La "frode alla Costituzione" (seconda parte)
di MARIO GIAMBELLI (ARS Lombardia)
Premessa (da leggere, è importante): questo fondamentale articolo, pur essendo completamente autonomo, è il seguito di quello pubblicato il 5 ottobre scorso ed intitolato La “frode alla Costituzione”. Come avevo anticipato nella premessa della prima parte, si tratta di un percorso lungo ed impegnativo, soprattutto in questo seguito che tratta del c.d. “nuovo ordine giuridico-economico”, o “nuova costituzione economica europea”. Esamineremo in ogni suo aspetto, in ogni sua sfumatura questa importante teoria (o teologia) e la faremo a pezzi, come giustamente merita un progetto esclusivamente finalizzato ad espellere la democrazia dal circuito delle istituzioni al servizio dei mercati. Conscio della mole e dell’impegnativo livello tecnico di questa mia fatica, ma anche dell’imprescindibile necessità, per ogni sovranista, di comprendere bene la tematica ivi sviluppata (è fondamentale conoscere anche le argomentazioni, come vedremo estremamente fallaci, del nemico) e di farne un utile patrimonio di informazioni, suggerisco di affrontarne la lettura con la massima attenzione, gradualmente, anche a più riprese, senza la pretesa di esaurirla in una sola sessione e previamente stampando l’articolo, così da tenere costantemente sott’occhio il progredire di argomenti in esso sviluppati. Sono ovviamente a disposizione (anche telefonica per chi possiede il mio numero di cellulare) per ogni eventuale chiarimento. Buona lettura.
Sin dalla prima lettura dei trattati UE risulta palese che, nel quadro istituzionale ivi tracciato, il “mercato” – inteso come spazio (art.26 TFUE) di un’economia aperta e in libera concorrenza (art. 119 commi 1 e 2, 120, 127 TFUE) – ha un ruolo ed una valenza fondante.
Chiariamo bene il senso di tale affermazione.
Se il contenuto tecnico della nozione di “concorrenza” è precisato nel Titolo VII della prima parte del TFUE (art.li 101 e ss.), “i valori cui con tutta evidenza s’ispira l’intero sistema comunitario sono quelli c.d. liberali, dell’economia di mercato, nel rispetto dei quali il grande mercato europeo deve consentire agli imprenditori di competere tra loro ad armi pari e sulla base delle rispettive capacità e possibilità; ed ai consumatori di scegliere i prodotti e i servizi che ritengano migliori e dove siano più convenienti” (G.Tesauro, Diritto comunitario, Padova, Cedam 2001, 526; corsivo, grassetti e sottolineature aggiunte, anche per tutte le successive citazioni).
La “valenza fondante” di tali valori, che condizionano tutte le scelte di politica economica e sociale degli apparati di comando dell’Unione, appare dalla semplice constatazione che nella gerarchia degli interessi comunitari non sono le finalità sociali, ma quelle economiche ad “essere collocate sui gradini più alti” (M.Luciani, La costituzione italiana e gli ostacoli all’integrazione europea, in Politica del diritto, n.4, 1992, 579).
Lo si evince dall’art. 3, comma terzo, TUE, nonchè dall’art. 119, commi primo e secondo, 120 e 127, primo comma, TFUE, che stabiliscono il “principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza”, in conformità del quale dev’essere condotta tutta la politica economica e monetaria della UE. “Proprio il principio della libera concorrenza […] appare essere stato concepito come il faro dell’azione della Comunità, della quale è all’un tempo criterio e scopo essenziale. Come criterio, esso funziona da norma agendi per gli interventi comunitari. Come scopo, viene sostenuto dai mezzi istituzionali più possenti che la Comunità abbia a disposizione (in particolare, da quelli monetari…)” (M.Luciani, op. cit., 579).
“La tecnica organizzatoria usata dai Trattati” realizza del resto “una perfetta neutralizzazione politica dell’intero apparato istituzionale della Comunità. La scelta politica generale, infatti, è già tutta compresa nella decisione degli Stati, fu statuita nei Trattati e risulta determinata anche puntualmente nelle normative che questi contengono. E’ la scelta per la realizzazione piena ed integrale dell’economia di mercato aperta e in libera concorrenza”. Ci troviamo dunque “di fronte alla configurazione schmittiana (ovviamente aggiornata, stanti le caratteristiche della congiuntura storica che viviamo) dell’esercizio dei poteri costituzionali da parte di istituzioni neutralizzate […] per la decisione massimamente politica degli Stati di abbattere le istituzioni necessarie ad assicurare l’intervento pubblico nell’economia (al fine di mediare il conflitto sociale) e di restaurare rigorosamente l’economia capitalistica di mercato, congiungendo le iniziative, le politiche, gli strumenti istituzionali necessari a questo scopo, rendendoli comuni in uno spazio da rendere anch’esso comune per contestuale decisione interstatale” (G.Ferrara, I diritti politici nell’ordinamento europeo, in Associazione Italiana dei Costituzionalisti, Annuario 1999, La costituzione europea, Atti del XIV Convegno annuale, Perugia, 7-8-9 ottobre 1999, Padova, Cedam 2000, 487-488).
Dare esecuzione all’economia di mercato (che, con il Trattato di Lisbona, ha assunto il più rassicurante appellativo di “economia sociale di mercato fortemente competitiva”: art. 3, comma terzo, TUE; vedremo fra poco in cosa consiste l’aggettivazione “sociale”) in libera concorrenza, con i suoi “principi direttivi” della “stabilità dei prezzi”, delle “finanze pubbliche e condizioni monetarie sane”, di una “bilancia dei pagamenti sostenibile” (art. 119 TFUE), rappresenta oggi l’ “obiettivo principale” (se non l’unico) degli organi di comando dell’Unione (Commissione, Consiglio, BCE) e delle istituzioni governative degli Stati membri (art.li 119, 120, 127 TFUE).
E’ l’ “integralismo del mercato” (E.Hobsbawn, How to change the World, 2011, traduz. it., Come cambiare il mondo. Perchè riscoprire l’eredità del marxismo, Milano, Rizzoli 2011, 18).
Non si tratta, però, di “un’ideologia politica nel senso tradizionale”, “quasi fosse soltanto uno strumento al servizio del potere economico – sebbene non possa sussistere alcun dubbio che lo sia”, bensì di “una forma di fede” (L.Gallino, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Torino, Einaudi 2011, 30-31), di un vero e proprio “credo”, assai distante dalla realtà economica, radicato in quel paradigma – determinante “sullo sviluppo e sull’assetto globale della società occidentale” – che Giorgio Agamben descrive con l’efficace locuzione di “teologia economica” (G.Agamben, Il regno e la Gloria. Per una genealogia teologica dell’economia del governo, Torino, Bollati Boringhieri, 2009, 13).
Nella sua nuova articolazione teorica detta “ordoliberalismo”, esso, d’altra parte, pare ambire a “una portata che trascende la sfera economica”, attribuendo a se stesso “una naturale attitudine espansiva come elemento pervasivo dell’ordine sociale” (P.Ridola, Diritti di libertà e mercato nella “costituzione europea, in Associazione Italiana dei Costituzionalisti, Annuario 1999, La costituzione europea, Atti del XIV Convegno annuale, Perugia, 7-8-9 ottobre 1999, Padova, Cedam 2000, 352).
Approfondendo il primo concetto, Giorgio Agamben ricorda che la “teologia economica” sostituisce alla più nota “teologia politica” (“che fonda nell’unico Dio la trascendenza del potere sovrano”) “l’idea di un’oikonomia, concepita come un ordine immanente – domestico e non politico in senso stretto – tanto della vita divina che di quella umana”. Dalla “teologia politica”, continua il noto filosofo, “derivano la filosofia politica e la teoria moderna della sovranità”; dalla “teologia economica” deriva invece “la biopolitica moderna fino all’attuale trionfo dell’economia e del governo su ogni altro aspetto della vita sociale”.
Non è possibile illustrare nè riassumere, in questa sede, il complesso, articolato e dotto studio di Giorgio Agamben.
Ai nostri fini è tuttavia importante ricordare che l’oikonomia è l’attività svolta secondo la volontà di Dio, ciò che esprime il piano divino, l’attività ordinata a un fine (G.Agamben, op. cit., 40). E’ la relazione d’ordine fra le leggi generali fissate da Dio e le singole volontà particolari (libere di convenire sui reciproci interessi ed aspettative) e rappresenta una specifica arte di governo.
Così come Dio, in quanto sovrano, non deve agire “dal principio alla fine secondo volontà particolari, moltiplicando all’infinito i suoi interventi miracolosi” (così da evitare il “caos e, per così dire, un pandemonio di miracoli”), ma “deve regnare e non governare, fissare le le leggi e le volontà generali e lasciare al gioco contingente delle cause occasionali e delle volontà particolari la loro più economica esecuzione” (G.Agamben, op. cit., 295-296), allo stesso modo il Legislatore deve limitarsi a fornire le regole di diritto che disciplinano lo svolgimento dei fatti economici, lasciando questi pienamente liberi di esplicarsi.
