La "frode alla Costituzione"
Premessa: il presente articolo costituisce la prima parte di una più ampia trattazione che, partendo dal concetto di “tensione all’eternità” dei valori costitutivi dell’ordinamento, esaminando poi la forma di Stato sociale disegnata dai nostri padri costituenti e la sua radicale, quanto inammissibile mutazione – operata, in “frode alla Costituzione” (con la tecnica della revisione costituzionale), dal c.d. governo “di emergenza nazionale” – approderà, nella seconda parte (ovvero nel mio prossimo articolo), alla trattazione del complesso tema della c.d. “nuova costituzione economica europea”. Sarà un percorso lungo ed impegnativo, ma spero e credo assai utile.
- La “tensione all’eternità” dei valori costitutivi dell’ordinamento.
Nell’epigrafe di una raccolta di saggi di Cass R. Sunstein [A cosa servono le costituzioni. Dissenso politico e democrazia deliberativa, (2001), Bologna, 2009, 1] si leggono le seguenti affermazioni, tratte da un’importante sentenza della Corte costituzionale del Sudafrica del 1996 [la sentenza Shaballala and Others v. Attorney Generalo f the Transvaal and Another, 1996, South Africa 725 (C.C,)]: “La costituzione non è semplicemente una specie di codificazione legislativa di un passato condivisibile o legittimo. (…) L’aspirazione del futuro è basata su ciò che è giustificabile in una società aperta e democratica che si basa sulla libertà e sull’uguaglianza. È fondata su una cultura giuridica di responsabilità e di trasparenza. Le disposizioni relative della costituzione devono quindi essere interpretate in modo da mettere in pratica i propositi che si volevano realizzare attraverso la loro promulgazione”.
Analoghi concetti venivano affermati dal Prof. Massimo Luciani in un suo intervento al Convegno annuale AIC del 2011 (Unità nazionale e struttura economica: La prospettiva della Costituzione repubblicana, Relazione al Convegno annuale AIC 2011, in Diritto e Società, 2011, 6). In quella sede, l’autorevole costituzionalista ricordava infatti che le Costituzioni, essendo caratterizzate da “una tensione all’eternità”, “implicano la pretesa che sia assicurata fedeltà alle intenzioni originarie del patto fondativo dell’ordinamento”. Detta pretesa, spiegava il Prof. Luciani, non può essere soddisfatta “dalla pietrificazione della portata normativa delle singole disposizioni o norme costituzionali”, ma dalla “conservazione del loro contenuto di valore (per come reso accessibile dal testo scritto). Il che è possibile, appunto, solo se il patrimonio culturale di chi le ha scritte non viene trascurato”.
Dal canto suo, E.-W. Böckenförde [Il potere costituente del popoli. Un concetto limite del diritto costituzionale, in G. Zagrebelsky, P.P. Portinaro, J. Luther (a cura di), Il futuro della Costituzione, Torino, 1996, 251-252] poneva l’accento sull’ “eredità culturale-spirituale” quale fattore decisivo per mantenere vivi i principi informativi della Costituzione.
Profonde ed acute riflessioni su questi temi si trovano inoltre in un saggio del Prof. Angelo Antonio Cervati intitolato “Riforme costituzionali e principi in tema di sfera pubblica e di interessi privati” (in http://www.apertacontrada.it/2012/08/01/riforme-costituzionali-e-principi-in-tema-di-sfera-pubblica-e-di-interessi-privati/print/). “Le radici del diritto costituzionale”, ricorda l’illustre costituzionalista, “affondano nella storia sociale e nella filosofia e non possono identificarsi con le enunciazioni testuali delle singole costituzioni scritte, per quanto i redattori di tali testi possano essere stati abili nel riuscire a esprimere le ragioni che giustificano le formulazioni di principio. Nei testi costituzionali […] trovano testimonianza orientamenti valutativi, in tema di principi costitutivi dell’ordine giuridico e sociale, che sono destinati a vivere, nelle collettività nazionali, attraverso tempi diversi, superando difficoltà, ostacoli e perfino momenti di crisi. I valori costituzionali rispecchiano sentimenti, ideologie, aspettative, credenze, che caratterizzano i diversi percorsi storici, giuridici e umani di ciascun Paese, per cui chi studia il significato che assumono le enunciazioni dei testi costituzionali nel corso del tempo non può prescindere dall’esame della storia sociale, dalla cultura politica, e neppure dalle opinioni più significative manifestate nel periodo considerato. Essi vivono anche nell’opinione pubblica, nella letteratura, nell’arte, nel pensiero filosofico del tempo e perfino nella dogmatica elaborata dalla scienza giuridica, oltre che nella prassi e nella giurisprudenza, senza mai tuttavia identificarsi totalmente con nessuna di queste diverse espressioni dell’esperienza giuridica. Non si può dimenticare infatti che i valori costitutivi rispecchiano esigenze e sentimenti che vivono a un livello più profondo perfino di quanto non sia percepito dagli stessi grandi protagonisti della vita delle istituzioni o dai tecnici della finanza mondiale, anche se tutti costoro sono innegabilmente in possesso di strumenti conoscitivi particolarmente raffinati ed efficaci. Essi hanno radici, come si diceva all’inizio, nella storia nazionale e nel pensiero e nella cultura di tutto un popolo, più che nella specializzazione e nell’impegno professionale di alcuni singoli attori della vita politica e istituzionale e in questo senso si può ben dire di ogni costituzione che si tratta del frutto di un opera collettiva (Cfr. Betti, Giuliani, Capograssi, Häberle)”.
