Carlo Arturo Jemolo: In tema di unità europea (Il Ponte,1967)
In questa pagina di uno dei più illustri giuristi, politici e intellettuali del novecento italiano era già tutto scritto. Non pre-visto ma visto, perché le unioni politiche, come il gigante Jemolo ben sapeva, si generano, eventualmente, se preesistono taluni elementi, che nel nostro caso mancavano e mancano. Risulta sempre più evidente come l’ideologia europeista, ventotenista, federalista sia stata nel tempo un ampio e potente sostegno ideologico alla realtà dell’antisovrano liberal-capitalistico servile alleato degli Stati Uniti, che è da sempre la vera natura dell’Unione europea.
Leggo sempre con una certa commozione fogli di giovani, che danno opera per la diffusione della idea europeista, per creare organi dell’Europa, per stabilire una solidarietà d’interessi, cercando di allacciare tra loro non solo i governi – di cui è nota ed umana la riluttanza i cedere parte dei propri poteri – ma i Comuni, le istituzioni culturali. «Civiltà europea» è sempre alle nostre orecchie un termine augusto, una fiamma che per nulla al mondo vorremmo vedere impallidire. Ogni apporto al mantenimento ed alla diffusione di questa civiltà, e così di una comunione di vita culturale, di una sempre maggior conoscenza di quanto si compie oltre frontiera, non può non trovare pieno consenso. L’equivoco che occorre evitare è quello di operare un facile passaggio da unità culturale a rafforzamento di legami politici.
Un consequenziario potrà ben affermare che unità di cultura deve sboccare in unità di abiti mentali, e pertanto di esigenze, di medesimi apprezzamenti su ciò che le leggi debbano portare, sulle riforme sociali da introdurre; ma una costante esperienza ci dice che non è così, che lo stesso clima culturale nero ha affatto, il più delle volte, generato unità legislativa né politica. Ed a chi obiettasse che si trattava di unità culturali che toccavano soltanto ristretti ceti, sarebbe agevole rispondere ch’erano quelli i ceti che costituivano la classe politica, che davano vita alle leggi, impulso o limitazioni alla economia.
Ora si può tutti desiderare che gli Stati cedano sempre maggiori parti di quella loro sovranità cui sono così strenuamente attaccati, che si costituiscano organi superstatali per dirimere controversie, per dare vita ad opere per cui ormai le risorse di un singolo Stato appaiono inadeguate. Si può essere fautori di comunità del carbone ed acciaio, di comunità atomiche, di mercati comuni, e soprattutto di organi di arbitrato. Ma è al destinatario di queste cessioni, che occorre guardare; al tipo di comunità o di organo che si verrà a costituire, ed a chi avrà in esso la maggioranza, il potere di decidere.
L’Onu ha fin qui dato una prova sufficientemente buona, appunto per l’equilibrio che a costo di una serie di transazioni si è riuscito a mantenere tra gli Stati, numerosissimi, appartenenti all’uno od all’altro gruppo, ma in parte anche estranei ad entrambi. Il sistema di veto in esso esistente, se ne diminuisce l’efficacia, rappresenta probabilmente una necessità.
Le singole comunità economiche hanno fini molto ben circoscritti. Chi le osserva in dettaglio, resta piuttosto scettico intorno alla proporzione tra gl’ingenti mezzi, gli alti costi (stipendi elevati, viaggi, trasferte, conferenze), ed i risultati raggiunti. Ha l’impressione che nel gioco continuo tra i governi che ad ogni accenno a lesione d’interessi dei loro nazionali (industriali o commercianti o trasportatori o lavoratori) cercano di eludere gli accordi, e gli organi comunitari, siano i primi ad avere successo. Quegli organi non hanno reale potere, ed hanno invece la ferma intenzione di sopravvivere, di evitare recessi di Stati.
Ma è forse lo sguardo miope di chi vuol vedere troppo da vicino, ed è possibile che il lento cammino di queste comunità porti frutti benefici, contemperi interessi (se pure difficilmente il contemperamento potrà essere diretto dall’alto, e se non appaia infondata in materia economica la preoccupazione che si stia rendendo piú organica e piú facile la pressione delle grandi forze economiche sui governi).
