Altre critiche sono soltanto apparentemente meno ingenue; per esempio quelle che lamentano la concentrazione dei grandi media nazionali nella titolarità di un solo gruppo editoriale. E tuttavia, è necessario avere ben presente che, anche se in Italia avessimo dieci canali televisivi nazionali privati appartenenti a dieci gruppi editoriali diversi e dieci quotidiani nazionali di tiratura all’incirca pari, appartenenti a dieci gruppi editoriali diversi tra loro e diversi dai gruppi editoriali titolari dei canali televisivi privati, i peggiori difetti e limiti della “libera stampa” e della “libera televisione” – limiti e difetti comuni ai grandi media e che rendono questi ultimi assolutamente omogenei, sotto notevoli profili – resterebbero del tutto inalterati.
Non bisogna mai dimenticare, infatti, che i grandi media nazionali sono strumenti delle società per azioni che ne sono titolari. Più precisamente, la società per azioni è proprietaria del medium: lo strumento che “informa” i cittadini e così forma l’opinione pubblica (dunque uno strumento di dominio); e alcune grandi imprese e banche sono titolari dei pacchetti di maggioranza che consentono di dirigere la società per azioni e quindi di disporre dello strumento di formazione dell’opinione pubblica. Stando così le cose, ossia fino a quando la legge (e dunque i cittadini e i politici che li rappresentano) consentirà che le cose stiano così, la tendenziale omogeneità dei grandi media nazionali (assoluta omogeneità se si considerano esclusivamente i profili sui quali stiamo per portare l’attenzione) non può essere considerata una distorsione grave e nemmeno, a rigore, una distorsione; perché è nel rispetto della loro intrinseca natura che i grandi media nazionali agiscono contro il popolo e lo ingannano dirigendone l’attenzione.
Infatti – e introduciamo un primo profilo – è chiaro che i grandi gruppi editoriali, essendo gruppi composti anche da società quotate, hanno interesse a che il mercato azionario salga. Potrebbero mai dedicare attenzione al dibattito scientifico, che è (o meglio dovrebbe essere) anche e soprattutto politico, relativo al problema se sia davvero conveniente per tutti che le azioni salgano? E in che senso, eventualmente, è “conveniente”? Tutti gli articoli di giornale che leggete e le trasmissioni televisive che seguite muovono dal presupposto, implicito, cioè tendenzialmente segreto, che convenga a tutti che le azioni salgano. Lo sapete dimostrare che conviene a tutti, anche a coloro che non sono titolari di azioni di società quotate? Lo sapete dimostrare che conviene anche a coloro che, essendo dotati di modesti risparmi, per lo più gestiti dai grandi fondi di investimento, vivono, e vivranno in età della pensione, con un tenore (di vita) che dipende in gran parte dal loro lavoro: dal valore che il lavoro assume nella società, sotto forma di corrispettivo monetario (per prestazioni professionali, artigiane, commerciali, per vendita dei prodotti della terra e per prestazioni di energie lavorative con il vincolo della subordinazione)?
Ed è anche ovvio che i grandi gruppi editoriali, poiché sono gruppi di società – le quali, da un lato, hanno nei consigli di amministrazione numerosi rappresentanti delle banche titolari dei pacchetti azionari, dall’altro, sono indebitate con le banche medesime – non affronteranno mai seriamente il problema se ai banchieri debbano essere tolti tutti o alcuni dei poteri giuridici dei quali oggi sono titolari. Perché dovrebbero? Come possiamo, se non con estrema ingenuità, pretenderlo? Perché quei media dovrebbero porre il problema del quantum della riserva frazionaria o il problema del ritorno della manovra sulla riserva frazionaria al governo e al Parlamento se ora quella manovra appartiene alla BCE e quindi alle banche? Perché quei media dovrebbero informare i cittadini che dopo la lunga battaglia condotta nelle aule giudiziarie contro l’anatocismo bancario, quest’ultimo è divenuto per legge principio generale dei contratti bancari? Come possiamo pretendere, se non del tutto velleitariamente, che i media, ossia gli strumenti, siano utilizzati, dai loro proprietari e gestori, per colpire gli interessi di quei medesimi proprietari e gestori?