Da tali (sacrosante) premesse, il Prof. Cervati deduce che sia corretto “dubitare che un governo o una maggioranza parlamentare più o meno eterogenea siano in grado di proclamare la morte presunta di valori riconosciuti da tutti come base della convivenza, senza aver almeno approfondito sufficientemente le ragioni dell’affievolirsi di tali valori o del loro essere del tutto venuti meno” ed aggiunge che, allo stesso modo, “non sembrano accettabili i tentativi di porre l’opinione pubblica di fronte al fatto compiuto, realizzando, con la tecnica dei piccoli ritocchi a un più ampio testo costituito da singole parti di disposizioni costituzionali oggetto di revisione, una nuova formulazione dei valori supremi della Repubblica”. Detta ipotesi si tradurrebbe infatti in un “abuso di uno strumento procedurale per perseguire un risultato eversivo dell’intero ordine costituzionale, fino a rompere la continuità con l’ordine costituzionale esistente”.
Altre illuminanti riflessioni sviluppate nel saggio citato riguardano le disposizioni costituzionali in materia di procedimento di revisione. Procedimento che risponde all’ “auspicio di garantire una certa stabilità ad alcuni valori fondamentali”, che “danno un senso all’intero testo della Costituzione vigente” e che oggettivamente devono ritenersi “irrinunciabili”, essendo essi “condivisi da larghissima parte dell’opinione pubblica”. Procedimento chiaramente inammissibile nel caso in cui le riforme proposte “sotto l’apparenza di apportare semplici ritocchi alla macchina della costituzione vigente” tendano invece ad “introdurre […] nel testo di essa mutamenti talmente radicali da far dubitare che non si tratti piuttosto della sostituzione della parte centrale” di tale “macchina”, come ad esempio avviene, secondo l’illustre Autore, allorchè si utilizzi la revisione costituzionale “per mutare l’ordine dei valori repubblicani, invocando un adeguamento ai principi del diritto pubblico europeo, un diritto che peraltro è ben lungi dall’essersi consolidato ed aver raggiunto una consistenza sicura […]”.
Se questa “tensione all’eternità” dei valori costitutivi dell’ordinamento vale per tutte le costituzioni scritte, essa, a maggior ragione, vale per le costituzioni democratiche pluriclasse del secondo dopoguerra, le quali (come avevo evidenziato nel mio articolo di esordio su Appello al Popolo: https://www.appelloalpopolo.it/wp-content/uploads/2015/01/Il-bigino-del-perfetto-guastafeste.pdf ) segnano il passaggio dallo Stato liberale allo Stato democratico, cioè ad un sistema costituzionale “aperto verso il progresso sociale e lo sviluppo democratico, verso una trasformazione delle strutture anche economiche, in senso sempre più egalitario e per una partecipazione sempre più vivace ed effettiva delle masse all’esercizio del potere” (L. Basso, Il principe senza scettro, Milano, 1958, Cap. IV La Costituzione).
Ed ancor più vale per la Costituzione della Repubblica Italiana, i cui principi fondamentali “irrinunciabili” configurano il nostro ordinamento come uno Stato sociale ed affondano le loro radici storiche nello spirito e nei valori della Resistenza, ovvero in quel desiderio di rinnovamento assoluto e radicale (rispetto al precedente modello liberale-liberista, il cui fallimento era stato storicamente sanzionato con la grande crisi del 1929-1932) e in quei “sentimenti”, in quelle “ideologie, aspettative, credenze” di libertà, sovranità popolare, uguaglianza sostanziale, giustizia sociale, che animarono i protagonisti della Resistenza e costituirono il contenuto del mandato che gli stessi Resistenti affidarono all’Assemblea Costituente (sul punto mi permetto di rinviare a: https://www.appelloalpopolo.it/?p=12990).
- Lo Stato sociale.