Ma ben più temibile è la formazione di una comunità, che si dica europea, ma in effetto non comprenda che una parte dell’Europa, che non abbia fini ben delimitati, ma anzi si proponga quell’azione politica, che per sua natura non consente confini sicuri, e fruisce di un reale potere. Che per un qualsiasi raggruppamento, che non abbia limitati scopi tecnici, ma voglia svolgere un’azione politica, occorra una certa omogeneità, proprio sul terreno politico; tra quelli che debbono esserne gli appartenenti, sembra ovvio. Ma è pur naturale che il raggruppamento assuma cosí la funzione di un patto tra forze politiche omogenee, decise a sostenersi reciprocamente, ad ostacolare ogni rovesciamento di posizioni nell’interno dei singoli paesi. Coalizioni di questo genere la storia ne ricorda più d’una; se non si chiamavano unità europea, tutte però si facevano vanto di voler superare gli stretti confini delle monarchie o delle nazioni. Il ricordo non ne è lieto.
Coalizioni di governi. Perché è mera lustra parlare di parlamento europeo, di elezioni popolari di questo parlamento, di fronte alla realtà di masse che ignorano del tutto la vita politica dei paesi vicini, che non saprebbero neppure enunciare il nome di un uomo di parte di tali paesi, alla realtà di popoli che sentono diffidenza l’uno per l’altro, e che non avvisano di avere interessi comuni, ma molto piú avvertono le antitesi, di schieramenti politici niente affatto omogenei nei vari Stati, di qualche Stato che ha pur messo fuori legge partiti che in altri hanno un notevole numero di seguaci.
Ed è una lustra che ne parlino governanti che non hanno la piú lontana intenzione di rinunciare a dirigere la vita del loro paese, cui non arridono affatto codici comuni né tribunali comuni. Quando era in gioco la Ced, cioè l’armata comune (ma che lasciava di fatto intatte le armate nazionali, solo imprimendo loro un certo suggello, e dando ad esse un comando supremo), non pochi prendemmo posizione avversa, non per preoccupazioni di parte (sebbene anche allora si avvertisse nel fondo del piano la finalità di fissare una determinata situazione politica, di renderne sempre piú difficile il mutarsi), ma perché sentivamo che sarebbe stata costruzione senza alcuna rispondenza nei sentimenti nazionali. Da un pezzo non ascolto voci di rimpianto per la Ced; e credo che in effetto nessuno pensi ch’essa avrebbe impedito le defezioni dei militari francesi, seguite a piú riprese, sottraendosi ai legittimi governanti per affermare una propria politica strettamente nazionale; nessuno pensi che verificandosi quelle rivolte avrebbero potuto intervenire reparti di altre nazionalità a reprimerle, tribunali militari internazionali a pronunciare condanne contro i ribelli, senza che tutta l’opinione pubblica francese insorgesse.
Personalmente, non vedo alcuna possibilità, in quei limiti di tempo entro i quali è dato spingere lo sguardo, di formazione di un’altra unità europea, che non sia quella che conosciamo, unità di cultura, di posizioni letterarie e filosofiche, di correnti di religiosità e d’irreligiosità che percorrono il nostro continente.
Non mi sembra ci sia alcun elemento che permetta di vedere il formarsi di un’unità europea come il ripetersi su piú vasta scala delle unificazioni nazionali. Queste – di cui le due piú recenti, la tedesca e l’italiana, risalgono ad un secolo fa, mentre per altre occorre rimontare ad alcuni secoli piú indietro – avevano a substrato la comunanza della lingua, oltre a quella di una cultura che, primitiva o meno, fosse pur data soltanto da tradizioni e leggende, non era mai provinciale (si pensi all’Italia del Settecento e del primo Ottocento: non c’è autore, voga letteraria, influenza straniera, controversia filosofica o religiosa, che non si dibatta, od almeno non trovi eco, da Como ad Agrigento, da Savona a Bari). C’erano già crogioli di fusione da lungo tempo operanti: in Italia, Roma, Napoli, Milano; in Germania, le città renane, le corti di molti principi.
C’era soprattutto quei senso che tanto può, anche quando è un semplice mito, di appartenere ad un’unica famiglia. Si può creare questo in Europa? è desiderabile crearlo? desiderabile che sorga il senso di una comunità europea, da difendere non solo contro offese belliche, che non potrebbero mai limitarsi all’Europa, ma contro intromissioni nella sua linea di condotta, nella sua politica economica, che venissero da altri continenti? di creare con il senso di una comunità, quello che è un aspetto che non si può eliminare, il desiderio della comunità di conservare il proprio spirito, di non accettare alterazioni, di opporre una resistenza ad ulteriori fusioni?
