’ordine del potere funzionale al mantenimento dell’apparato capitalistico. E quindi ecco svelato l’arcano: deve sempre essere in qualche misura, interno, organico a questo sistema.
A me quello che stupisce sempre quando penso al processo di Vanini, ma anche di Bruno, è una cosa. Ovviamente mi stupisce moltissimo il trattamento: uno che pensa certe cose viene perseguitato e messo a morte. Un’indignazione morale totale quella che suscita in noi questo. Però penso anche a quanto fosse debole un sistema politico di quel tipo, che doveva mettere a morte chi la pensava diversamente. Oggi invece uno può pensare tutto quello che vuole. Può pensare anche che viviamo nel peggiore dei mondi possibili, che il capitalismo procura asservimento, precariato, schiavitù salariata. Può dirlo anche in pubblico, tanto non gli capita nulla. Perché questo è il totalitarismo perfetto. È quello che assimila immediatamente anche la critica. È quello che metabolizza la critica e che potremmo dire, come già diceva Adorno, “rende merce anche la critica stessa”.
Non a caso abbiamo libri, compresi i miei, lo dico subito, che sono ipercritici verso il capitalismo e vengono messi in commercio dal capitalismo stesso. Questo è il totalitarismo perfetto: morbido, flessibile, accomodante, accogliente, permissivo. Ci pone tutti nella condizione dei carcerati che amano la cella in cui sono imprigionati.
Questo deve dire la filosofia oggi. Deve dire che questo è il mondo della “compiuta peccaminosità”, come diceva Fichte, o il mondo dell’”animalità dello spirito”, come diceva Hegel. Ogni filosofia che dica che questo mondo, tutto sommato, non va male, come le filosofie di certi intellettuali che scrivono su “Donna Moderna” anche, che dicono che questo mondo è il mondo della tecnica – perché loro parlano sempre con frasi heideggeriane – è terribile, ma è il solo possibile, non possiamo farci nulla. Ogni tentativo di cambiarlo, fallisce. Mi viene in mente quella canzone degli anni ‘60 di Bobby Solo: “è stato bello sognare, non c’è più niente da fare”.
Questi intellettuali sono i peggiori, secondo me, perché fanno la critica radicale del mondo in cui vivono e poi la disinnescano dicendo che è il solo possibile. Lukács li chiamava già a suo tempo “gli intellettuali del grande hotel abisso”, quelli che stanno nel comfort delle stanze dell’albergo, ogni tanto si affacciano sull’abisso e poi si ritraggono impauriti nell’agio delle merci e dei comfort del loro hotel. Eccoli qua gli intellettuali, voilà sono questi.
Oggi si tratta di riscoprire il coraggio della “parresia”, come la chiamava Foucault, cioè sbattere la verità in faccia al potere. Ma questo non basta, ci vuole poi la conseguente azione che deve seguire a questa “parresia”, cioè “agire agire agire”, come diceva Fichte, agire socialmente per cambiare lo stato di cose.
Non ci si venga a dire che il mondo del precariato, il mondo senza futuro, il mondo che ci condanna all’orizzonte unico della merce, in cui tutto diventa merce anche a livello immaginativo e simbolico – debiti e crediti nelle scuole, l’azienda Italia, il capitale umano e queste cose qui – sia un mondo tollerabile. È il mondo della totale peccaminosità e come tale deve essere denunciato e poi contrastato in maniera politica, secondo me. Per questo lo ripeto: Vanini, se fosse vivo, cosa farebbe? Come manifesterebbe il suo coraggio? Dicendo di no al potere ovvero al monoteismo idolatrico del mercato, la dittatura finanziaria, il fanatismo dell’economia.
Non credo che i tempi moderni siano all'insegna dell'epoca "totalmente post-eroica".
Tant'è che l'eroe romantico oppure l'Ubermansch di Nietzsche sono…eroi. Gente che, nel nome della modernità (o contro di essa) sono capaci di accollarsi, novelli Gesù, tutti i mali dell'umanità e risolverli (o almeno provarci). O eroi nietzschiani che si collocano al di fuori della scatola entro cui siamo tutti costretti a vivere (monoteismo di mercato, feticismo delle merci etc..).
Diverso è l'eroe postmoderno che si iscrive a filosofia per motivi imperscrutabili e certamente non commerciali. Non sono sicuro che si possa chiamare eroe, ad essere precisi. Perchè non sono convinto che una laurea in filosofia sia l'antidoto contro il "monoteismo idolatrico del mercato, la dittatura finanziaria, il fanatismo dell'economia". Forse tale laurea rappresenta solo il "totalitarismo perfetto" che ci fa amare la cella in cui siamo costretti a vivere, per riprendere l'articolo. Una laurea in filosofia fa figo.
Il che non fa che spostare la domanda: ma allora se neanche una laurea in umanesimo riesce a sconfiggere (agire agire agire) il totalitarismo che ci attanaglia, quale sarebbe la soluzione? Personalmente non credo esista un'unica soluzione, ma molte. L'importante è riuscire a sostituire il sogno modernista (ormai trasformatosi nel peggior incubo) con qualcosa che ci lasci sperare in una maturità responsabile. Poi qualcosa succede.
Il recupero della prassi,l'accoglimento della possibilita' ontologica data ad ognuno di noi di trasformare il mondo e noi stessi,rimuovere quei non-io fichtiani che oggi si chiamano spread,spending review o come cavolo si scrive!Ma soprattutto non farsi vincere dall'immutabilita'apparente di questa societa', che e' "indotta" artificialmente attraverso "affascini" mediatici,pseudo-eventi spacciati per eventi reali,proprio per annichilire e rendere impossibile il raggiungimento di una responsabile maturita' politica,sociale ed umana.
gli intellettuali non parlano di rivoluzione, quello è il loro problema attuale, cioè non contemplano la trasformazione radicale tra le concrete possibilità di progettazione condivisa di esistenza .
zizek o negri non fanno testo, fanno trend, convinti come sono che compito loro sia di guidare una onirica prassi sociale antagonista. in questo senso rimangono perfettamente compatibili con l'industria culturale.
ma è sempre e solo della prassi sociale il privilegio del movimento trasformativo reale, e in questo momento essa non riesce neanche ad immaginare un'alternativa praticabile all' economia politica tal quale. Questo la dice lunga sulla debolezza dei dominati -dall'Italia alla Cina, dalle classi storicamente dominate al ex ceto medio.
questa situazione infine risulta come semplice miserevole rispecchiamento dello zeitgeist: il tempo in cui si sprecano le proposte per rendere più sostenibile socialmente il capitalismo occidentale in crisi.