E’ appena il caso di ricordare che lo Stato sociale è quella particolare forma di Stato costituzionale di diritto che assume come fine fondamentale “quello di intervenire nei rapporti sociali per modificarne gli effetti a favore di determinati gruppi e classi (ed in particolare a favore dei gruppi e delle classi economicamente più deboli)” (C. Mortati, Le forme di governo, Padova, 1973, 62) e che riconosce e garantisce, a livello costituzionale, un determinato tipo di diritti soggettivi, denominati “sociali”, spettanti a tutti gli individui in quanto viventi in società e talmente importanti da caratterizzare (giustappunto come “sociale”) la forma dello Stato che li preveda nella sua Legge fondamentale (si veda, in argomento, l’ottimo studio della Prof. Fiammetta Salmoni, Legalità (costituzionale) e forma di Stato: aspetti teorici e profili pratici di due concetti apparentemente in crisi, in Rivista di Diritto Costituzionale, 2004, 108-152, consultabile a questo indirizzo internet: http://www.gruppodipisa.it/wp-content/uploads/2012/05/rdc_2004_5320.pdf).
Il suo fondamento costituzionale, com’è noto, risiede proprio nel principio di uguaglianza sostanziale di cui all’art. 3 comma secondo, Cost. (https://www.appelloalpopolo.it/?p=13343), “ma anche in tutta una serie di altre disposizioni costituzionali che dovrebbero indirizzare le attività dei pubblici poteri vincolando, quindi, il legislatore ordinario ad un obbligo di risultato” (F.Salmoni, op. cit., 126, ove peraltro si richiamano, in senso conforme a quanto sopra esposto, gli studi di autorevoli costituzionalisti, quali G.Azzariti, A.Baldassarre, M.Luciani, S.Rodotà).
Si tratta dell’art. 32 (“sulla tutela della salute e l’obbligo di prestare cure gratuite agli indigenti”) dell’art. 38 (“che dispone a carico dello Stato una serie di obblighi di fondamentale importanza tra cui: l’obbligo di garantire il mantenimento e l’assistenza sociale ad ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere, l’obbligo di previdenza e assistenza a tutti i lavoratori in caso di infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia e disoccupazione involontaria, l’obbligo di garantire l’educazione e l’avviamento per gli inabili e i minorati”), del collegamento sistematico tra l’art. 4, lo stesso art. 38 e gli art.li 41, 42, 43 e 44 (vedi https://www.appelloalpopolo.it/?p=13515 ed anche https://www.appelloalpopolo.it/?p=13343 ), dell’art.53 (“Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”), che impegna tutti “a concorrere alla realizzazione dello Stato sociale”, partecipando, ognuno “in ragione delle proprie possibilità, alla realizzazione dell’eguaglianza sostanziale” (ancora F.Salmoni, op. cit., 126; sul tema si veda anche F.Angelini, Costituzione ed economia al tempo della crisi, in Associazione Italiana dei Costituzionalisti, Riv. n.4/2012, http://www.rivistaaic.it/costituzione-ed-economia-al-tempo-della-crisi.html in particolare al paragrafo 1).
Assumendo il compito di rendere effettiva l’uguaglianza, lo Stato sociale si identifica con la democrazia in modo esclusivo e ne costituisce pertanto la forma necessaria (C. Mortati, Istituzioni di Diritto Pubblico, Tomo I, Decima edizione, Padova, 1991, 147), irrinunciabile ed immodificabile (in quanto espressione dei valori supremi della Repubblica), dunque non soggetta a procedimento di revisione costituzionale, nè a disattivazione o ad abrogazione implicita da parte di norme sovranazionali, sia di natura consuetudinaria, sia di natura pattizia (Corte Cost. n.238/2014).
Però tutti i diritti costano e quelli sociali non fanno eccezione. E costano molto di più da quando lo Stato, per scelta politica e non tecnica, ha deciso di premiare la rendita finanziaria, anzichè reprimerla (cfr.: http://www.riconquistarelasovranita.it/teoria/reprimere-la-rendita-finanziaria-e-instaurare-un-sistema-finanziario-nazionale-documento-per-assemblea; vedi anche https://www.youtube.com/watch?v=DWywvKOXlvg), trasferendo (direttamente – aumentando il prelievo fiscale – e indirettamente – riducendo la spesa sociale) la ricchezza prodotta dal lavoro dalle tasche di chi lavora a quelle dei rentiers (https://www.youtube.com/watch?v=cBOJ8UwZc_g).
E’ perciò evidente che “il raggiungimento degli obblighi di risultato posti dalla Costituzione, in sostanza, dipende in larghissima misura dalla disponibilità di risorse finanziarie che ciascuno Stato ha” (ancora F.Salmoni, op. cit., 126-127).