I sentimenti collettivi sono irrazionali. I miti – tali appunto perché non solo estranei alla logica, ma in contrasto con questa – vi hanno notevole posto. Tuttavia occorre un minimo di elementi visibili, e l’assenza di dati troppo contrastanti con l’immagine in cui si vuole fare credere, di un contrasto che appaia prima facie, perché possa prendere vita un mito. Gli elementi che si potrebbero invocare per una unità europea, la contiguità dei paesi, il blocco che l’Europa forma vista sulla carta, è un dato che perde ogni giorno piú d’importanza, mentre l’aereo consente di raggiungere in poche ore ogni punto del globo. Serbano invece tutto il loro valore le differenze di abitudini, nel senso piú lato della espressione, che comprende tra le abitudini cosí il posto della donna nella società, come la disciplina ed il costume familiare, cosí il tono alto o basso della voce nella conversazione, come la gesticolazione, accentuata o soppressa, come l’ora dei pasti.
Gli uomini possono sentirsi uniti in grandi ideali, ma trovano poi difficile e spiacevole la convivenza per questi assai piú bassi fattori. Sotto il riguardo delle abitudini, l’Europa, lungi dall’apparire un continente a sé, è divisa da linee, che segnano le latitudini, ma marcano anche zone di tipi di vita, e che si prolungano oltre l’Atlantico. I paesi scandinavi sono piú prossimi al Canadà che all’Europa meridionale, questa è piú prossima all’America latina.
Fin qui salde realtà (ahimè non unità) sono, al di sopra degli Stati, la razza bianca, e la religione (o, se altri preferisce, la tradizione, la civiltà) cristiana. Un grande confine è l’Islam. In seno alla civiltà cristiana (cui partecipano, volenti o meno, gl’israeliti, anche quelli d’Israel, impregnati delle strutture, dei modelli, della cultura di questa civiltà), il colore potrà perdere d’importanza. I negri d’America potrebbero mescolarsi con il resto della popolazione, con cui hanno identità di lingua, di abitudini, di aspirazioni. Peraltro il pregiudizio razziale è un fatto, non ancora superato.
In seno a questa civiltà sufficientemente omogenea, della razza bianca e della tradizione cristiana, un solco, non una fossa né un muro, è segnato dal confine con i paesi sovietici. Partecipi essi pure di tutti i movimenti culturali europei, se pure i governi restino legati ad un materialismo che, almeno in quella forma, è concezione superata da circa settant’anni nel resto dell’Occidente. Non scorgo invece questa unità d’Europa, comprensiva o meno dei paesi comunisti, ma che lasci fuori America ed Australia.
Ed invero tutti i tentativi e le voci di unità europea, appena escano fuori da ristretti confini tecnici od economici (nei quali non inseriscono poi che una minoranza degli Stati europei) appaiono subito come coalizioni di governi di colore politico omogeneo, come assicurazioni o riassicurazioni contro il pericolo di un cambiamento di politica degli Stati Uniti, che sono, piaccia o non piaccìa, la Potenza n. 1, la potenza leader di tutto il mondo non comunista.
Il momento per un rilancio dell’idea di una unione europea è stato nello scorso luglio particolarmente infelice; contrassegnato da un episodio sanguinoso di quella vicenda mediterranea della Francia che si protrae da gran tempo e che è veramente tragica, un nodo che le passioni hanno reso inestricabile, ed in cui le restanti potenze d’Europa non hanno alcuna ragione per sentirsi solidali con l’una o con l’altra parte, e contrassegnato altresí da un fermento di nazionalismo tedesco.
Ma indipendentemente da quel momento, non si può non ricordare che in questa unità europea, fino a che duri – e non vediamo alcun accenno ad un mutamento di rotta – la contrapposizione con gli Stati comunisti, la potenza direttrice, la potenza maggiore della comunità, sarebbe la Germania. Nessuno vuol fare del razzismo a rovescio a danno dei tedeschi. Non veneriamo solo la Germania lontana di Goethe, di Lessing, di Schiller, ma ricordiamo gli eroi della resistenza antihitleriana ch’essa diede; ma apprezziamo anche alcuni tentativi degli ultimi quindici anni per scuotere il peso del passato: qualche film antimilitarista che avrebbe fatto sobbalzare la censura italiana. Crediamo che la piú gran parte dei tedeschi non nutra alcuno spirito di rivincita, che Adenauer se potesse sopprimerebbe ogni voce nazista.
