E' necessario sottrarre al grande capitale il potere di formare l'opinione pubblica
di Stefano D’Andrea
C’è qualcosa di ingenuo in alcune delle critiche che vengono rivolte quotidianamente ai mezzi di comunicazione di massa: che essi non sollevino alcuni problemi; che essi non trattino alcuni temi; che essi utilizzino un determinato linguaggio; che essi sostengano sistematicamente e all’unisono determinati interessi; che essi oscurino giornalisti o politici che contrastino quegli interessi (ma invero, in questo momento storico, di simili politici non se ne vede nemmeno l’ombra). Critiche ingenue, perché hanno ad oggetto profili che non possono essere se non come sono. Sicché si pretendono, diremmo quasi infantilmente, dalla “libera stampa” e dalla “libera televisione”, contegni, scelte, indirizzi e opzioni di valore che sono intrinsecamente in contrasto con gli interessi delle imprese, delle persone e delle banche che dominano i consigli di amministrazione delle società titolari dei media, nonché delle imprese che pagano il corrispettivo dell’attività economica realmente svolta dai grandi media: vendere pubblicità. Pretese, evidentemente, ingenue al punto da rasentare l’infantilismo.
Altre critiche sono soltanto apparentemente meno ingenue; per esempio quelle che lamentano la concentrazione dei grandi media nazionali nella titolarità di un solo gruppo editoriale. E tuttavia, è necessario avere ben presente che, anche se in Italia avessimo dieci canali televisivi nazionali privati appartenenti a dieci gruppi editoriali diversi e dieci quotidiani nazionali di tiratura all’incirca pari, appartenenti a dieci gruppi editoriali diversi tra loro e diversi dai gruppi editoriali titolari dei canali televisivi privati, i peggiori difetti e limiti della “libera stampa” e della “libera televisione” – limiti e difetti comuni ai grandi media e che rendono questi ultimi assolutamente omogenei, sotto notevoli profili – resterebbero del tutto inalterati.
Non bisogna mai dimenticare, infatti, che i grandi media nazionali sono strumenti delle società per azioni che ne sono titolari. Più precisamente, la società per azioni è proprietaria del medium: lo strumento che “informa” i cittadini e così forma l’opinione pubblica (dunque uno strumento di dominio); e alcune grandi imprese e banche sono titolari dei pacchetti di maggioranza che consentono di dirigere la società per azioni e quindi di disporre dello strumento di formazione dell’opinione pubblica. Stando così le cose, ossia fino a quando la legge (e dunque i cittadini e i politici che li rappresentano) consentirà che le cose stiano così, la tendenziale omogeneità dei grandi media nazionali (assoluta omogeneità se si considerano esclusivamente i profili sui quali stiamo per portare l’attenzione) non può essere considerata una distorsione grave e nemmeno, a rigore, una distorsione; perché è nel rispetto della loro intrinseca natura che i grandi media nazionali agiscono contro il popolo e lo ingannano dirigendone l’attenzione.
Infatti – e introduciamo un primo profilo – è chiaro che i grandi gruppi editoriali, essendo gruppi composti anche da società quotate, hanno interesse a che il mercato azionario salga. Potrebbero mai dedicare attenzione al dibattito scientifico, che è (o meglio dovrebbe essere) anche e soprattutto politico, relativo al problema se sia davvero conveniente per tutti che le azioni salgano? E in che senso, eventualmente, è “conveniente”? Tutti gli articoli di giornale che leggete e le trasmissioni televisive che seguite muovono dal presupposto, implicito, cioè tendenzialmente segreto, che convenga a tutti che le azioni salgano. Lo sapete dimostrare che conviene a tutti, anche a coloro che non sono titolari di azioni di società quotate? Lo sapete dimostrare che conviene anche a coloro che, essendo dotati di modesti risparmi, per lo più gestiti dai grandi fondi di investimento, vivono, e vivranno in età della pensione, con un tenore (di vita) che dipende in gran parte dal loro lavoro: dal valore che il lavoro assume nella società, sotto forma di corrispettivo monetario (per prestazioni professionali, artigiane, commerciali, per vendita dei prodotti della terra e per prestazioni di energie lavorative con il vincolo della subordinazione)?
Ed è anche ovvio che i grandi gruppi editoriali, poiché sono gruppi di società – le quali, da un lato, hanno nei consigli di amministrazione numerosi rappresentanti delle banche titolari dei pacchetti azionari, dall’altro, sono indebitate con le banche medesime – non affronteranno mai seriamente il problema se ai banchieri debbano essere tolti tutti o alcuni dei poteri giuridici dei quali oggi sono titolari. Perché dovrebbero? Come possiamo, se non con estrema ingenuità, pretenderlo? Perché quei media dovrebbero porre il problema del quantum della riserva frazionaria o il problema del ritorno della manovra sulla riserva frazionaria al governo e al Parlamento se ora quella manovra appartiene alla BCE e quindi alle banche? Perché quei media dovrebbero informare i cittadini che dopo la lunga battaglia condotta nelle aule giudiziarie contro l’anatocismo bancario, quest’ultimo è divenuto per legge principio generale dei contratti bancari? Come possiamo pretendere, se non del tutto velleitariamente, che i media, ossia gli strumenti, siano utilizzati, dai loro proprietari e gestori, per colpire gli interessi di quei medesimi proprietari e gestori?