Una legge di revisione della Costituzione, o una legge costituzionale (entrambe costituiscono una categoria unitaria, soggetta alla stessa disciplina procedimentale ed agli stessi limiti) che, “sotto l’apparenza di apportare semplici ritocchi alla macchina della costituzione vigente” (interessando, ad esempio, uno o più articoli non riguardanti i principi fondamentali), introducesse vincoli tali da impedire o fortemente limitare la possibilità dello Stato, delle regioni e degli altri enti locali di disporre delle risorse finanziarie necessarie a soddisfare le necessità dello Stato sociale sarebbe dunque lesiva della superiore legalità costituzionale (in relazione alla forma sociale dell’ordinamento statuale) e, come tale, illegittima, sia nella forma (stante l’utilizzo o, meglio, l’ “abuso di uno strumento procedurale per perseguire un risultato eversivo dell’intero ordine costituzionale, fino a rompere la continuità con l’ordine costituzionale esistente”) che nella sostanza (condizionando essa a tali vincoli la piena e costituzionalmente obbligata realizzazione dei diritti sociali fondamentali e del principio di uguaglianza sostanziale), per quanto conforme agli obiettivi dell’Unione Europea (che palesemente si collocano agli antipodi degli obiettivi di un moderno Stato sociale) ed agli impegni assunti dall’Italia sottoscrivendone i Trattati.
- La “frode alla Costituzione”.
Tutto ciò è esattamente accaduto con la legge costituzionale 20 aprile 2012 n.1, che ha sostituito l’originario art. 81 della Costituzione, introducendo il c.d. “principio” del pareggio di bilancio nella nostra Legge fondamentale (https://www.appelloalpopolo.it/?p=13680).
Come efficacemente spiegano il Prof. Silvio Gambino ed il Prof. Walter Nocito (in Crisi dello Stato, governo dell’economia e diritti fondamentali: note costituzionali alla luce della crisi finanziaria in atto, Relazione al Seminario interdisciplinare “Crisi dello Stato nazionale, governo dell’economia e tutela dei diritti fondamentali”, Università di Messina, 7 maggio 2012, http://www.consiglio.regione.campania.it/cms/CM_PORTALE_CRC/servlet/Docs?dir=docs_biblio&file=BiblioContenuto_1981.pdf), “la revisione dell’art. 81 Cost., espressione di un vero e proprio indirizzo politico-costituzionale del Governo d’emergenza […] appare finalizzata a vincolare (quanto rigidamente si vedrà) l’ordinamento italiano al rispetto di parametri macroeconomici prefissati normativamente dai trattati, in particolare vietando – salvo rare eccezioni e imponendo una procedura aggravata – il ricorso all’indebitamento quale strumento di politica economica”.
Sotto il profilo procedurale, il “principio” del pareggio di bilancio è stato introdotto nella Costituzione con il procedimento di revisione di cui all’art. 138 Cost., senza alcuna preventiva discussione pubblica (cfr. sul punto il vibrante articolo di denuncia “La regola d’oro indiscussa” pubblicato sul Manifesto, poco prima dell’approvazione della legge costituzionale, dal Prof. Gaetano Azzariti http://www.controlacrisi.org/notizia/Politica/2012/3/6/20328-la-regola-doro-indiscussa/).
A nulla era valso l’autorevole appello rivolto dal Prof. Gianni Ferrara ai Senatori italiani con una lettera aperta del febbraio 2012, nella quale l’illustre costituzionalista aveva invitato gli stessi parlamentari a riflettere maggiormente sulla delicata questione dell’inserimento del vincolo di pareggio di bilancio in Costituzione ed a lasciare che i cittadini potessero pronunciarsi su una misura così radicale (frutto di “una teoria economica neanche condivisa da tutti gli studiosi”, di “un’opzione ideologica fondata su presupposti empiricamente non verificati” ed “accademicamente erronei”), destinata ad annullare “ogni potere discrezionale del Parlamento nella elaborazione e nella gestione in futuro delle scelte di politica economica” e a cambiare la “forma di Stato”, compromettendo “la garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni e delle funzioni fondamentali inerenti ai diritti civili e sociali”, che “non sarebbe più costituzionalmente dovuta, ma meramente condizionata (art. 5, comma 1, lett. g) del progetto)” (http://www.giuristidemocratici.it/post/20120217180910/post_html).
E’ stato introdotto di soppiatto, senza dare nell’occhio, “perchè tutti o quasi tutti i partiti politici si erano messi preventivamente d’accordo con il governo per realizzare tale modifica della costituzione nel modo più rapido possibile e quasi al riparo dall’attenzione dell’opinione pubblica”, senza minimamente considerare che “le disposizioni costituzionali in tema di procedimento di revisione tendono … ad evitare che le riforme del testo costituzionale siano portate a compimento nel silenzio generale” (A. Cervati, op. cit.).