Gli Stati devono cioè assumere la figura di soggetti neutrali rispetto ai fatti economici che si svolgono nei loro territori e la funzione di arbitri, che si limitano ad esercitare un ruolo di controllo esterno ed imparziale, precipuamente finalizzato a ripristinare il libero gioco della concorrenza nel caso in cui questo risulti falsato.
Sul presupposto, indiscusso ed indiscutibile (proprio in quanto provvidenziale, fideistico) che la libera economia degli scambi e della concorrenza (ovvero l’ordine economico delineato dall’economia politica classica: sistema dei prezzi come sistema ottimale di allocazione delle risorse; armonia dei progetti economici individuali attraverso la naturale selezione della concorrenza) sia il modello ideale di convivenza e di regolazione dei rapporti sociali, gli Stati devono dunque limitarsi a fissare le regole giuridiche che consentano, all’interno del mercato unico, l’equilibrio della concorrenza.
La politica, accolto questo presupposto fideistico, questo dato pre-riflessivo di teologia economica, non può fare altro che riconoscere ed imporre, con l’autorità derivante dal suo ruolo, il sistema del mercato aperto e in libera concorrenza, introducendolo nel tessuto costituzionale come disciplina legislativa della concorrenza.
Tale sistema diventa così il frutto di una decisione globale di natura politica, il cui contenuto consiste nel sottrarre al potere politico ed alla comunità sociale la direzione della vita economica e la composizione dei relativi conflitti socio-economici, per affidarli ad un “procedimento astratto”: “la competizione” [F.Böhm, Wettbewerb und Monopolkampf, Eine Untersuchung zur Frage des wirtschaftlichen Kampfrechts und zur Frage der rechtlichen Struktur der geltenden Wirtschaftordnung, Berlin, Heymann 1933, 107, cit. in L.Di Nella, La scuola di Friburgo o dell’ordoliberalismo, in N.Irti (a cura di), Diritto ed economia. Problemi e orientamenti teorici, Padova, Cedam 1999, 202].
Siffatta decisione è, a sua volta, l’atto “costituzionale” che dà forma politica all’ordine economico liberale classico (pur mancando un soggetto politico portatore di quell’ordine) e che instaura il c.d. “ordine giuridico dell’economia”.
Espressione nella quale il termine “ordine”, quale concetto positivamente valutato (poichè consente il libero gioco o, come si suol dire, la “democrazia” della concorrenza), esprime il valore a cui si deve ricondurre la validità dell’ordinamento [cioè dell’intreccio di regole e principi dedicati alle politiche economiche e finanziarie (nel nostro caso comunitarie e nazionali)] e la possibilità stessa di riconoscerlo come una “costituzione”, concepita non in senso normativo tradizionale (la Costituzione come “norma”), ma in senso “ordinamentale”, ovvero come un “nuovo ordine giuridico-economico”. Un ordine-costituzione “dotato di una propria logica”, (asseritamente) “situato a un livello superiore rispetto allo stato nazionale, ritenuto compatibile con il piano della legalità costituzionale interna, perchè apparentemente incentrato sulla mera riscrittura di regole tecniche e sulla riorganizzazione della strumentazione ordinaria di azione economica e finanziaria dei governi” e dotato di “carattere prescrittivo” per la sua sola e semplice “vitalità fattuale” (L. Patruno, Il modello istituzionale europeo e l’idea di costituzione, Ed. Giappichelli, Torino, 2006, 166), cioè per la forza (legittimante) dei fatti che ne hanno imposto le norme.
E’ la “nuova costituzione economica europea”, l’ordine giuridico “materiale” della UE a cui si riferiva l’accademico dell’Università di Chieti-Pescara citato nella parte conclusiva del mio precedente articolo (https://www.appelloalpopolo.it/?p=14453) (ed al quale l’equilibrio di bilancio – per tornare all’opinione espressa da quello stesso cattedratico – è notoriamente funzionale).
Un ordine giuridico “materiale” del tutto indipendente dalla nostra Costituzione formale, “ma anche dalla rilevanza dei problemi di partecipazione, uguaglianza e integrazione sociale che essa reca con sé” (L.Patruno, Addio “costituzione” europea? I nomi: Trattato, Costituzione; la cosa: il diritto europeo, Costituzionalismo.it, fasc. 2/2007: http://www.costituzionalismo.it/articoli/250/), la cui supremazia sul diritto interno degli Stati – dopo la decisione assunta dal Consiglio europeo del 21-22 giugno 2007 di cancellare il termine “costituzione” dal lessico istituzionale europeo e conseguentemente di escludere che ai trattati riformandi si potesse attribuire, anche indirettamente, una qualsiasi valenza costituzionale – viene sancita addirittura per iscritto.
Al par. 3 delle sue conclusioni, il Consiglio affermava infatti che, per quanto attiene al primato del diritto dell’UE sul diritto degli Stati membri, la Conferenza intergovernativa avrebbe dovuto adottare un’apposita Dichiarazione, da allegare al Trattato riformato, che richiamasse il già esistente case-law della Corte di giustizia delle comunità europee. In particolare, il Consiglio ribadiva che la Conferenza avrebbe dovuto concordare sulla seguente Dichiarazione: “La Conferenza ricorda che in accordo con il ben definito case-law della Corte di giustizia dell’UE i Trattati e il diritto adottato dall’Unione sulla base dei Trattati hanno preminenza sul diritto degli Stati membri, alle condizioni fissate dal suddetto case -law”.
A parte l’evidente paradosso (o penoso espediente?) sul quale poggia la surriferita decisione del Consiglio europeo [consistente, da una parte, nell’abbandonare esplicitamente l’idea di una “costituzione” europea e, dall’altra, nello stabilire che venga affermata – in una specifica Dichiarazione da allegare al nuovo Trattato- la supremazia del diritto comunitario sul diritto interno degli Stati membri secondo lo schema messo a punto dalla Corte di giustizia dell’UE, la quale ha sempre motivato detta supremazia definendo i Trattati “la Carta costituzionale fondamentale della Comunità” (sent. 23 aprile 1986, causa 294/83, Les Verts c. Parlamento, in Racc., p.1339) o, quantomeno, vedendo in essi, fin dall’inizio, la ratifica di un ordinamento autonomo, dotato di immediata rilevanza pratica, un ordine giuridico sui generis (sent. 5 febbraio 1963, causa 26/62, NvAlgemene Transport-en Expedite Onderneming van Gend en Loos c. Nederlandse Administratie der belastingen, in Racc., p.3), il punto di partenza (e infine di arrivo) del processo di costituzionalizzazione europeo], il “primato” dallo stesso affermato ed imposto non deriverebbe dunque “dalla superiorità gerarchicamente codificata di un Trattato internazionale”, quanto “dal farsi, dall’ imporsi di un ordinamento giuridico (quello comunitario, appunto) di nuovo genere” (L.Patruno, op. ult. cit.) che, “nascendo dall’instaurazione di un mercato comune”, non avrebbe potuto “limitarsi a creare obblighi reciproci fra Stati contraenti, ma doveva necessariamente far sentire i propri effetti su tutti i soggetti gravitanti nell’area del libero scambio certificata e garantita dal Trattato di Roma, anche, dunque, sulle persone fisiche e giuridiche degli Stati membri” (Corte di Giustizia delle Comunità europee, sent. 5 febbraio 1963, causa 26/62, NvAlgemene Transport-en Expedite Onderneming van Gend en Loos c. Nederlandse Administratie der belastingen, cit., in L.Patruno, op. ult. cit.).
Una superiorità in progress, non giustificabile dal punto di vista del costituzionalismo democratico, rimanendo, come vedremo, irrisolto (o, meglio, risolto a monte, con la sua strategica rimozione) il problema della legittimazione democratica di siffatto ordinamento.
Un ordinamento, quello del mercato regolato giuridicamente, al quale la teorica ordoliberista – rappresentandolo come “l’istituzione presuntivamente più sociale rivolta alla distribuzione dei beni” (L. Di Nella, La scuola di Friburgo o dell’ordoliberalismo, in N.Irti (a cura di), Diritto ed economia. Problemi e orientamenti teorici, Padova, Cedam 1999, 179) – attribuisce pure l’attitudine a svolgere una funzione sociale di strutturazione democratica.
Il che ci conduce al secondo concetto a cui abbiamo in precedenza accennato, ovvero alla supposta “attitudine espansiva”, quale “elemento pervasivo dell’ordine sociale” del mercato concorrenziale regolato giuridicamente.
