Il Mazzinianesimo
di LUIGI SALVATORELLI (storico e giornalista; 1886-1974)
Le tre correnti che abbiamo indicato (corrente mazziniana, liberalismo moderato e liberalismo radicale) si svolsero per il maggior tratto in contemporaneità cronologica. La prima a scaturire e ingrossare fu tuttavia la mazziniana, mentre le prime manifestazioni del liberalismo radicale precorrano appena di qualche anno quelle del liberalismo moderato. Ma poiché quest’ultimo fu in buona parte una reazione cosciente al mazzinianesimo, noi lo esamineremo subito dopo di esso, lasciando per ultimo il liberalismo radicale, che fa fronte tanto ai moderati quanto ai mazziniani.
Il Mazzini ha un pensiero già pienamente formato e largamente propagandato prima del ’40 con gli scritti della «Giovine Italia», con gli altri opuscoli, con le lettere numerosissime e ricche vita e di pensiero, strumento efficace e intenso di propaganda. Il liberalismo moderato e il radicale hanno invece dopo il 1840 le loro espressioni sistematiche. S’intende che noi esaminiamo qui (a differenza di quanto facemmo altrove) queste correnti non come pensiero politico puro, ma in quanto concorsero al processo del Risorgimento, senza tuttavia una separazione recisa dei due aspetti che sarebbe impossibile.
Il Mazzini partì dalla critica alla carboneria. Egli rimproverava al liberalismo carbonaro di non vedere che umanità e individui, ignorando la nazione e la società; di non tener conto del popolo; di essere utilitaristico anziché morale, affermando solo i diritti e non i doveri. Tale critica egli estendeva a tutto il movimento liberale uscito fino allora dalla rivoluzione francese: nel che entrava per qualche cosa, almeno come fattore psicologico, precisamente l’origine francese di quel liberalismo, essendo stato il Mazzini, per passione nazionale, sempre geloso dell’iniziativa francese e diffidente dell’influenza francese sull’Italia. In realtà, proprio dalla rivoluzione francese era sorto il concetto moderno di nazione, in tutta la sua potenza e prepotenza, subordinante l’individuo fino al sacrificio totale di esso.
Tuttavia, di fronte al liberalismo carbonaro il Mazzini aveva ragione di porre in rilievo energico l’elemento nazionale-sociale, effettivamente trascurato da quello. Non altrettanto giusto, neppure di fronte alla carboneria, egli era nella parte negativa della sua critica, cioè nella sistemazione del valore della libertà come parziale e strumentale. Il Mazzini inclinava, con qualche precipitazione, a intendere la libertà come qualche cosa di preliminare, un presupposto già acquisito almeno in linea ideale e su cui non occorresse fermarsi più oltre a riflettere; né riuscì forse mai a coglierne il concetto in tutto il suo valore positivo, finale, sintetico, che appare quando si intenda (come si deve intendere) per libertà il pieno sviluppo della personalità umana. È anzi quest’ultimo concetto di personalità che a lui, tutto fiso nell’associazione, nella solidarietà, nel dovere, non apparve in tutta la sua portata e natura: l’idea collettiva, non completamente scevra di mitologismo, della nazione e della società portò nel suo spirito un certo oscuramento. In ciò i radicali e gli stessi moderati ebbero su lui qualche superiorità.
Tuttavia, a guardar bene, il concetto fondamentale mazziniano del progresso indefinito dell’umanità non era se non una formulazione diversa di quella esigenza dello sviluppo personale. L’uomo serve all’umanità, ma «l’umanità non è che la scala per la quale l’uomo si accosta a Dio»; al limite, i due termini si confondono: l’avvenire ultimo dell’individuo è identico a quello dell’umanità… Checché si pensi circa la natura e le imperfezioni del concetto di libertà nel Mazzini, sta il fatto che per lui patria, o nazione, e libertà sono termini inscindibili. Egli dice una volta, con incertezza caratteristica di espressione: «Amo la libertà, l’amo fors’anche piú che non amo la patria; ma la patria io l’amo prima della libertà», dove il «prima» bilancia il «più», e viceversa.
L’esigenza della libertà e gli istituti delle libertà singole sono alla base della sua costruzione nazionale. Egli rinnega bensì, più compiutamente di ogni altro scrittore italiano del tempo, la tendenza settecentesca a concepire la società come un semplice aggregato, o somma, d’individui; e pone la nazione come un tutto organico al centro del suo concetto del Risorgimento. Ma nazione è per lui il popolo, tutto il popolo, che prende in mano esso medesimo – anziché affidarli a un ceto o a un individuo privilegiati – i suoi destini. Il concetto d’iniziativa popolare, di auto-attività e autogoverno nazionali, è per il Mazzini fondamentale: si potrebbe dire l’alfa e l’omega del suo sistema politico.
