di Rosino Tatti
“Ma tu la fai la cempionslighe?”
Non si sfugge!
É l'interrogativo che più si sente riecheggiare in qualsiasi italico Bar dello sport:da quelli dove potresti ancora bere un amaro in un bicchiere con il doppio-fondo, e che forse ispirerebbero di nuovo qualche compiaciuta e divertita descrizione di Benni; a quelli con un arredamento estremamente ricercato – high-tech o retrò, vogliono stupirci con effetti scenici – dove entri per un veloce caffè e ti ritrovi invece a cedere al demone del gioco, possente e tentatore come non mai, fra lotterie, slot-machine e allibratori vari che ti ricordano la partita decisiva che sta per iniziare in Premier League: tu sei pronto ad uno sforzo di memoria per ricordare le tue competenze anglofile, sei pur sempre un appassionato di calcio mediamente informato anche sui campionati stranieri, ma poi desisti, non avendo nessuna conoscenza sulla Premier League… dell'Azerbaijan!
Ma torniamo al quesito di partenza: apparentemente semplice e innocuo, con il giusto retrogusto canzonatorio che può celarsi in una conversazione fra tifosi.
Chi pone la domanda è sicuramente tifoso di una squadra che gioca appunto la Champion's League (trattasi di una competizione europea riservata alle squadre di calcio che si sono ben comportate nei rispettivi loro campionati, arrivando nelle posizioni di vertice, ed essa è la versione riveduta e allargata della Coppa dei Campioni, a cui invece accedevano solamente le squadre che avevano vinto il campionato nella loro nazione) e al 99% la sta rivolgendo, con un sottile senso di superiorità, ad un tifoso di una squadra[1] cosiddetta minore (sul finire dello scorso secolo, i quotidiani sportivi, che difficilmente si sottraggono ad un linguaggio ricco di metafore e figure retoriche, amavano elogiare la forza delle sette sorelle… fra di esse il Parma di Callisto Tanzi e la Lazio di Sergio Cragnotti). Ma, partendo da una semplice chiacchiera di bar, io credo si possa far discendere qualche considerazione di carattere più ampio.
Iniziamo col considerare che è un tema, per così dire, escludente: vale a dire che è una conversazione che non coinvolgerebbe direttamente l'intera massa dei tifosi, dato che le squadre partecipanti alla massima manifestazione europea per club sono, in Italia, ma anche nelle altre nazioni continentali, quasi sempre le stesse.
E se da una parte è nell'ordine delle cose che le formazioni storicamente più vittoriose e blasonate continuino ad inanellare successi e prestigio (in primis, anche per una abitudine alla vittoria che diviene una formidabile spinta a ripetersi) e quindi a catalizzare le attenzioni e l'affetto dei tifosi, è però meno naturale che si sia sviluppato un perverso meccanismo di élitarizzazione (che orrendo neologismo, perdonatemi!) sportiva.
Mi spiego meglio: appunto nella Champion's League, ma anche in molte manifestazioni sportive internazionali, e non solo calcistiche, l'incentivo di carattere economico è ben presente: più una squadra, un singolo concorrente va avanti nella competizione, più ha possibilità di monetizzare, in misura importante, la sua prestazione.
Bene, giusto: un team si è mostrato più capace, più abile, più determinato, più fortunato… che ad esso vadano onori, gloria e soldi. È solo che quest'ultimi determinano anche una forte e squilibrante influenza negli anni a seguire: il vincente disporrà di maggiori risorse finanziare che potrebbero andare ad accrescere il divario tecnico con gli altri partecipanti.
Per una legge non scritta dello sport, in cui le variabili sono innumerevoli e pochissime rispondono ad una ferrea logica, non è assolutamente certo poi che il concorrente più forte economicamente sia destinato ad una certa vittoria, ma è sicuro – o comunque è quello che avviene nel calcio europeo ed italiano – che le risorse finanziarie generate dall'intero sistema sono redistribuite con dei criteri solo apparentemente meritocratici.
Nei campionati degli sport americani (basket, baseball, football americano, hockey su ghiaccio) – che sempre, alle nostre latitudini, sono citati come esempio dai nostri dirigenti sportivi – la vittoria finale è realmente nelle possibilità di molte squadre: la concezione che ispira le regole delle leghe professionistiche è legata ad una idea forte di sport, e quindi competizione agonistica dura e selettiva, in cui la componente di spettacolo sia ben presente; e per far sì che lo spettacolo sia coinvolgente – e sia quindi legittimamente fonte di guadagno – deve generare interesse nel tifoso, allettando la sua passione con la speranza che la sua squadra possa arrivare a primeggiare. Ed ecco allora che si consente, riequilibrando in parte quel divario economico conseguenza anche dei successi sul campo, alle compagini arrivate nelle posizioni di retroguardia di essere le prime nella scelta dei giocatori liberi da contratto e quindi potenzialmente utili a rinforzarle: avviene spesso che una compagine piazzatasi in fondo alle classifiche riesca, nel giro di pochi anni, ad arrivare alla vittoria, ed infatti gli albi d'oro di quei campionati sono molto più variegati di quelli che noi siamo abituati a scorrere.
Siamo quindi noi europei alle prese con un finto liberalismo economico-sportivo? Non proprio, considerato che mentre i campionati americani sono bloccati, partecipando ad essi sempre le stesse franchigie (che addirittura possono cambiare città, trasferendosi in una realtà economicamente più invitante), nei campionati europei è sempre esistito un meccanismo di promozioni e retrocessioni, così da permettere dei veri e propri exploit: squadre di piccole cittadine che arrivano a sfidare grossi team metropolitani, rinnovando così quel tema di epicità che è strettamente connaturato alle competizioni agonistiche.
Ma c'è un conclusivo 'però?: sempre rifacendosi al paragone U.S.A.-Europa, io credo che lo sport americano sia paradossalmente più limpido, pur in presenza di dinamiche di mercato ampiamente criticabili. Il tifoso è il fruitore, il beneficiario di una gara sportiva che è anche una rappresentazione, quasi una recita, e in questa logica gli si offre (ovviamente non gratis) uno spettacolo completo, con anche delle suggestioni che possano incuriosire il suo animo.
Il tifoso europeo, e maggiormente il tifoso italiano, è forse più un suddito che gode solo a volte della magnanimità del suo re, o anche un piccolo azionista che non potrà mai partecipare ad un consiglio di amministrazione. Egli va allo stadio, compra gli abbonamenti televisivi comprendenti le gare della sua squadra, esterna con passione infinita l'amore per la sua squadra acquistando ogni anno la nuova maglia da gioco – e qui si va dal collezionismo sfrenato al feticismo vero e proprio, passando per un inconscio desiderio di omologazione –, insomma è decisamente un robusto ingranaggio dello star-system sportivo (e si pensi anche a come l'idealizzazione che il tifoso fa verso il calciatore osannato comporti per questo benefici che potrebbero protrarsi al di là della sua carriera)… eppure è stranamente attratto dall'idea di un calcio “vintage”.
(fine prima parte)
Sempre più spesso si ascoltano discussioni di carattere politico in cui le argomentazioni ricalcano modi di ragionare ed espressioni che sono chiaramente riconducili a quelle di carattere sportivo, quasi che si dovesse tifare per un partito, esultare per una sua vittoria elettorale e non interrogarsi sulle idee che propone…
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