Concetto la cui logica è direttamente ricavabile dalla parole di F.Böhm: “l’ordine della concorrenza”, afferma il padre dell’ordoliberalismo, “si qualifica come una ideale base sociale per un ordinamento democratico dello Stato. Esso infatti si fonda sull’idea di sfruttare al massimo la possibilità di coordinamento dei liberi individui con l’impiego ingegnoso delle leggi di reazione psicologica, delle regole sociali del gioco e degli ordinamenti civilistici e di concedere alla subordinazione della persona, a mezzo di poteri di comando e di pianificazione, solamente quel margine minimo che gli è necessario per proteggere l’ordine della libertà e per impedire il formarsi delle tipiche situazioni sociali di ingiustizia”. La libertà politica, in tale situazione, si realizza allorchè la libera dipendenza dei consociati dalle leggi di mercato è il frutto dell’applicazione delle regole della concorrenza: “si tratta di nessi di ordine che hanno il carattere di quotidiani processi di votazione e di scelta, di procedimenti che vengono attivati a mezzo dei consociati ed ai quali i consociati stessi reagiscono come di fronte alle elezioni politiche. Ogni giorno milioni di massaie e di consumatori si avviano al mercato muniti di schede elettorali in forma di banconote, si orientano tra i beni offerti sulla base dei prezzi e dell’apparenza e fanno una scelta in forma di decisione di acquisto conformemente al loro giudizio ed alla loro scala dei bisogni […] [il] giornaliero processo di votazione e di scelta avviato dai consumatori influisce e determina tutte le decisioni e le pianificazioni economiche elaborate in tutti i settori e livelli della struttura del sistema produttivo. Se osservate con attenzione, le cosiddette leggi di mercato non sono altro che una democrazia plebiscitaria attiva in ogni momento, spinta agli estremi e tecnicamente perfezionata al massimo, un referendum popolare che dura tutto l’anno e si svolge dalla mattina fino alla notte inoltrata, la più ideale forma tecnica della democrazia oggi esistente. Con ciò giungiamo al risultato: l’economia di mercato si concilia con la costituzione democratica dello Stato […] perchè si combina alla perfezione con la democrazia politica in quanto essa stessa esprime un processo democratico. Di democratico vi è poi nell’ordine della concorrenza anche questo, che esso rispetta i desideri di consumo dei cittadini nella forma e nei contenuti in cui essi effettivamente sono fatti valere” (F.Böhm, Wirtschaftsordnung und Staatsverfassung, in E-J.Mestmäcker (a cura di), Freiheit und Ordnung in der Marktwirtschaft, Baden – Baden, Nomos 1980, 87-88, cit. in L.Di Nella, La scuola di Friburgo o dell’ordoliberalismo, cit. 206-207).
Esamineremo tra poco su quali suggestioni è costruita tale “logica”.
Prima, però, dobbiamo occuparci del presupposto fideistico su cui poggia il paradigma ordoliberalista, ovvero l’idea, assunta a postulato, che la libera economia degli scambi e della concorrenza sia il modello ideale di convivenza e di regolazione dei rapporti socio-economici.
L’atto di fede consiste dunque nel recepire, come un dato oggettivo (o, meglio, provvidenziale) l’idea che il modello economico neo-liberista (o capitalista), libero dai vincoli, dalle restrizioni o dai condizionamenti posti dalle democrazie costituzionali del secondo dopoguerra, conduca di per sé ad un maggior benessere sociale.
A confutare questo assunto “teologico”, distante anni luce dalla realtà storico-economica, aveva già provveduto Costantino Mortati, spiegando, a proposito del liberalismo post rivoluzione francese, che “nel campo dei rapporti della produzione e dello scambio si riteneva che le scelte individuali dominate dalle leggi economiche, in sé razionali, riescono, se lasciate libere in un regime di piena concorrenza, a realizzare meccanicamente l’optimum di benessere sociale”, ma che “la fallacia di tale concezione della libertà, che potrebbe definirsi extra-temporale perché assunta senza alcuna considerazione delle condizioni necessarie al suo esercizio, doveva essere dimostrata dall’esperienza storica, da cui risultò come la libera gara delle iniziative economiche private, da una parte, conduceva a mettere in condizioni di grave inferiorità gli esclusi dal possesso dei mezzi di produzione, e, dall’altra, promuoveva la concentrazione di questi ultimi in poche mani, con la conseguente eliminazione dei benefici della concorrenza” (C.Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, Tomo I, Decima edizione, Padova 1991, 146).
Proprio in quest’ottica appare dunque singolare quell’annotazione (“lanciata” su Facebook) del precitato accademico dell’Università di Chieti-Pescara, che definiva il contenuto di un mio articolo (“Il corpo estraneo”: https://www.appelloalpopolo.it/?p=13680) “una simpatica teoria politica, priva di qualsiasi senso giuridicamente fondato”: definire una “teoria politica” l’argomento (che è invece strettamente giuridico) della incompatibilità tra i vincoli di bilancio introdotti dalla legge costituzionale n.1/2012 e la forma sociale dello Stato configurata dalla nostra Costituzione del 1948, senza pensare che la tesi alternativa non si regge su una “teoria”, ma su un vero e proprio atto di fede, è infatti una curiosa svista che, se non fosse per la sua tragica ricaduta sul piano delle conseguenze sociali, risulterebbe anche involontariamente buffa e divertente.
Mentre tuttavia il pensiero ordoliberista costruiva, in ambito europeo e su quest’atto di fede (contraddetto dall’esperienza storica), la sua concezione ordinatrice teoricamente foriera di benessere sociale, la storia di questi ultimi anni – caratterizzata dalla crisi economico-finanziaria (“esito obbligato di una crisi generale della struttura economica capitalistica che, per oltre un trentennio si è dispiegata nelle forme della finanza speculativa, capace di garantire una redditività maggiore, in tempi sempre più brevi” e prodotto delle sue leggi di funzionamento più elementari, ossia del “modo in cui, nella nostra società, sono ripartite la proprietà e la ricchezza, si scambiano le merci e si adopera il denaro”: G.Bucci, Diritto e politica nella crisi della “globalizzazione”, in Democrazia e diritto, n.2, 2009), dal progressivo e generalizzato impoverimento dei popoli europei, dai fallimenti, dall’emarginazione sociale, dai suicidi, dalla crescente disoccupazione, dalla precarizzazione del lavoro, dalla cancellazione delle conquiste sociali del secolo scorso, dalla prepotente sottomissione di interi popoli ai dictat delle elites dominanti – rivelava, ancora una volta, la fallacia di quell’atto di fede ed assumeva i connotati di quel “mattatoio” (G.W.F.Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte (1837), tr. it., Lezioni sulla filosofia della storia, Firenze, La Nuova Italia, 2001, 68) che avrebbe fatto a pezzi, con enorme spargimento di sangue (non soltanto metaforico) e inaudite sofferenze, tutti i più elevati obiettivi programmatici delle Costituzioni democratiche novecentesche.
Ed è per questo che la curiosa svista a cui ho accennato sopra appare nient’affatto simpatica o divertente.
Passando ora alla presunta democraticità costituzionale della teorica ordoliberale (e, dunque, all’asserita funzione sociale del mercato concorrenziale), la prima cosa che sorprende è il concetto stesso di democrazia da questa proposto.
Nel pensiero ordoliberista, la democrazia non consiste o, meglio, non si identifica con il compito, con il dovere primario e irrinunciabile dello Stato di rendere effettiva l’eguaglianza tra i cittadini (attivandosi con tutte le sue istituzioni per rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto l’uguaglianza e la libertà dei cittadini e ne impediscono il pieno sviluppo della personalità e l’effettiva partecipazione alla cosa pubblica, cioè l’esercizio della sovranità: art. 3 comma secondo Cost.), ma con il rispetto dei loro “desideri di consumo”. Essa, in buona sostanza, si risolve in un sondaggismo permanente di mercato (agitato dalla concorrenza) nell’ambito del quale la spesa della “massaia” corrisponde al suo voto elettorale, l’offerta del sistema produttivo equivale ad una proposta politica e la banconota ad una scheda elettorale.
La demenzialità di un paradigma che concepisce il processo (ed il progresso) democratico come una questione “tecnica” (la spesa della massaia) non trova spiegazione se non ipotizzando un disturbo mentale dei suoi propugnatori. E come tale sarebbe sufficiente liquidarlo.
Va peraltro osservato – fingendo che il concetto di democrazia (fortemente regressivo sul piano del principio di eguaglianza) proposto dalla teoria della concorrenza sia una questione seria – che tale concetto si basa su una presunta uguaglianza degli attori della vita economica, siano essi produttori o consumatori, i quali “voterebbero” istantaneamente ogni giorno, strutturando così in modo “democratico” l’ordine sociale della convivenza.
Equiparare il ricco al povero, il capitalista al salariato, assumendo che tali soggetti abbiano la stessa capacità di conoscere e di controllare i processi che influenzano i loro atti cognitivi e volitivi, o che abbiano gli stessi mezzi per informarsi o le stesse possibilità di evitare che a loro arrivino non solo “i contenuti di un’informazione selezionata e distorta”, ma quelle “griglie selettivo-distorsive” (D.Zolo, Da cittadini a sudditi. La cittadinanza politica vanificata, Roma, Edizioni Puntorosso, 2007, 32-33) che consentono una determinata interpretazione dei fatti, significa rovesciare la realtà (si pensi soltanto a come certi gruppi professionali organizzati, quali le grandi aziende capitalistiche, possano giovarsi di un accesso privilegiato ai media) e, con essa, rovesciare “un postulato etico-politico della civiltà contemporanea fatto proprio dall’espressione più avanzata del costituzionalismo del Novecento”: il principio di eguaglianza (G.Ferrara, La carta europea dei diritti. Da Weimar a Maastricht, in La Rivista del manifesto, n.10, 2000: http://www.larivistadelmanifesto.it/archivio/10/10A20001007.html).