In questo concetto organico e dinamico della nazione italiana come auto-creazione popolare è uno dei massimi apporti del Mazzini al processo del Risorgimento, ideale e pratico: da esso scaturisce il binomio mazziniano «pensiero e azione», necessario a formare una vera coscienza nazionale. La nazione italiana ha per il Mazzini un passato, un presente, e soprattutto un futuro. Il passato italiano non è per lui qualche cosa da restaurare, da rimettere «in pristino», un modello da copiare; ma un incitamento a risollevarsi dalle bassure presenti e metter mano alla ricostruzione dell’Italia. Ricostruzione, o piuttosto costruzione: poiché, se il Mazzini fa appello alla Roma antica repubblicana-imperiale, e a quella papale-medievale ambedue dominatrici e maestre del mondo, e in nome loro invoca e profetizza una Terza Roma, non con altrettanta precisione parla di una prima e seconda Italia a cui succederebbe una terza; bensì nella nazione italiana nuova vede la condizione necessaria per quella Terza Roma e al tempo stesso – in una specie di processo circolare – nel fatto di Roma italiana vede una ragion d’essere particolarmente potente per la futura missione dell’Italia.
Il concetto di missione nazionale è una delle idee fondamentali – si sarebbe tentati qualche volta di chiamarla idea fissa — del Mazzini; ma anche una di quelle che rimangono più indeterminate. Si tratta di un compito speciale che ciascuna nazione deve adempiere; ma quale esso sia, per l’Italia e per le altre nazioni, il Mazzini non indica (solo più tardi disse qualche cosa in proposito). Insomma, quel che è il dovere per l’individuo, è la missione per la nazione; soltanto, il Mazzini non sembra aver avvertito sufficientemente che il dovere-missione non può aver nulla di stabile, di determinato a priori, di specifico e riservato per qualsiasi individuo o collettività: doveri e missioni rampollano sempre nuovi e diversi dalla varietà delle situazioni. Né la missione può consistere in un «principio» di cui una sola nazione sia interprete privilegiata; poiché se di principi, cioè di elementi essenziali, davvero si tratti, essi occorreranno tutti a ciascuna.
Di fatto, il Mazzini non precisa per l’Italia altra missione se non quella di iniziatrice della resurrezione e confederazione dei popoli, missione corrispondente alla situazione storica d’allora, e che ogni nazione avrebbe potuto assumere a seconda delle circostanze. Senonché la sua fede che all’Italia in prima linea spettasse un cosí alto compito era adatta a risvegliare e tendere all’estremo le energie nazionali, e al tempo stesso a render solidale la causa italiana con quella di tutte le altre nazioni. Solidarietà a cui corrispose l’azione effettiva del Mazzini, creatore della Giovine Europa e in contatto costante con gli altri movimenti europei.
Come s’è accennato già, nel concetto mazziniano di nazione v’è un detrito di mitologismo sociologico. Ma esso non deve celare il nucleo vitale, cioè concetto morale, ideale, di nazione, anziché puramente politico-territoriale: concetto che rappresenta un’aspirazione cosciente a ristabilire nella vita italiana quell’unità morale che era venuta meno dal Rinascimento in poi. Ogni materialismo statale è incompatibile con lo spirito mazziniano. L’Italia per lui è una tradizione storica, è più ancora una vita morale, uno spirito, una vocazione al servizio dell’umanità; ed esigenza morale, realtà spirituale è l’unità italiana invocata dal Mazzini. L’unità territoriale è strumento per la riunione delle forze morali, per l’esplicazione della solidarietà nazionale; è manifestazione sensibile dell’unità di coscienza, giusta effettuazione della volontà del popolo.
L’idea di un’Italia che si facesse per assorbimento politico-militare da parte di uno degli stati esistenti, ripugnava al Mazzini, non meno (anche se non per ragioni del tutto uguali) che ai federalisti repubblicani. E come l’unità, così la repubblica; la quale non è per il Mazzini una semplice forma di regime contrapposta ad un’altra — sullo stesso piano, per esempio, della monarchia costituzionale — e neppure semplice esplicazione (come per i federalisti repubblicani) del principio di libertà; ma è unità di coscienza e di azione, coronamento necessario della formazione nazionale, strumento indispensabile per la missione nazionale. Tutto questo viene rafforzato per l’Italia dalle tradizioni storiche del suo grandioso passato, che sono — dice il Mazzini — repubblicane e non monarchiche.