La “mutazione” [cfr. G. Jellinek, Mutamento e riforma costituzionale, Lecce, 2004 (ed. or. 1906)] della forma di Stato, operata dal governo Monti con la tecnica del “ritocco”, era tuttavia urgente: occorreva rispettare le aspettative dei mercati ed ottenerne la “fiducia”, assai più importante, per il capo dell’esecutivo c.d. “di emergenza nazionale”, di quella parlamentare già ottenuta. Occorreva inoltre rispettare le disposizioni ricevute dalle istituzioni finanziarie e dagli apparati di comando della UE.
In nessun cale veniva pertanto tenuto il “convegno sulla revisione dell’art. 81”, organizzato dall’Associazione per la democrazia costituzionale e tenutosi a Roma il 22 febbraio 2012 (con la partecipazione dei Senatori Finocchiaro, Pardi e Vita) al fine di “richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sulle gravi conseguenze della revisione dell’art. 81 che, su pressione dell’UE, mira a introdurre in Costituzione il pareggio di bilancio”. A chiusura del quale il Prof. Francesco Bilancia, che aveva presieduto l’incontro, metteva in luce “le ferite che il fiscal compact provoca alla Costituzione, riflesse nel nuovo articolato dell’art. 81”, augurandosi che “un Parlamento che, lungi dall’essere stato scelto, è stato nominato”, non si macchiasse “di questo vulnus senza dare almeno la possibilità di giungere al referendum ex art. 138” (qui il report del convegno: http://www.riforme.net/2012/rass12-17.htm).
Auspicio prontamente disatteso dal Parlamento, scodinzolante cagnolino della UE.
La “frode alla Costituzione” – nel senso (già illustrato da G. Liet-Veaux, La fraude à la Constitution, in Revue de droit public, 1943; http://www.ibs.it/code/9788861520776/liet-veaux-georges/laquofrode-alla-costituzioneraquo.html ) di subdolo utilizzo delle procedure di revisione costituzionale per instaurare un nuovo ordine di valori apparentemente costituzionali, ma in contrasto con l’ordine esistente – posta in essere con la revisione dell’art. 81 Cost., non pone tuttavia solo un problema di procedura, ma di sostanza, ovvero di tenuta (rectius, di violazione) della superiore legalità costituzionale, con riferimento alla forma sociale del nostro Stato.
Nelle righe che precedono, discutendo dei problemi di procedura, ho in parte anticipato le questioni di sostanza, ma vediamo di approfondire.
Come efficacemente osserva la Prof. Ines Ciolli (in La Costituzione alla prova della crisi finanziaria mondiale, relazione a V Giornate italo-ispano-brasiliane di diritto costituzionale, Lecce, 14 e 15 settembre 2012; http://www.gruppodipisa.it/wp-content/uploads/2012/10/CiolliDEF.pdf), “agire attraverso una fonte costituzionale negli Stati membri permette al fiscal compact di superare la natura di fonte internazionale e di tramutarsi in una fonte di diritto interno che comporta una maggiore efficacia e precettività delle norme, oltre che attivare il controllo di costituzionalità in caso di violazione del pareggio, operando così mediante un controllo di tipo giurisdizionale e non politico che garantisca il rispetto del Fiscal compact e del patto di stabilità più di quanto non sia riuscita a imporre la Corte di Giustizia” (così anche V. Ruiz Almendral, La estabilidad presupuestaria en la Constitución española, V giornate italo-ispano-brasiliane di diritto costituzionale, Lecce 14 e 15 settembre 2012, ora in Rivista telematica dell’Associazione “Gruppo di Pisa” in www.gruppodipisa.it, p. 7).
La nuova formulazione dell’art. 81 Cost., in altre parole, trasferisce “sul piano interno” la contrapposizione tra due attività di indirizzo politico: “quella aderente ai principi dello Stato democratico sociale previsti in Costituzione e quella che è effettivamente esercitata sulla base dei Trattati comunitari, più concentrata sulle finalità della concorrenza e della stabilità monetaria e finanziaria”. “E’ sul piano interno che si devono comporre i conflitti tra logica del vincolo di bilancio e tutela dei diritti, in particolare di quelli a prestazione. Contemperare l’esigenza di rigore economico con la garanzia dei diritti, bilanciamento che non era precedentemente contemplato in Costituzione, significa incidere sulla nostra forma di Stato sociale” (I. Ciolli, op. cit., 13-14).