Rispetto a tale fantasiosa impostazione il Prof. Francesco Bilancia non ha mancato di segnalare come sia arduo “considerare categorie omogenee e decisive, consapevoli ed agenti all’unisono, i piccoli risparmiatori ed i consumatori, da un lato, e gli speculatori finanziari, i grandi investitori, le varie tipologie qualitative e dimensionali di imprese, dall’altro”, rimarcando inoltre come sia difficile considerare “credibile obiettivamente che il mercato, i mercati finanziari, siano macchine razionali, neanche come sintesi (operata da “mani invisibili”) della razionalità di tanti, migliaia, di soggetti diversi”. “Vedo i mercati finanziari” – prosegue l’autorevole costituzionalista – “governati, piuttosto, dall’emozione, per non dire spesso dall’isteria collettiva, dagli atteggiamenti di speculatori, questi si razionali, che interpretano il proprio ruolo, come si suol dire, anche giocando al ribasso; più spesso governati da leggi imperscrutabili, in quanto composte da infinite variabili, molte delle quali inconoscibili, rispetto alle quali le giustificazioni che gli analisti formulano sugli andamenti dei mercati, finanziari e mobiliari, sembrano spesso ingenui tentativi di esorcizzare la paura dell’ignoto, per non dire di predire il futurodegli sviluppi imprevedibili dell’economia, almeno per le masse degli investitori”; ragion per cui “una forte capacità di influenza sugli andamenti dei sistemi politici il capitale finanziario, in verità, la possiede. Ma non quello governato dalla “mano invisibile” e quasi mai razionale del mercato, quanto piuttosto quello gestito dai sistemi di politica economica riconducibili a soggetti determinati, quali i gruppi transnazionali” (F.Bilancia, La crisi dell’ordinamento giuridico dello stato rappresentativo, Padova, Cedam, 2000, 101-102).
Vincolandosi alla superiore legalità costituzionale, il popolo, negli Stati costituzionali, ha imposto forme e limiti a se stesso e, dunque, all’esercizio della sua sovranità. Ciò al fine di “impedire l’impunita riemersione dei poteri forti e la sopraffazione delle contingenti maggioranze uscite vittoriose dai procedimenti elettorali” e “cercando di ridurre (e questo dovrebbe essere il parametro per poter valutare una presunta continuità tra gli stati costituzionali europei e l’ordinamento comunitario) la portata e la consistenza di quella “finzione” che nello Stato liberale moderno discendeva da un sistema rappresentativo che, pur affermando in linea di principio la propria derivazione dalla sovranità popolare (e dunque postulando un qualche collegamento legittimante tra organi statali e collettività popolare), discriminava in concreto i cittadini in “attivi” e “passivi” a seconda del loro censo e riservava i diritti politici a una ristretta cerchia di privilegiati”. “L’emarginazione del momento politico-rappresentativo in favore di una democrazia imperniata sull’esercizio diretto delle proprie libertà economiche […] è fatalmente funzionale”, nella teorica ordoliberista (e, quindi, nell’ordinamento giuridico dell’Unione), “alla riespansione di quella “finzione” […] e alla sua passiva accettazione” (L.Patruno, Il modello istituzionale europeo e l’idea di costituzione, op. cit., 181-182-183).
L’asserita democraticità del mercato concorrenziale regolato giuridicamente (connaturata al suo spontaneo sondaggismo permanente) non è dunque solo il frutto di una logica un tantino disturbata, ma è un “falso ideologico”, una menzogna, pensata peraltro a fini strumentali, ovvero per sostenere che la “naturale attitudine espansiva” della libertà di mercato, “come elemento pervasivo dell’ordine sociale” all’interno della costruzione comunitaria non comporterebbe “alcuna frattura rispetto alla forma costituzionale degli stati europei, ma semmai la continuazione o, tutt’al più, un aggiornamento della linea di tendenza presente nello “Stato costituzionale di questo secolo” (P.Ridola, Diritti di libertà e mercato nella “costituzione europea, cit., 353, cit. in L.Patruno, Il modello istituzionale europeo e l’idea di costituzione, op. cit., 179). Questo perchè anche l’ordinamento comunitario prevederebbe che il mercato, al pari di ogni altro aspetto della vita sociale, sia appunto un mercato regolato […], “condizionato” e “costituito” dall’espansione della sfera pubblica europea e rimodulato alla luce di quei nuovi fini che, a partire dagli anni novanta del XX secolo […], avrebbero sempre di più orientato la direzione del processo “costituente” europeo verso mete di “integrazione positiva”: la protezione sociale, il livello elevato di occupazione, lo sviluppo armonioso e sostenibile delle attività economiche, insomma tutti quegli obiettivi già inscritti nel patrimonio genetico dello Stato sociale costituzionale” (L.Patruno, Il modello istituzionale europeo e l’idea di costituzione, op. cit., 179).
A tale assunto è facile obiettare che, in un contesto funzionalizzato al solo obiettivo della “instaurazione di un mercato unico e di un’unione economica e monetaria” (i cui principi direttivi sono quelli indicati dall’art. 119 TFUE, tra i quali spicca la “stabilità dei prezzi”), l’utilizzo di espressioni come “protezione sociale”, “elevato livello di occupazione”, “elevato livello di protezione dell’ambiente”, “sviluppo armonioso, equilibrato e sostenibile delle attività economiche” significa “evocare principi ed obiettivi riferibili alle conquiste di civiltà giuridica dello Stato sociale di diritto” curvandone però la portata e condizionandone “il significato in funzione del fine specifico della Comunità” (G.Ferrara, I diritti politici nell’ordinamento europeo, in Associazione Italiana dei Costituzionalisti, Annuario 1999, La Costituzione europea. Atti del XIV Convegno annuale, Padova, 2000, 496).
Se pertanto, da un lato, “la progressiva immissione nell’ordinamento comunitario di principi politico-ideologici di evidente natura costituzionale […] sembra […] volta soprattutto a consentire che le corti costituzionali nazionali rinuncino ad esercitare un controllo di costituzionalità nei confronti della normativa comunitaria secondaria (regolamenti e direttive)” (C.Amirante, Costituzionalismo e Costituzione nel nuovo contesto europeo, Torino, Giappichelli, 2003, p. XVIII), appare, dall’altro, “evidente la mistificazione operata con il riconoscimento dei diritti sociali” nei Trattati UE. Questi li citano, ma garantiscono ed istituzionalizzano l’economia di mercato in libera concorrenza, “senza limiti, la quale non solo detiene il rapporto di forza e di supremazia da un punto di vista materiale, ma ha la forza di ottenere la trascrizione “costituzionale” di tale rapporto” (A.Algostino, Democrazia sociale e libero mercato: Costituzione italiana versus “costituzione europea”?, Costituzionalismo.it, Fascicolo 1/2007, 21 febbraio 2007: http://www.costituzionalismo.it/articoli/243/).
Ciò avviene a discapito della democrazia sociale, sottraendo l’economia alla politica, al controllo democratico [ricorda in proposito la Prof. Alessandra Algostino, citando anche il Prof. Francesco Bilancia, che “ogni volta che si cedono competenze all’Unione Europea, ovvero che essa si sostituisce allo stato, si verifica una sottrazione di democrazia in favore della legge del mercato capitalistico; si attua “una neutralizzazione della dimensione politica del sistema”, un “depotenziamento della rappresentanza politica”, riducendo la democrazia (come partecipazione effettiva al governo) a mera forma (cfr. F.Bilancia, Referendum, populismo e moneta unica. A proposito della costituzione europea, in Costituzionalismo.it, 16 giugno 2005)”; ribadisce anche il noto filosofo e sociologo Ralf Gustav Dahrendorf che “ nonostante tutte le riforme […], tutto quello che viene deciso in europa è sottratto al controllo democratico. Più Europa significa sempre anche meno democrazia” (R.G.Dahrendorf, La società riaperta, dal crollo del muro alla guerra in Iraq, Laterza, Roma-Bari 2005, 322)].
Con particolare riferimento al lavoro ed all’eguaglianza ne abbiamo parlato qui: https://www.appelloalpopolo.it/?p=13343 e qui: https://www.appelloalpopolo.it/?p=13515 ed in questa sede non serve ripeterci.
L’asserita continuità del “nuovo ordine giuridico-economico”, della “nuova costituzione economica europea” con “la forma costituzionale degli Stati europei” ci conduce d’altra parte, alla questione conclusiva, ma importantissima, di questo lungo, ma (spero) chiarificatore, articolo, ovvero alla (duplice) tematica della legittimazione democratica di tale ordinamento e della sua compatibilità con la legalità costituzionale interna degli stati, con particolare riferimento allo Stato italiano.
La prima questione, quella della legittimazione, come abbiamo visto, è stata risolta, dalle istituzioni dell’Unione, per così dire “a monte”, con la sua strategica rimozione, mettendo per iscritto che “i Trattati e il diritto adottato dall’Unione sulla base dei Trattati hanno preminenza sul diritto degli Stati membri” alle condizioni fissate dal case-law della Corte di giustizia dell’UE.