Il valore ideale, morale, della repubblica unitaria italiana, doveva concretarsi, innanzi tutto, nel contenuto sociale di questa. Il problema sociale fu sentito vivissimamente dal Mazzini per l’Italia come per il resto d’Europa; e, se egli combatté la soluzione comunistica (intaccata ai suoi occhi di utopia, antiliberalismo, e soprattutto di materialismo), la sua esigenza sociale era tuttavia radicale non meno del socialismo: il principio d’eguaglianza esigeva per lui che ogni uomo partecipasse in ragione dei suo lavoro al godimento dei prodotti dell’attività sociale, Un giorno — dice il Mazzini — saremo tutti operai, cioè vivremo dell’opera nostra. Anche per il problema sociale l’iniziativa e l’azione spettano per il Mazzini al popolo stesso e allo stato popolare; è estraneo al suo pensiero ogni paternalismo, corporativistico o meno.
L’impostazione e il tentativo di soluzione del problema sociale rappresentano una grande superiorità del Mazzini rispetto al liberalismo moderato, che si può dire ignorasse quel problema (esso è posto energicamente dal Gioberti nel Rinnovamento; ma il Gioberti del Rinnovamento è ben al di là del moderatismo). Il concetto di umanità è coordinamento, o meglio superamento, di quello della nazione, e ne corona il carattere ideale. Esso pone una barriera insormontabile, un vero abisso, fra il mazzinianesimo e ogni dottrina di etnicismo nazionalistico.
Non si tratta del dominio di una nazione, l’Italia, ma di costruire un mondo delle nazioni; e se si attribuisce ripetutamente all’Italia una missione iniziatrice (di popolo-Cristo), è missione politico-spirituale, non politico-territoriale, da svolgere con mezzi conformi alla legge morale, in affratellamento con tutti i popoli, in azione solidale fra tutti «i buoni». Le singole cause nazionali sono collegate indissolubilmente fra loro, e insieme debbono trionfare per opera dei popoli associati contro i governi. Questo è l’europeismo mazziniano, al di fuori e contro ogni diplomazia, ogni combinazione di interessi particolaristici di governi o dinastie.
Ogni concezione nazionalistica presuppone il primato della politica su ogni altra attività dello spirito. Il concetto mazziniano del Risorgimento approda invece a un superamento completo del politico nello spirituale. Non solo ogni ragione di stato è negata in radice, ma la politica è subordinata integralmente alla morale, e la morale non è se non l’applicazione di una fede religiosa. Il problema religioso italiano è ripreso dal Mazzini in vista di una soluzione radicale. Con esso tocchiamo al vero fondo della rivoluzione mazziniana, che non è nell’assetto politico — in cui non sono esclusi gradualità e temperamenti —, ancor meno nell’insurrezione, semplice strumento temporaneo; ma è in questa intima trasformazione religiosa. Egli parla esplicitamente di una nuova fede, che superi così le vecchie confessioni cristiane, ormai per lui impotenti, come l’incredulità scettica e materialistica del secolo XVIII.
Egli respinge nettamente gli sforzi dei neocattolici o neoguelfi italiani: la loro scuola, secondo lui, non è giovevole al progresso italiano, di cui fraintende l’idea predicando una fede non sentita veramente. Per il papato cattolicissimo non vi è posto nel Risorgimento mazziniano: ciò che non significa, naturalmente, ch’egli pensasse ad abolizioni forzate, a persecuzioni (nulla di più estraneo al suo pensiero), ma che non attribuiva loro una funzione positiva. Il cristianesimo stesso per il Mazzini è esaurito, non perché falso, ma perché il vero che c’era in esso (la redenzione individuale) ha già trionfato. Rimane necessaria la fede ultraterrena, che è per il Mazzini quella in Dio manifestantesi per successive rivelazioni nell’umanità, destinata un giorno ad esser chiamata tutta intera a Lui, come vi ascendono gli individui attraverso le loro vite successive.