Incidere sulla forma di Stato sociale vuol dire, come abbiamo visto, incidere sugli obblighi derivanti dal principio di uguaglianza sostanziale, fondamento costituzionale dello Stato sociale. Vuol dire “mutare l’ordine dei valori repubblicani invocando un adeguamento ai principi del diritto pubblico europeo” (A. Cervati, op. cit.). I cui obiettivi “non coincidono con quelli disposti dalla nostra Costituzione, in particolare con l’obiettivo dell’eguaglianza sostanziale, con la conseguenza che invece di essere l’ordinamento comunitario a conformarsi ai principi proclamati nella nostra Costituzione come fondamentali, è l’ordinamento costituzionale italiano a modellarsi su quello comunitario cominciando a ragionare essenzialmente in termini di eguaglianza formale e di diritto di non discriminazione” (F. Salmoni, op. cit., 127).
D’altra parte, la riforma costituzionale incide anche pesantemente “sulla forma di Stato regionale” (S.Gambino – W.Nocito, op. cit., 20; analogamente F.Bilancia, Note critiche sul c.d. “pareggio di bilancio”, in Associazione Italiana dei Costituzionalisti, Riv. n.2/2012; http://www.rivistaaic.it/note-critiche-sul-c-d-pareggio-di-bilancio.html).
L’art. 81, sesto comma, Cost. – come mod. dall’art. 1 della L. cost. n. 1 del 2012 – recita infatti: “il contenuto della legge di bilancio, le norme fondamentali e i criteri volti ad assicurare l’equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni sono stabiliti con legge approvata a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna camera, nel rispetto dei principi definiti con legge costituzionale”. L’art. 5, primo comma, lett. g), della L. cost. n. 1 del 2012 precisa che la legge rinforzata di attuazione (cioè quella indicata al sesto comma dell’art. 81 revisionato) – “disciplina, per il complesso delle pubbliche amministrazioni”, le “modalità attraverso le quali lo Stato, nelle fasi avverse del ciclo economico o al verificarsi di eventi eccezionali”, “concorre anche in deroga all’art. 119 della Costituzione”, ad “assicurare il finanziamento, da parte degli altri livelli di governo, dei livelli essenziali delle prestazioni e delle funzioni inerenti ai diritti civili e sociali”.
La Legge 24 dicembre 2012, n. 243 (Disposizioni per l’attuazione del principio del pareggio di bilancio ai sensi dell’articolo 81, sesto comma, della Costituzione) prevede, all’art. 11, che nelle “fasi avverse del ciclo economico” o al ricorrere di “eventi eccezionali”, lo Stato possa sovvenzionare gli enti territoriali (che non possono indebitarsi per supplire agli effetti del ciclo economico, potendo farlo solo lo Stato) con le risorse attivabili nelle suddette circostanze sfavorevoli. Queste risorse alimentano (anche) un apposito fondo (il “Fondo straordinario per il concorso dello Stato”), finalizzato al “finanziamento dei Livelli Essenziali delle Prestazioni e delle funzioni fondamentali inerenti ai diritti civili e sociali”.
L’identificazione del fasi favorevoli e sfavorevoli, beninteso, deve avvenire “sulla base dei criteri stabiliti dall’ordinamento dell’Unione europea” (art. 2, comma 1, lett. f).
Il concetto di eventi eccezionali è definito invece dall’art. 6 della legge n. 243. Si tratta di gravi recessioni dell’intera area euro, o dell’Unione, oppure di eventi straordinari e non controllabili dal singolo Stato, comprese le calamità e gravi crisi finanziarie, con rilevanti ripercussioni sull’economia nazionale.
Al ricorrere di tali presupposti, previa consultazione con la Commissione europea, il Governo può essere autorizzato dalle Camere (con voto a maggioranza assoluta dei componenti) a discostarsi dagli obiettivi a medio termine per reperire risorse vincolate a far fronte agli eventi in questione. Contestualmente, deve essere previsto un piano di rientro verso gli obiettivi di bilancio. Solo in questi casi è consentito allo Stato indebitarsi per realizzare operazioni sulle partite finanziarie (art. 4, comma 4; art. 6, comma 6).
Al di là dei dubbi che tali norme possono generare, legati alla condizione di crisi economica (cfr., sul punto, I.Ciolli, op. cit., 24-25: “in queste circostanze, infatti, il livello di prestazione potrebbe finire con il coincidere con quello del nucleo essenziale del diritto e dunque garantire solo un livello minimo di tutela. Non essendo mai stata del tutto chiarita dalla Corte costituzionale la portata del nucleo essenziale, il giudice costituzionale potrà valutare solo l’eventuale irragionevolezza del provvedimento per la manifesta contraddittorietà, ma non c’è un vero e proprio parametro di riferimento secondo il quale valutare se e in che misura la tutela del diritto non sia stata garantita. Pertanto anche quando si voglia sostenere che i LEP sono nati per la necessità di combinare il rispetto dei vincoli della finanza pubblica con l’esigenza di superare «squilibri socio-economici territoriali» evidentemente perduranti, oggi il momento della perequazione è indubbiamente destinato a restare in ombra rispetto alla tentazione di compressione al fine di rispettare i vincoli economici”), appare evidente, sulla scorta delle norme medesime, che la garanzia dei “Livelli Essenziali delle Prestazioni” (LEP) e delle funzioni fondamentali inerenti ai diritti civili e sociali non è “più costituzionalmente dovuta, ma meramente condizionata” (S.Gambino – W.Nocito, op. cit. 20).