Essa, pur essendo una questione congenita al processo di costruzione comunitario, si era riproposta con grande attualità proprio nel momento in cui il Consiglio europeo aveva negato che i Trattati potessero, in futuro, essere qualificati, a qualsiasi titolo, come la “Costituzione” dell’Unione, facendo così riaffiorare tutti i dubbi sull’affermata (dalla Corte di Giustizia della UE) supremazia del diritto europeo sul diritto interno e sulle norme costituzionali degli Stati membri. E continua a proporsi ora, nonostante la decisione del Consiglio europeo e la conforme giurisprudenza della Corte di Giustizia della UE, per una serie di ragioni che ci apprestiamo ad indagare.
Sappiamo, in primo luogo, che è possibile distinguere tra una legittimazione basata sul diritto ed una legittimazione fondata sul consenso. Si distingue, a tal proposito, tra “legalità” e “legittimità”.
Né l’una, né l’altra appaiono concepibili se riferite all’ordine giuridico-economico della UE.
Quest’ultimo, infatti, (discorrendo di “legalità”) “non conosce la legge né conosce la Costituzione, sicchè non è possibile ragionarvi di legalità secondo gli schemi tradizionali che sono stati elaborati in riferimento all’ordinamento dello Stato. Che l’ordinamento comunitario non conosca la legge sembra evidente: fermo restando che l’imputazione della legge alla volontà generale è sempre (anche nella dimensione statuale) una fictio, nessuno potrebbe ragionevolmente proporre una finzione così estrema come quella che imputasse a quella volontà il diritto comunitario derivato, che è frutto di un processo decisionale nel quale la rappresentanza è presente solo nella forma debole assicurata dal Parlamento europeo e, comunque, non possiede voce determinante” (M.Luciani, Legalità e legittimità nel processo di integrazione europea, in G.Bonacchi (a cura di), Una costituzione senza stato, Bologna, Il Mulino 2001, 73-75).
Quanto alla costituzione, a prescindere dalla negazione espressa dal Consiglio europeo (ut supra), è chiaro ed inconfutabile che “una Costituzione europea in senso proprio non esiste. La mancanza di un atto costituente riconducibile ad un popolo sovrano, il mancato ossequio del montesquieviano principio della separazione dei poteri, l’assenza (almeno fino al Trattato di Amsterdam) di un compiuto catalogo dei diritti capace di porre sotto il principio guida dell’uguaglianza formale e sostanziale i rapporti tra l’Unione Europea ed i suoi cittadini, rivelano come si sia davvero distanti dall’impalcatura filosofica e giuridica che sorregge il costituzionalismo moderno e contemporaneo, rappresentandone l’essenza. La Costituzione europea, come “atto di un popolo che crea un governo”, come strumento di “limitazione del potere e di garanzia dei diritti” allo stato attuale non esiste”. Il relativo progetto “si risolve e si surroga in un ordinamento giuridico non originario che, pur non trovando in sé il titolo della propria legittimazione, è comunque in grado di esprimere meccanismi propri di produzione e di applicazione di un diritto che, se alla prova dei fatti, si svela qualcosa di più di un diritto internazionale, è sicuramente ancora qualcosa di meno di un diritto costituzionale in senso proprio” (S.Gambino, L’Unione Europea e la Costituzione italiana: prospettive e limiti del costituzionalismo europeo (in via di formazione), in La costituzione materiale. Percorsi culturali e attualità di un’idea, A.Catelani e S.Labriola (a cura di), Quaderni della Rassegna Parlamentare, Giuffrè, Milano 2001, 472).
Per tale ragione “in assenza di una costituzione e di una fonte che possa ragionevolmente chiamarsi legge, nell’ordinamento comunitario la legalità, prima ancora di essere insufficiente, non è neppure pensabile” (M.Luciani, op. ult. cit., 81).
Quanto invece alla “legittimità” (e, quindi, alla legittimazione basata sul consenso), si è giustamente osservato che il diritto primario europeo, in quanto “diritto posto ed imposto attraverso i trattati” (i quali, pur essendo vincolanti per gli Stati membri, “non sono espressione dell’autodeterminazione di un popolo europeo che, riconoscendosi tale, sceglie la forma giuridica della propria unità politica”) si caratterizza sempre di più come un “costituzionalismo dei governanti”, ovvero “un costituzionalismo dall’alto, molto diverso, quindi, da quel “costituzionalismo dei governati” protagonista della costruzione degli Stati europei nel primo e (soprattutto) nel secondo Novecento”. Esso “è ben lungi dal rispondere ai canoni tradizionali della democrazia rappresentativa ormai parte integrante della cultura politica e giuridica degli ordinamenti giuridici occidentali”. Le più importanti decisioni restano infatti di esclusivo appannaggio “della tecnocrazia comunitaria” o “dei vertici degli esecutivi dei singoli Stati”, organi che, “mancando di rappresentatività […], finiscono per difettare in legittimità oltre che in responsabilità” (S.Gambino, op. ult. cit., 473-474).
Se all’evidente difetto di legittimità aggiungiamo poi che, essendo impossibile per i parlamenti nazionali concorrere ai processi decisionali degli organi di comando dell’Unione (ancor meno allorchè arriveranno le c.d. “riforme costituzionali”), “il costituzionalismo europeo opera una sostanziale espropriazione del potere legislativo” (per quanto riguarda, soprattutto, la politica economica, fiscale, monetaria e di bilancio), è giocoforza concludere che l’ordine giuridico-economico della UE determina “un’incisiva lesione di quel principio della sovranità popolare che, pilastro portante dello Stato di diritto, oltre ad individuare nei cittadini l’origine ed il fondamento della sovranità, vuole che i fondamentali poteri dello Stato siano esercitati dagli stessi mediante rappresentanti liberamente eletti” [S.Gambino, op. ult. cit., 475; ricordiamo, in proposito (https://www.appelloalpopolo.it/?p=13149), che la dichiarazione di appartenenza della sovranità al popolo, di cui all’art. 1 Cost., implica la permanenza dell’esercizio di questa nel popolo come contrassegno essenziale ed ineliminabile del regime democratico e significa che l’esercizio dei poteri più elevati, cioè quelli che condizionano la direzione e lo svolgimento degli altri, è attribuito al popolo in modo ineliminabile, sicché questo non possa esserne spogliato nemmeno attraverso procedimenti di revisione costituzionale. Il diritto del popolo di partecipare alle supreme decisioni politiche rientra cioè fra i diritti inalienabili di cui al successivo art.2, restando così sottratto al potere di revisione (Mortati, Op. cit., Tomo I, Decima edizione, Padova, 1991, 153 ss.)].
Non si tratta soltanto di un deficit di legittimità e, quindi (difettando pure la legalità), di legittimazione democratica. Con la lesione (recte: l’espropriazione) del principio della sovranità popolare, la nostra Repubblica ha cessato di essere “democratica”.
Nell’ordinamento dell’Unione si è operato (e si sta tutt’ora operando, in misura sempre più estesa) un trasferimento della sovranità verso una cupola di comando (composta da Capi di Stato o di governo, tecnocrazia, centri economico-finanziari) che segue strategie e linee operative esclusivamente mirate alla costruzione ed al funzionamento dei mercati. “Bruxelles e Francoforte sono divenuti i centri di potere: un circuito di istituzioni al servizio dei mercati, da cui è espulsa la democrazia” (v.Paul Craig, The Lisbon Teatry, Oxford 2010, 287-291).
E’ perciò palese la carenza di legittimazione democratica del “nuovo ordine giuridico-economico”, della “nuova costituzione europea”, e l’impossibilità di giustificare, dal punto di vista del costituzionalismo democratico, la sua supremazia (viceversa affermata dalla Corte di Giustizia della UE e messa per iscritto dal Consiglio europeo) sul diritto interno degli Stati.
Ed è parimenti evidente la sua incompatibilità con la superiore legalità costituzionale interna del nostro Stato, ponendosi esso non solo in totale discontinuità con “la forma costituzionale degli Stati europei”, ma in radicale contrasto (per quanto si è detto appena sopra: non può esservi continuità, né compatibilità, tra uno Stato sociale e perciò democratico ed un ordinamento a-democratico ad impronta oligarchico-plutocratica).
Ciò nonostante il diritto dell’Unione, come emergente dai Trattati, pur avendo espunto la parola “costituzione” dal suo lessico istituzionale, è un diritto solido, integrato, ramificato e totalmente condizionante la vita dei popoli europei.
E’ questo un dato di fatto che va esaminato e qualificato per quello che è, al di là di tutte le stucchevoli elucubrazioni dottrinali (di una parte della dottrina costituzionalistica) con le quali si è cercato di legittimare l’ordinamento dell’Unione in termini non necessariamente democratici, concependo cioè la democrazia solo come una possibile variante funzionale del sistema ordinamentale.