Ma sappiamo anche quanto sia difficile ad ogni governo affrontare la taccia di sentirsi chiamare antipatriottico, di non venerare abbastanza i combattenti (eravamo ancora in governi di coalizione di partiti e già da noi si ripristinavano le pensioni ai combattenti di Spagna, e non so a costo di quale corrispettivo siamo riusciti a tenere a Roma e non restituire l’obelisco di Aksum), di accettare come definitive delle frontiere di sconfitta, per poco che vi siano correnti popolari, anche di piccole minoranze, che non le accettino. E tutte le notizie che giungono dalla Germania confermano che ovunque, ma soprattutto nella classe studentesca, la crisi di coscienza, la ribellione contro ciò che fu il regime hitleriano, la vergogna di non essere stati ribelli, ma buoni cittadini e buoni soldati, sotto un tale regime, è del tutto mancata.
Il popolo tedesco è mirabile per la perfezione con cui opera nel bene come nel male. La Germania attuale, ricchissima, con una potenza industriale rapidamente risorta, con classi operaie che non pensano a mutamenti sociali, disciplinatissime, se pur curanti dei loro interessi, con questo saldo senso nazionale, sarebbe il vaso di acciaio accanto a vasi se non di coccio, di cattiva ghisa, nella comunità europea. L’elemento decisivo.
Chi pensa in termini di guerra, ed all’Europa come ad una matrice di eserciti, ha ben ragione di affermare che non dare il primo posto alla Germania equivarrebbe a dare il primato al moschetto sul carro armato. Ma chi pensa in altri termini e non ha tali preoccupazioni, non si sente affatto di accettare quel primato. I governanti possono nei loro comunicati dire quel che vogliono, ma nei popoli la paura per un dominio tedesco è ben forte. Se si deve restare negli attuali schieramenti, con Patto atlantico e relativi impegni militari, non si creino almeno ulteriori legami, ed ogni capo di governo, che ne abbia il coraggio, e voglia esprimere il sentimento del suo popolo, sappia dire alla potenza maggiore, a quella egemonica, agli Stati Uniti, quello che è tale sentire, che oltre Atlantico probabilmente è ignorato, per la mancanza di voci idonee ad esprimerlo. (Chi avrebbe potuto cento anni or sono supporre che il progresso tecnico avrebbe prodotto questo effetto, di non lasciare modo di esprimersi che al partito ben forte, che può concedersi l’organo di stampa sufficientemente autorevole e diffuso, od al grande centro d’interessi economici? che lo stesso partito sarebbe divenuto organismo burocratico e centralizzato, sí che le voci dei singoli non giungano che filtrate, e solo quelle che tocchino temi accetti agli organi del partito, nel tono che questi reputano il piú adatto al momento?)
Verrà l’uomo di Stato europeo che riuscirà a far sentire che c’è uno sbaglio fondamentale dei rapporti tra paesi non comunisti e paesi comunisti, ed è quello di pensare sempre in chiave militare, dando autorità alle voci dei generali? di vedere i problemi territoriali in chiave di problemi di basi militari? Se il comunismo vincerà, vincerà per questa aberrazione dell’Occidente, che con una reale, indiscutibile volontà di pace, non pensa che ad apprestamenti bellici, a difendersi da una invasione, che smantella le sue difese vere – la fede nella democrazia, nella libertà – per erigere difese di acciaio contro un pericolo quasi certamente inesistente. Che, perduto il dominio sui popoli di colore, vedendo questi crescere in numero ed in potenza, con fermenti e rancori non sempre giustificati, con una baldanza che è spesso segno d’immaturità, non sa superare i vecchi contrasti che potevano avere un senso quando l’Europa era il centro del mondo, non sa tentare di ravvivare un legame d’interessi, che si accompagni a quello della comune cultura, con i paesi europei a regime comunista.
ARTURO CARLO JEMOLO
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