Ed è altrettanto evidente che “i margini di discrezionalità nella formazione di un indirizzo di politica economica e finanziaria” nazionale, “che agisca sul lato della spesa pubblica in funzione anticiclica”, vengono sostanzialmente azzerati dalla riforma costituzionale, rimanendo l’indirizzo politico nazionale “pressoché edulcorato e schiacciato dalle decisioni comunitarie” (I. Ciolli, op. cit., 13).
I nuovi vincoli costituzionali di bilancio, in buona sostanza, finiscono per “limitare grossolanamente l’intervento pubblico nell’economia, riducendone le capacità di finanziamento ed eliminando la possibilità per lo Stato di farsi, anche solo occasionalmente, intermediario finanziario, togliendo di mezzo quella forma di investimento finanziario risk free (almeno, finché gli Stati non devono salvare la banche private) costituita dai titoli di Stato” [G.Ferrara, Lettera-appello ai parlamentari…, cit. Lo stesso Prof. Ferrara, poco dopo l’approvazione della legge costituzionale da parte del Parlamento, affermava efficacemente: “Con tale approvazione un altro demerito si accompagnerà a quelli sciaguratamente ottenuti dal nostro paese in tema di regimi politici. Il demerito di aver inventato un nuovo tipo di Costituzione. A quelle scritte, consuetudinarie, flessibili, rigide, programmatiche, pluraliste, liberali, democratiche, lavoriste, si aggiungerà la Costituzione abdicataria, una costituzione-decostituzione. Un ossimoro istituzionale che preconizza una recessione seriale che, partendo dalla neutralizzazione della politica, porterà alla compressione dei diritti e poi alla dissoluzione del diritto, sostituito dalla mera forza del dominio economico” (Regressione costituzionale, in http://www.unite.it/UniTE/Engine/RAServeFile.php/f/File_Prof/SCIANNELLA_1409/Pareggio_bilancio_commento_2.pdf , 18 aprile 2012).
Con il compianto Prof. Salvatore D’Albergo (uno dei maggiori conoscitori e dei più fedeli interpreti della Costituzione repubblicana) si può dunque concludere sul punto ribadendo che il “principio” del pareggio di bilancio conferisce “un carattere residuale alle scelte che dovrebbero mirare a soddisfare i bisogni della collettività ed a qualificare socialmente l’azione delle istituzioni complessivamente considerate”. La legge di revisione ha fatto a pezzi un carattere fondamentale del nostro modello costituzionale, quello che impone alle istituzioni nazionali, regionali e locali l’obbligo di esercitare il potere in senso conforme ai principi ed ai fini della Costituzione (S.D’Albergo, Dalla stabilità economica alla destabilizzazione sociale, cit. in G. Bucci, Le fratture inferte dal potere monetario e di bilancio europeo agli ordinamenti democratico-sociali, Costituzionalismo.it, fasc. 3/2012 http://www.costituzionalismo.it/articoli/431/).
Non senza ricordare l’ulteriore e gravissima distorsione portata dalla legge di revisione, posta in evidenza nel mio precedente articolo “Il corpo estraneo” (https://www.appelloalpopolo.it/?p=136800): con la sentenza n.10/2015 la Corte Costituzionale si è attribuita una facoltà non prevista dalla legge. Ha estratto l’equilibrio-pareggio di bilancio dalla Sezione II del Titolo I della Parte II della Costituzione (ovvero dalle norme riguardanti la“formazione delle leggi”) e lo ha elevato a principio fondamentale, “che s’impone sempre e comunque come limite dei diritti fondamentali, anche senza l’interposizione del legislatore”, “di cui la Corte deve direttamente (cioè senza il medium della legge) tenere conto svolgendo il «compito istituzionale» che le è affidato” (R.Bin, Quando i precedenti degradano a citazioni e le regole evaporano in principi, intervento al Seminario organizzato da Quaderni costituzionali sulla sentenza n. 10/2015, svoltosi presso la Biblioteca de “il Mulino” il 18 marzo 2015, in http://www.forumcostituzionale.it/wordpress/wp-content/uploads/2015/04/bin1.pdf). Principio addirittura supremo e inderogabile, in grado di escludere la retroattività delle restituzioni conseguenti alla dichiarazione di incostituzionalità di una norma e di degradare pertanto la tutela effettiva di un diritto fondamentale (derivante da principi inderogabili) previsto dalla Costituzione a pretesa eventuale, in quanto soggetta alle esigenze di bilancio fissate dall’art. 81 Cost. revisionato.