Ciò è stato possibile, da un lato, negando che “la normatività del diritto presupponga o sia necessariamente radicata in valori oggettivi e in principi immanenti al giusto” e ritenendo invece “che sia possibile spiegare le norme giuridiche e sociali (eteronome) e quelle individuali (autonome) senza bisogno di un tale presupposto”, sulla semplice constatazione della “esistenza di norme e istituzioni giuridiche”, nel senso che “la validità dell’ordinamento giuridico nel suo complesso” dipenderebbe “da un accertamento riguardo alla circostanza che le norme fondamentali del sistema giuridico, di cui una singola norma in questione è parte, siano elementi di istituzioni effettivamente esistenti” (N.MacCormick–O.Weinberger, Grundlagen des Institutionalistichen Recthtspositivismus, 1985, tr. it. a cura di M.La Torre, Il diritto come istituzione, Milano, Giuffrè, 1990, cit. in L.Patruno, Il modello istituzionale europeo e l’idea di costituzione, op cit. 45) e, dall’altro, attribuendo, come abbiamo già visto, al concetto in sé di “ordinamento” (quale insieme di elementi disposti secondo un certo ordine) una valutazione positiva e, quindi, all’ “ordine” il significato di valore a cui si deve ricondurre la validità del sistema ordinamentale.
In questo modo la “costituzione” europea esisterebbe come modo di combinarsi di un sistema di norme, dotato di unità, coerenza e completezza, la cui fonte di validità (la base di riconoscimento sociale) risiederebbe nelle istituzioni (intese come entità sociali) da cui le stesse norme promanano.
Senonché tali entità (ciò che, utilizzando un’efficace espressione di Costantino Mortati, potremmo chiamare “le forze politiche dominanti”), poste alla base dell’asserita legittimazione (e individuabili – “nell’attuale fase di destrutturazione delle forze politiche organizzate nella forma dei partiti politici” – nelle imprese, nei media, nelle autorità e poteri tecnici, nel sistema bancario, nelle comunità di Stati (come la UE) nelle “organizzazioni estranee al circuito della rappresentanza democratica, ma dotate di una nuova sovranità, come il FMI, il WTO, la BCE, ecc.”, in tutti quei soggetti produttori di culture politiche diffuse che incidono sulla determinazione dei fini fondamentali: cfr. G.Azzariti, La costituzione materiale e le forze politiche “dominanti”, in La costituzione materiale. Percorsi culturali e attualità di un’idea, op. cit., 300), ovvero le “gerarchie che materialmente e moralmente dirigono una società” (L.Patruno, Il modello istituzionale europeo e l’idea di costituzione, op. cit., 50), possono esprimere, nel processi decisionali comunitari, interessi dotati di una forza, di una capacità, di un’informazione nettamente maggiori rispetto a quelli dei singoli cittadini degli Stati europei (e, comunque, di una forza differente anche nell’ambito delle stesse entità).
In tale paradigma “i diritti di partecipazione sono privilegi di alcuni, non diritti di tutti” (F.Bilancia, Considerazioni critiche sul concetto di “legge europea”, in AA.VV., Scritti in ricordo di Giovanni Motzo, Napoli, Editoriale Scientifica 2004, 63).
In altre parole, quando sul piano del diritto costituzionale il valore è l’ordine in sé, il problema del consenso (ovvero la questione della legittimazione del sistema normativo) “tende a risolversi in favore degli interessi privati di coloro che lo esprimono con maggior vigore, di coloro che dispongono delle risorse materiali adeguate e hanno accesso ai rimedi negoziali e giudiziali necessari a farlo valere con la dovuta forza” (L.Patruno, Il modello istituzionale europeo e l’idea di costituzione, op. cit., 49).
La “costituzione” ordinamentale europea si risolve così in un ordinamento “in cui il “popolo” si esprime ma chi conta sono i ceti possidenti: tradotto in linguaggio più attuale, si tratta della vittoria di una oligarchia dinamica e incentrata sulle grandi ricchezze” (L.Canfora, La democrazia, Storia di un’ideologia, Roma-Bari, Laterza 2004, 331). E’ il ritorno di un passato caratterizzato da quell’oligarchia liberale che aveva dominato la scena politica sino al secondo confitto mondiale, che aveva condotto agli effetti devastanti della grande crisi del 29 e a quelli, altrettanto devastanti del nazi-fascismo e che, con l’avvento della stagione del costituzionalismo democratico, si riteneva definitivamente ed irreversibilmente superato.
Il che, tuttavia, poco importa: questa “legge dei vincitori” (ibidem, 285), per la sua materiale efficacia, avrebbe infatti la capacità di “ordinamentalizzare” anche le Costituzioni normative nazionali, “dando vita a un macro-ordine di sistemi giuridici interattivi (quel pluralismo costituzionale, che è parte essenziale della costituzione ordinamentale)” (L.Patruno, Il modello istituzionale europeo e l’idea di costituzione, op. cit., 50).
Sarebbe il metodo del “pluralismo inclusivo”, ovvero “il principio secondo cui ordini giuridici tra loro distinti, ma autenticamente normativi, possono coesistere” (N.MacCormick, Questioning Sovereignty. Law, State, and Nation in the European Commonwealth, 1999, tr. it. di A.Torre, La sovranità in discussione. Diritto, stato e nazione nel “Commonwealth” europeo, Bologna, Il Mulino, 2003, 204-205).
Questo ordinamento composito (detto anche “multilevel constitution”) richiamerebbe la nozione di “costituzione mista” (nella quale i principi di un ordinamento coesistono e si fondono con quelli di un altro: ad esempio applicando il principio di competenza di cui agli art.li da 2 a 6 TFUE) “la quale dovrebbe aiutarci ad accettare che ciò che comunemente viene percepito come deficit democratico dell’Unione europea, altro non sarebbe che lo stesso modo d’essere della struttura costituzionale sovranazionale, una risorsa organizzativa per realizzare – in forme diverse dalle consuete concezioni “olistiche” della democrazia – il bene comune, anzi il bene comune nelle sue molteplici e anche contraddittorie manifestazioni”. E ciò significherebbe che “la questione inerente all’Europa non dovrebbe pertanto chiedersi se essa sia totalmente e completamente democratica, bensì se sia adeguatamente tale in relazione al tipo di entità che si intende realizzare”. In tal senso la democrazia sarebbe una variante funzionale del sistema ordinamentale e, seguendo tale linea di pensiero, diverrebbe addirittura possibile prospettare una “legittimazione democratica degli oligarchi” (N.MacCormick, Questioning Sovereignty. Law, State, and Nation in the European Commonwealth, op. cit. 289-290-291, cit. in L.Patruno, Il modello istituzionale europeo e l’idea di costituzione, op. cit., 51-52).
Ciò che più colpisce e che indigna di queste fantasiose elucubrazioni – basate su presupposti chiaramente fallaci (l’ordine come fine a cui l’ordinamento tende e, quindi, come valore in sé; le istituzioni-entità sociali, ovvero le gerarchie dominanti, come fonte di riconoscimento sociale del sistema di norme da esse stesse prodotte; la possibilità di legittimare l’ordinamento dell’Unione in termini non democratici, prescindendo dalla rappresentanza) ed escogitati al solo, miserabile, fine di giustificare, sul piano teorico-dottrinale, la restaurazione di un sistema di potere oligarchico-plutocratico e, dunque, elitario e classista, fortemente regressivo dal punto di vista della democrazia rappresentativa “storicamente realizzata” (in quanto sistema necessitante, per la sua completa affermazione, di forme istituzionali diverse da quelle proprie della democrazia predetta) – rendendole “irricevibili”, è che le stesse vengono proposte nel più assoluto disprezzo del sacrificio sopportato dalle generazioni che ci hanno preceduto e del tributo di sangue dalle stesse pagato per consentire, con l’avvento del costituzionalismo democratico, il passaggio (esattamente inverso rispetto a quello di cui stiamo discutendo) dallo Stato liberale pre-fascista ed oligarchico (che aveva generato miseria, sofferenze, differenze sociali, conflitti di classe, esclusione delle classi subalterne da ogni funzione di governo e che era stato storicamente sanzionato dalla grande crisi del 1929-1932) allo Stato democratico (informato ai valori della Resistenza) e per permettere alle migliori intelligenze del nostro Paese di scrivere il più grande progetto di democrazia ideale che è la Costituzione della Repubblica italiana.
Con la pretesa (strumentale) di allargare gli orizzonti spaziali del costituzionalismo, in realtà (e compiendo un balzo all’indietro di oltre un secolo) si restringono drasticamente e volutamente quelli della democrazia, per l’affermazione della quale migliaia di Italiani, milioni di persone hanno combattuto, sacrificando gli anni migliori della loro vita, ma che rappresenta un grave ostacolo per la realizzazione degli interessi privati che agitano la teorica del nuovo ordine giuridico-economico, della nuova costituzione europea.