E siccome la titolarità di molte delle azioni delle società che compongono i grandi gruppi editoriali appartiene alle banche – le quali sono proprietarie di innumerevoli beni immobili e titolari di altrettanto innumerevoli diritti di ipoteca su beni immobili ed hanno pertanto interesse a che gli immobili aumentino di valore – oppure a famiglie con enormi patrimoni immobiliari oppure addirittura a famiglie di costruttori, è chiaro che i media nazionali non sosterranno mai e poi mai che sia necessario reintrodurre l’equo canone o comunque perseguire una politica di lento sgonfiamento della bolla immobiliare e, prima ancora, che impedisca le bolle immobiliari. Perché quei media avrebbero dovuto indicare ai lettori e ai telespettatori che in Germania e in Giappone i prezzi degli immobili erano fermi rispettivamente dal 1993 e dal 1996? Perché avrebbero dovuto mettere in guardia i cittadini dal contrarre mutui quarantennali assurdi, andando così contro gli interessi dei proprietari dei media medesimi? Perché quei media avrebbero dovuto sollevare dubbi sulla opportunità delle varie leggi (quelle emanate e quelle da emanare ma non emanate) che hanno provocato l’enorme aumento del prezzo degli immobili, in relazione agli stipendi e ai redditi professionali?
Inoltre, poiché giornali e reti televisive si arricchiscono o sopravvivono grazie alla pubblicità, mai e poi mai sentirete dibattere su quei media il tema del possibile divieto della pubblicità sugli organi di informazione: quali interessi tutelerebbe? chi si avvantaggerebbe? chi ci perderebbe? quali conseguenze avrebbe la introduzione del divieto? Avremmo più giornali? Meno giornali? Più riviste ma meno giornali? Una informazione più settimanale che quotidiana? Scomparirebbero i giornali gratuiti? Scomparirebbero molti giornali a pagamento (perché in realtà gran parte del prezzo è pagata dalla pubblicità)? Scomparirebbero le reti televisive generaliste? Trasmetterebbero quattro ore al giorno anziché ventiquattro? E che male ci sarebbe?
Infine, i grandi gruppi editoriali sono titolari di “marchi” oltre a vivere di pubblicizzazione dei marchi. I grandi gruppi editoriali, sotto il profilo economico, svolgono l’attività di venditori di pubblicità. I ricavi dalle vendite di altri prodotti (giornali, film e altro) sono minimi e non coprono mai i costi. La diffusione della conoscenza dei marchi è la principale funzione economico-sociale svolta dai grandi media nazionali. Figuriamoci, quindi, se su di essi possa mai sorgere un dibattito relativo alla disciplina dei marchi. Un dibattito nel quale una delle voci in campo sostenga la necessità di limitare l’uso dei marchi e, quindi, di ridurne il valore a favore dei lavori, autonomi o subordinati, implicati nel processo di produzione e distribuzione dei prodotti marchiati e dei prodotti concorrenti.
Insomma niente di ciò che è utile al popolo potrà mai essere sostenuto spontaneamente dai grandi media nazionali, i quali, secondo la loro natura, si guardano bene anche soltanto dal prospettare possibili alternative di disciplina in ordine ai temi economici e politici più rilevanti.
Perciò smettiamo di rivolgere ai grandi media nazionali critiche prive di senso. E rammentiamo che, se è vero che quella parte di “società civile”, costituita dalla “libera stampa” e dalla “libera televisione” deve informare i cittadini sul comportamento dei politici, è anche vero che le strutture proprietarie e i canali di finanziamento della libera stampa e della libera televisione devono essere disciplinati dai politici, per limitare il “potere” del capitale di formare l’opinione pubblica, a favore della libertà di manifestazione del pensiero dei cittadini e del principio di uguaglianza sostanziale tra i cittadini medesimi.
È necessario, perciò, che i nuovi partiti – i quali, prima o poi, dovranno necessariamente formarsi per andare a contendere il potere al “partito unico delle due coalizioni” – inseriscano nel programma principi come quelli che ipotizziamo: i) le attività economiche di intrattenimento e di informazione non possono in alcun modo essere finanziate tramite il pagamento di corrispettivi in cambio di pubblicità, salvo la misura massima pari al 20% dei costi di produzione; ii) nessun cittadino italiano può essere titolare, nemmeno per interposta persona, fisica o giuridica, di una quota superiore ad un millesimo del capitale sociale di una qualsiasi società proprietaria di un canale televisivo privato nazionale ovvero di un quotidiano o rivista che venda più di settecentomila copie a settimana.
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