Finché l’unità sociale non è fondata, autorità ecclesiastica e autorità politica devono rimanere indipendenti il più possibile l’una dall’altra. Una volta però costituita veramente la società nuova, questo separatismo fra Stato e Chiesa, fra istituti politici e principi religiosi, non avrà più ragion d’essere: come alla fede corrisponderà la morale, che si attuerà nella politica, così lo Stato sarà la Chiesa, e la Chiesa sarà lo Stato. Nessun divorzio fra la terra e il cielo: occorre agire su questa terra per un compito sacro, per la realizzazione del regno di Dio.
Per camminare verso un tale ideale, il Mazzini conta sull’educazione nazionale: a lei spetta far sentire fratelli tutti gli uomini di una nazione, toglierli dall’isolamento in cui si trovano, imbeverli delle stesse credenze e dello stesso spirito, render possibile un pieno sviluppo delle loro facoltà, superando le condizioni d’inferiorità sociale in cui tanti di essi si trovano. Questa educazione è compito dell’autorità sociale, e cioè di un insegnamento pubblico politico-morale, con carattere uniforme. Concezione che potrebbe essere grave di conseguenze, ma sostanzialmente corretta, coesistenza dell’educazione nazionale e dell’insegnamento libero, per cui alla prima spetta l’insegnamento del dovere sociale, del programma nazionale, al secondo la libera diffusione di nuovi programmi, di nuovi ideali, che assicurino la libertà di progresso, protetta e confortata dallo Stato.
La formazione dell’unità morale è dunque per il Mazzini graduale e non subitanea, libera e non imposta, e dato il progresso continuo, mai definitiva. E di questa unità morale l’interpretazione e l’applicazione spettano al popolo. Il punto fondamentale, di fronte ad autoritari e moderati, è per il Mazzini che il governo nuovo dev’essere non solo per il popolo, ma per mezzo del popolo. Egli afferma una capacità politica generale del popolo, quella di scegliere spontaneamente i più capaci. Non ammette che la politica nazionale e popolare possa essere incarnata da individui dominatori: non bisogna attribuire agli individui un’autorità che appartiene solo ai principi. Non si tratta per una nazione di usare momentaneamente la libertà di scelta per abbandonarla di nuovo, ma di organizzare con le istituzioni l’esercizio continuato della sua libertà e sovranità, assicurandola così saldamente da non poter essere perduta per sbagli di un individuo o di una dinastia.
Tutto questo fa da contrappeso — e fino a un certo punto da superamento — al pericolo insito nella riduzione mistica mazziniana della politica a religione: il pericolo cioè, che, con un rovesciamento facile a verificarsi negli spiriti intellettualmente o moralmente deboli, la politica — e quindi l’utilità contingente di una data situazione, un programma, un istituto, un partito particolari —, sia innalzata a morale, dall’alto e consacrata nell’immobilità.
Nella concezione mazziniana del Risorgimento è innegabile un residuo dogmatico, trascendente, e ben lo sentirono i contemporanei e i seguaci stessi del Mazzini: e l’opposizione aperta, o la repugnanza intima, ad esso fu uno dei più gravi ostacoli all’efficacia dell’azione mazziniana. Reagì in particolare il liberalismo radicale, con l’assolutezza del suo umanesimo ignorante di ogni trascendenza; ma anche il liberalismo moderato oppose al mazzinianesimo il suo senso realistico ed empirico. Ambedue associarono in questa opposizione le tradizioni del pensiero settecentesco, che il Mazzini non aveva compreso a fondo, al nuovo pensiero storico-scientifico.
Rimane pur sempre al Mazzini il vanto della concezione più integrale del Risorgimento, quella che più strettamente associava il pensiero all’azione escludendo ogni infecondo dilettantismo ideologico, la risurrezione politica all’elevazione morale sradicando ogni machiavellismo, le sorti dell’Italia a quelle di tutta l’Europa eliminando ogni tentativo d’isolamento, ogni pretesa di dominio. Se al popolo italiano occorreva per il suo Risorgimento superare definitivamente le bassure spirituali a cui lo aveva condotto la decadenza secolare successa al Rinascimento, la spinta morale a quel superamento gli venne principalmente dall’affiato mistico mazziniano. Né si saprebbe additare, nella propaganda patriottica del Risorgimento, nessun altro che abbia come il Mazzini lanciato tanti fili, tessuto tante trame, illuminato, eccitato tanti spiriti, formato e tenuto insieme tanti nuclei di azione, fatto appello a tanti diversi ambienti diversi, posto mano a tanti strumenti differenti; e, più in breve, speso tutta la sua intelligenza, tutte le sue energie, ogni suo respiro per la causa dell’Italia e dell’umanità.
[Pensiero ed Azione del Risorgimento, 1943]
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