Constatata la spregevole disinvoltura morale ed intellettuale di chi giustifica e sostiene questo ignobile progetto, il dato di fatto con cui ci dobbiamo comunque confrontare è la coesistenza:
– da una parte, di una Costituzione formale che affonda le sue radici nello Spirito della Resistenza, nella comune volontà dei vari gruppi politici del tempo di affermare un modello sociale basato sui principi generali di libertà, di sovranità popolare (nel nuovo concetto di potere principalmente volto alla tutela dei diritti fondamentali, specie quelli sociali), di giustizia sociale, di intervento economico da parte dello Stato per assicurare la piena occupazione della forza lavoro e l’eguaglianza sostanziale. Di una Costituzione formale che, riflettendo le istanze progressivamente affermate dalla coscienza sociale (quindi l’insieme delle scelte e dei valori fondamentali che precedono e che fondano la normatività della Costituzione), impegna lo Stato-apparato a programmare la sua attività allo scopo di rendere effettiva la democrazia, garantendo a tutti uguali diritti, analoghe possibilità di partecipazione alla vita collettiva senza subire gli ostacoli frapposti dall’assetto sociale, tendendo alla massima diffusione del potere, al suo effettivo, concreto esercizio da parte del popolo. Di una Costituzione formale che è espressione di potere costituente, che è “Costituzione dei governati”;
– dall’altra parte, di un ordinamento che non ha legittimazione popolare, che cioè non possiede una base di riconoscimento sociale diffusa e credibile come quella della Costituzione formale, che pretende di legittimarsi nella forza delle istituzioni (le entità sociali, i gruppi socialmente ed economicamente più attivi ed influenti) e, perciò, dei “fattori non normativi” [“un “nuovo assetto di poteri” derivato dall’incontrollato esprimersi delle logiche del commercio e della finanza” e che “ha segnato, a livello sovranazionale, l’instaurarsi di una “libertà di fatto” sempre più refrattaria a sottoporsi al controllo e alla decisione democratici”: cfr. M.Luciani, La crisi del diritto nazionale, in AA.VV. Storia d’Italia, Annali 14, Legge Diritto Giustizia, (a cura di) Luciano Violante, Torino, Einaudi, 1998, 1008 ss.] che lo hanno imposto, che predica e si fonda su valori radicalmente antitetici, del tutto incompatibili, alternativi, a quelli che fondano la Costituzione formale [lo abbiamo visto qui: https://www.appelloalpopolo.it/wp-content/uploads/2015/01/Il-bigino-del-perfetto-guastafeste.pdf ed abbiamo approfondito l’analisi in tutti i nostri successivi articoli, per cui non serve ripeterci. Del resto non può esservi coesistenza, integrazione o interazione, ma solo un inevitabile conflitto, tra un ordinamento che fonda sul lavoro e, quindi, sull’obiettivo della piena occupazione, a cui deve tendere l’intervento dello Stato nell’economia, la possibilità di realizzare l’eguaglianza sostanziale e di rendere, con essa, effettiva la democrazia, ed un altro ordinamento che espressamente vieta ogni intervento statale nell’economia (in quanto elemento in grado di alterare il libero gioco della concorrenza), che considera la piena occupazione come il (teorico) risultato di un riequilibrio naturale (teoricamente) ottenibile lasciando agire liberamente la legge della domanda e dell’offerta sul mercato del lavoro (considerato come merce), che ha come obiettivo principale (ma in realtà unico) quello di dare esecuzione all’economia di mercato con tutti i suoi “principi direttivi” (a cominciare dalla “stabilità dei prezzi”, alla quale è funzionale il mantenimento di un elevato tasso di disoccupazione)], che non muove “dalla necessità di produrre dei processi di sintesi della pluralità di interessi eterogenei”, ma che torna, come nell’Ottocento, “ad essere uno strumento di protezione di interessi omogenei, già selezionati, normativamente definiti nei testi dei Trattati” (F.Bilancia, Costituzione materiale, legalità ed Unione Europea, in La costituzione materiale. Percorsi culturali e attualità di un’idea, op. cit., 436-437), che tende ad impedire che l’intervento dei poteri pubblici si ponga in contrasto con gli interessi salvaguardati.
Come vada risolto tale conflitto è quindi la domanda (semi)conclusiva che dobbiamo porci.
La risposta è, per così dire, “agli atti”: sta, prima di tutto, nel differente fondamento di legittimazione, nella diversa base di riconoscimento sociale sui quali poggiano i due ordinamenti. Piano sul quale, come abbiamo visto, non c’è partita (almeno per chi la gioca senza pretendere di esserne anche l’arbitro).
E ciò basterebbe per affermare la schiacciante superiorità della Costituzione formale (nel suo disegno organico complessivo: forma di Stato, forma di governo, sistema elettorale; https://www.appelloalpopolo.it/?p=14535) e chiudere ogni discorso sul punto, considerando pacifica l’incostituzionalità dei Trattati e, quindi, della costituzione ordinamentale europea.
Ma non ci piace vincere facile. Possiamo andare oltre.
La “realtà sociale” (nella fattispecie, “l’esprimersi delle logiche del commercio e della finanza”, ammesso e non concesso che esso possa concepirsi come sostanza dei rapporti della nostra società) non potrebbe assolutamente rivestire “un carattere preponderante rispetto alla precettività della norma”.
Lo spiega, molto efficacemente, il Prof. Alessandro Catelani: l’opinione secondo la quale il dato sociale prevarrebbe sulla precettività della norma “porterebbe a configurare una priorità del dato sostanziale e pregiuridico rispetto a quello più propriamente formale e normativo, nel quale è invece insita l’essenza della giuridicità”. A questo punto “il diritto non esisterebbe più, e tutto sarebbe rimesso al concreto comportamento dei consociati”. Tutto ciò appare “particolarmente grave in riferimento alla Costituzione, la quale, come testo scritto, ha una sua ben precisa funzione di garanzia dei soggetti che appartengono alla collettività”. Sarebbe arbitrario riferirsi al solo comportamento delle forze sociali per sostituire tale dato, pregiuridico, alla Costituzione formale. “Se si fa riferimento, per definire il fenomeno giuridico, unicamente alla coattività che avrebbe il dato pregiuridico del comportamento delle forze sociali, anche quando, in ipotesi, apertamente contrastante con i precetti costituzionali, si viola la Costituzione correttamente intesa, perchè si disconoscono apertamente i precetti costituzionali, contraddicendo i principi dello Stato di diritto. […] Se si prescinde dalla norma e dalla forma giuridica nella quale essa si traduce, il diritto non esiste più, e comanda il dato sociologico. Non sarebbe più il diritto che condiziona la società, ma sarebbe la società stessa che si struttura al suo interno a seconda di un rapporto di forza. Ed il prescindere dal dato normativo e dalla legalità […] porterebbe […] alla legge del più forte ed alla sopraffazione basata sulla violenza. Non si può legittimare, chiamandola Costituzione, qualunque situazione di fatto attinente ad un certo assetto istituzionale. L’identificazione del diritto con la società, in quanto legittimante qualunque situazione di fatto, anche la più irregolare, è l’antitesi di ogni tutela dei diritti umani e naturali. Nella società necessariamente sono presenti forze prevaricatrici, alle quali sarebbe errato attribuire forza cogente di diritto positivo solo per il fatto che esistono. Così accadrebbe invece nel caso dell’asserita esistenza di una Costituzione, la cui giuridicità si identifichi con i rapporti di forza dei gruppi dominanti” (A.Catelani, La costituzione materiale e il diritto vivente, in La costituzione materiale. Percorsi culturali e attualità di un’idea, op. cit., 65-66-67).
E così accade oggi, con il tentativo (peraltro quasi completamente realizzato) di legittimare il “nuovo ordine giuridico economico”, la “nuova costituzione europea”, predicandone – per la sua “vitalità fattuale”, per il suo essere (e non per il suo dover essere), per il suo imporsi come espressione del dato sociale consistente nell’affermarsi del regime del mercato aperto e in libera concorrenza – la superiorità in progress rispetto alla Costituzione (formale) della Repubblica italiana (ed alle Costituzioni formali degli Stati membri dell’Unione).
Ma “non si può disconoscere la Carta Costituzionale senza scardinare le fondamenta stesse dello Stato di diritto” (A.Catelani, op. cit., 67).
Come giustamente osserva la Prof. Alessandra Algostino, “il costituzionalismo, la cui ratio consiste nella limitazione del potere, contraddice se stesso se non demistifica operazioni che, lungi dal costituirne un’estensione, ne violano l’essenza e le sue estrinsecazioni concrete, le costituzioni del secondo dopoguerra. Le violazioni delle costituzioni per quanto la forza del mercato appaia ineluttabile devono essere considerate come tali, non solo in rispetto di un mero formalismo giuridico, ma in quanto rispecchiano valori e principi che non possono essere considerati oramai superati (fra l’altro, nel caso italiano, quale indiretta conferma del “valore” della Costituzione, si può citare il referendum costituzionale del 25-26 giugno 2006) solo in ragione della vis espansiva (conquistatrice) della legge del mercato: il soggetto costituente sono le persone che costituiscono la comunità, non i poteri economici e chi li rappresenta. […] Un approccio realista è necessario, ma occorre non tramutarlo in approccio servente del potere” (A.Algostino, Democrazia sociale e libero mercato: Costituzione italiana versus “costituzione europea”?, op. cit.).