La superiore legalità costituzionale, con riferimento alla forma sociale dello Stato, può dunque ritenersi fatta a pezzi dalla legge costituzionale in questione.
- Approdo alla c.d. “nuova costituzione economica europea”. Rinvio.
Per tali ragioni, accingendomi a scrivere “Il corpo estraneo”, mi ero posto il problema di come affrontare un discorso sull’incostituzionalità della revisione dell’art. 81 Cost. senza scadere nel banale e ripetere concetti già espressi dalla dottrina costituzionalista. E mi era sembrato originale farlo mettendo a confronto due sentenze recenti della Corte Costituzionale che concretamente dimostravano come, in un modo (sentenza n.10/2015) e nell’altro (sentenza n. 70/2015), l’“esigenza” del pareggio di bilancio – elevata impropriamente a principio fondamentale (sentenza n. 10), o correttamente ignorata, in quanto esclusivamente rivolta al legislatore (sentenza n.70) – comportasse il sacrificio, totale o parziale, di principi fondamentali e/o di diritti inalienabili della persona [per la mancata tutela effettiva, sotto il profilo restitutorio, dei principi di cui agli art.li 3 e 53 Cost. violati dalla Robin Tax (nel caso della sentenza n.10), o (mutuando l’argomentare della Corte) per “l’irragionevole redistribuzione della ricchezza”, con “irrimediabile pregiudizio delle esigenze di solidarietà sociale” e “con grave violazione degli artt. 2 e 3 Cost.” (nel caso della sentenza n.70)]. Per arrivare quindi alla conclusione che la Corte aveva perso un’ottima occasione per prendere atto che la norma sul pareggio di bilancio è un vero e proprio “corpo estraneo” all’ordinamento configurato dalla Costituzione del 1948 [essendo il “portato di un modello socio-economico diverso e incompatibile con quello del 1948”, che ridisegna la“funzione dello Stato” (cfr. http://orizzonte48.blogspot.it/2015/05/resa-totaleo-la-finzione-non-puo-piu.html): da Stato sociale, così come voluto dai padri costituenti, a Stato minimo, secondo i canoni più classici del pensiero ordoliberista] e sottoporre la stessa al sindacato di costituzionalità.
Alla luce di tutto ciò, appariva a prima vista assai singolare un’annotazione, “lanciata” su Facebook, con il quale un accademico dell’Università di Chieti-Pescara così commentava il mio articolo: “una simpatica teoria politica, priva di qualsiasi senso giuridicamente fondato”. Al di là dello stile un po’ sprezzante (ma ci sta: è tipico del cattedratico che giudica lo scritto di un semplice avvocato di provincia), appariva davvero strano che un accademico liquidasse in un modo così sbrigativo l’argomento della incompatibilità tra i vincoli di bilancio introdotti dalla legge costituzionale n.1/2012 e la forma sociale dello Stato configurata dalla nostra Costituzione del 1948, sul quale la dottrina si era espressa con le ampie argomentazioni sopra richiamate.
Da una sua successiva annotazione, con la quale spiegava di essere “un fautore della costituzione materiale” – fatta “all’ingrosso coincidere con la costituzione economica” – aggiungendo che “è proprio la costituzione materiale/economica attuale che impone l’equilibrio di bilancio”, comprendevo tuttavia che l’accademico non stava parlando della Costituzione della Repubblica italiana, quella nata dallo spirito della Resistenza ed incorporante, nei suoi principi fondamentali ed immutabili, tutti i valori di quella grande scuola di democrazia.
Stava invece alludendo ad un “riferimento sovrapositivo o ideale, idoneo a designare un nuovo tipo di socialità economica, intrinsecamente legata al funzionamento del mercato”, cioè “di un nuovo ordine giuridico-economico, dotato di una propria logica” e (asseritamente) “situato a un livello superiore rispetto allo stato nazionale, ritenuto compatibile con il piano della legalità costituzionale interna, perchè apparentemente incentrato sulla mera riscrittura di regole tecniche e sulla riorganizzazione della strumentazione ordinaria di azione economica e finanziaria dei governi” (L. Patruno, Il modello istituzionale europeo e l’idea di costituzione, Ed. Giappichelli, Torino, 2006, 164).
Di tale argomento, tanto importante quanto complesso, tratterò tuttavia nel mio prossimo articolo, che costituirà la seconda parte di questo lavoro.
Mario Giambelli (ARS Lombardia)
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