E’ altresì utile osservare (svelando così l’assurdità della tesi, sopra riferita, secondo la quale la normatività del diritto non presuppone e non è radicata “in valori oggettivi e in principi immanenti al giusto”, ma può essere spiegata “sulla semplice constatazione della esistenza di norme e istituzioni giuridiche”) che “ogni Costituzione moderna è sempre un testo normativo che codifica, attribuendogli […] una posizione sopraordinata nella gerarchia delle fonti, valori dello spirito, quali criteri generalissimi ai quali lo Stato si deve uniformare. […] Ogni Costituzione, ed in particolare la nostra, per le sue origini storiche, rispecchia una concezione dell’uomo e della società che è l’espressione ideologica e normativa della civiltà del popolo che l’ha adottata; rappresenta il risultato di tutta una cultura ed una tradizione – che per l’Italia è antichissima – la quale esprime, al loro livello più elevato, valori non contingenti ma assoluti. Le norme costituzionali danno giuridica vincolatezza a valori etici, […] adattandoli all’esigenza di garantire un ordinato svolgimento della vita associata. A livello di principi giuridici costituzionalizzati, vengono enunciati espressamente criteri di giustizia sostanziale che sono alla base della civile convivenza ed a fondamento del diritto stesso. […] I principi giuridici trovano il loro contenuto, la propria giustificazione, in principi pregiuridici di giustizia sostanziale, quali sono appunto i valori etici” (A.Catelani, op. cit., 71-72).
Insistendo su tale insegnamento, possiamo concludere ribadendo che “considerare la norma giuridica isolatamente dalla morale significa vederla non nella sua intrinseca essenza, […] ma come norma che necessariamente è venuta meno ai propri compiti, ossia come entità che devia dai propri fini. Il diritto adempie ad una funzione sociale, di garanzia dell’esistenza, sotto l’aspetto strutturale, della società, la quale è eticamente valida. Ogni società si basa fondamentalmente su valori spirituali e non su valori pratici, e sono quelli spirituali che ne condizionano la validità e la durata. Una società non può esistere garantendo solo il soddisfacimento di necessità materiali. Se mancano i valori spirituali, essa non può durare”. Può accadere che alla Costituzione si contrapponga “un rapporto di forza che sussiste, di fatto, all’interno della società, e che è compito della stessa Costituzione modificare, qualora appaia da essa difforme. La realtà sociologica che violi i precetti costituzionali ed i valori morali, dei quali quelli siano portatori, deve essere adeguata ai precetti costituzionali, quali sono contenuti nella Costituzione scritta” (A.Catelani, op. cit., 73-74).
E’ questa la risposta corretta all’interrogativo che ci siamo posti sopra.
Dobbiamo allora chiederci come debba essere qualificato il concreto prevalere dell’ordinamento dell’Unione, reso possibile, da un lato, da un’indecente classe politica, in parte ignorante e/o imbecille, in parte traditrice e corrotta (chi si sente chiamato in causa, si collochi nella categoria che avverte a sè più consona), dall’altro da una Corte Costituzionale che, per motivi poco comprensibili, sebbene facilmente immaginabili e di certo giuridicamente non giustificabili, si guarda bene dall’ “uscire dal guado” (http://orizzonte48.blogspot.it/2015/05/il-redde-rationem-la-corte-in-mezzo-al.html).
Non si chiama “pluralismo inclusivo”, o “giustificazionismo pratico” (la tendenza cioè ad utilizzare la teoria mortatiana della Costituzione materiale, stravolgendone il significato e la portata, “per giustificare ex post, ovvero in corso d’opera, ogni nuova realtà costituzionale, sostenendo sempre la validità di qualunque vicenda politica “materiale” e così prescindendo “da qualsiasi considerazione di compatibilità con riferimento alla norma della Costituzione, sempre ritenuto un confronto con un dato “formale” e, dunque, solo perciò, recessivo”: cfr. G.Azzariti, La costituzione materiale e le forze politiche “dominanti”, in La costituzione materiale. Percorsi culturali e attualità di un’idea, op. cit., 291).
Si chiama atto eversivo, sovversivo, come abbiamo spiegato nei nostri precedenti scritti (https://www.appelloalpopolo.it/?p=13149) e come purtroppo, molti giuristi, compresi i più duri critici dell’ordinamento comunitario, si rifiutano ancora oggi di capire.
Mario Giambelli (ARS Lombardia)
Mario Draghi non ha limiti né vergogna: si è inventato una “valenza costituzionale dei trattati” e una investitura popolare che legittimerebbe il GOVERNO della BCE.
“Il mandato della Bce nel suo senso più ampio poggia su un consenso radicato nella società. I politici ricevono il loro mandato nell’ambito di elezioni che riflettono voto dopo voto le preferenze degli elettori. Il mandato della BCE invece è inscritto in un testo che ha valenza costituzionale: il Trattato. Una costituzione si fonda su valori condivisi nel profondo dai cittadini; per questo motivo le costituzioni non sono, anzi non devono essere sottoposte periodicamente al vaglio elettorale. Per assolvere al nostro mandato godiamo di un elevato grado di indipendenza nelle nostre decisioni di politica monetaria. Ma questa libertà ha limiti precisi. Per conseguire i nostri obiettivi non possiamo utilizzare strumenti vietati dal Trattato; il finanziamento monetario dei governi è uno di questi. Ma non possiamo nemmeno cambiare quegli obiettivi: per esempio, la rinuncia ad assolvere il mandato che ci è stato affidato non è un’opzione percorribile. Ma non ci è neppure consentito assumere comportamenti che di fatto ridefinirebbero le disposizioni del Trattato, come l’appartenenza o meno di un paese all’area dell’euro. In sintesi, il nostro mandato è definito dal Trattato.”
http://www.corriere.it/economia/15_novembre_05/draghi-cattolica-discorso-integrale-68ceb2fc-83b3-11e5-8754-dc886b8dbd7a.shtml
Chi, come me, non è di primo pelo, forse ricorderà una serie televisiva di fantascienza andata in onda nel 1986 su Canale 5 intitolata “Visitors”. Si trattava di rettili, celati da un aspetto umano, che arrivavano sulla terra con apparenti intenzioni pacifiche, ma con il proposito di procurarsi cibo e sottomettere la razza umana. Si cibavano di topi ed altri mammiferi, che estratta la lingua biforcuta da serpente, ingoiavano vivi. Svelate le reali intenzioni dei Visitors, si scatenava una guerra tra costoro e la Resistenza terrestre.
Draghi ha un aspetto che mi ricorda tanto uno di loro: un lucertolone, un rettile insaziabile con il diploma di ragioniere (senza offesa per i ragionieri). Mentre parla (anzi, straparla), temo sempre che ad un tratto estrofletta la lingua ed ingoi l’incauto interlocutore che si è azzardato a sottoporgli una domanda scomoda sui rettili (posto che non esiste un solo giornalista o politico italiano che sia in grado o che abbia voglia di formulare al nostro Visitor una domanda intelligente su temi economici e/o giuridici).
A parte gli scherzi [però non fidatevi… girategli alla larga se vi capiterà di incontrarlo :-) ], il discorso di Draghi è delirante.
Segnalo alcuni passaggi rivelatori del disturbo: 1) la crisi, “certamente” causata dai “gravi errori nelle politiche economiche degli Stati nazionali” ed “anche” dalle manchevolezze “nell’architettura istituzionale europea” (nell’architettura, non nelle politiche economiche); 2) ciò che ha fatto la BCE per ricostruire la fiducia, riportare la prosperità e… “ristabilire la stabilità dei prezzi” (a cui lui, evidentemente collega la fiducia e la prosperità); 3) le locuzioni (e qui sorge il sospetto di un disturbo ossessivo-compulsivo) “stabilità dei prezzi”, “integrità della moneta” e “dinamica dei prezzi” sono ripetute, rispettivamente, 10, 4 e 2 volte, mentre degli esseri umani vittime della crisi non si parla mai, se non di sfuggita e come debitori del sistema bancario; 4) scopriamo poi che c’è una moneta “buona” ed una “cattiva” (ma i Visitors mangiavano topi, non monete…) e che c’è anche una moneta “sana”, quella che permette alla gente di “pensare ad altro” (e non ai misfatti della Banca centrale); 5) scopro, personalmente, di aver patito “danni causati dagli episodi inflazionistici degli anni settanta”: e pensare che in quegli anni non me ne ero in alcun modo accorto, mentre in famiglia, con i due stipendi da insegnanti di scuola media dei miei genitori, si cambiava la macchina ogni tre anni, si andava in vacanza tutti gli anni per due o tre settimane in hotel da 3 o 4 stelle, si conduceva sempre una vita libera e dignitosa; 6) scopriamo altresì che le banche centrali hanno lavorato bene perchè non abbiamo sperimentato “la deflazione degli anni trenta”… ma solo la deflazione del 2014.
Poi, quello segnalato da Lorenzo è senz’altro il più chiaro sintomo del disagio che affligge il nostro lucertolone. Non gli basta la “legittimazione” ricevuta dalle “forze sociali dominanti” (si confronti il mio articolo), vuole anche la vera legittimazione, quella democratica, e, non potendola avere, se la inventa. E si inventa pure che i Trattati sono costituzioni che si fondano su valori condivisi nel profondo dai cittadini.
Poveretto, è proprio sofferente, aiutiamolo a curarsi (tenendoci però sempre a prudenziale distanza…).
E pensare che 60 anni fa agli studenti milanesi parlava un intellettuale del calibro di Piero Calamandrei. Mala tempora currunt.