E siccome la titolarità di molte delle azioni delle società che compongono i grandi gruppi editoriali appartiene alle banche – le quali sono proprietarie di innumerevoli beni immobili e titolari di altrettanto innumerevoli diritti di ipoteca su beni immobili ed hanno pertanto interesse a che gli immobili aumentino di valore – oppure a famiglie con enormi patrimoni immobiliari oppure addirittura a famiglie di costruttori, è chiaro che i media nazionali non sosterranno mai e poi mai che sia necessario reintrodurre l’equo canone o comunque perseguire una politica di lento sgonfiamento della bolla immobiliare e, prima ancora, che impedisca le bolle immobiliari. Perché quei media avrebbero dovuto indicare ai lettori e ai telespettatori che in Germania e in Giappone i prezzi degli immobili erano fermi rispettivamente dal 1993 e dal 1996? Perché avrebbero dovuto mettere in guardia i cittadini dal contrarre mutui quarantennali assurdi, andando così contro gli interessi dei proprietari dei media medesimi? Perché quei media avrebbero dovuto sollevare dubbi sulla opportunità delle varie leggi (quelle emanate e quelle da emanare ma non emanate) che hanno provocato l’enorme aumento del prezzo degli immobili, in relazione agli stipendi e ai redditi professionali?
Inoltre, poiché giornali e reti televisive si arricchiscono o sopravvivono grazie alla pubblicità, mai e poi mai sentirete dibattere su quei media il tema del possibile divieto della pubblicità sugli organi di informazione: quali interessi tutelerebbe? chi si avvantaggerebbe? chi ci perderebbe? quali conseguenze avrebbe la introduzione del divieto? Avremmo più giornali? Meno giornali? Più riviste ma meno giornali? Una informazione più settimanale che quotidiana? Scomparirebbero i giornali gratuiti? Scomparirebbero molti giornali a pagamento (perché in realtà gran parte del prezzo è pagata dalla pubblicità)? Scomparirebbero le reti televisive generaliste? Trasmetterebbero quattro ore al giorno anziché ventiquattro? E che male ci sarebbe?
Infine, i grandi gruppi editoriali sono titolari di “marchi” oltre a vivere di pubblicizzazione dei marchi. I grandi gruppi editoriali, sotto il profilo economico, svolgono l’attività di venditori di pubblicità. I ricavi dalle vendite di altri prodotti (giornali, film e altro) sono minimi e non coprono mai i costi. La diffusione della conoscenza dei marchi è la principale funzione economico-sociale svolta dai grandi media nazionali. Figuriamoci, quindi, se su di essi possa mai sorgere un dibattito relativo alla disciplina dei marchi. Un dibattito nel quale una delle voci in campo sostenga la necessità di limitare l’uso dei marchi e, quindi, di ridurne il valore a favore dei lavori, autonomi o subordinati, implicati nel processo di produzione e distribuzione dei prodotti marchiati e dei prodotti concorrenti.
Insomma niente di ciò che è utile al popolo potrà mai essere sostenuto spontaneamente dai grandi media nazionali, i quali, secondo la loro natura, si guardano bene anche soltanto dal prospettare possibili alternative di disciplina in ordine ai temi economici e politici più rilevanti.
Perciò smettiamo di rivolgere ai grandi media nazionali critiche prive di senso. E rammentiamo che, se è vero che quella parte di “società civile”, costituita dalla “libera stampa” e dalla “libera televisione” deve informare i cittadini sul comportamento dei politici, è anche vero che le strutture proprietarie e i canali di finanziamento della libera stampa e della libera televisione devono essere disciplinati dai politici, per limitare il “potere” del capitale di formare l’opinione pubblica, a favore della libertà di manifestazione del pensiero dei cittadini e del principio di uguaglianza sostanziale tra i cittadini medesimi.
È necessario, perciò, che i nuovi partiti – i quali, prima o poi, dovranno necessariamente formarsi per andare a contendere il potere al “partito unico delle due coalizioni” – inseriscano nel programma principi come quelli che ipotizziamo: i) le attività economiche di intrattenimento e di informazione non possono in alcun modo essere finanziate tramite il pagamento di corrispettivi in cambio di pubblicità, salvo la misura massima pari al 20% dei costi di produzione; ii) nessun cittadino italiano può essere titolare, nemmeno per interposta persona, fisica o giuridica, di una quota superiore ad un millesimo del capitale sociale di una qualsiasi società proprietaria di un canale televisivo privato nazionale ovvero di un quotidiano o rivista che venda più di settecentomila copie a settimana.
caro Stefano, ma 700mila copie sono pure troppe!
Seriamente, l’articolo mi pare ben argomentato e scritto, in
definitiva inoppugnabile.
Quel che segue non è un distinguo, ma solo un’osservazione: da persona
che ci lavora dentro da tempo, posso assicurare che fare un giornale
costa un sacco di tempo e lavoro, e farlo bene anche di più. Il
riferimento che fai tra parentesi (“in realtà gran parte del prezzo è
pagata dalla pubblicità”) è azzeccatissimo: infatti il giornale in cui
lavoro ricava tra il 7 e il 15% dal prezzo di copertina, il resto in
vari modi, non li conosco tutti, ma certo non solo dalla pubblicità.
Per inciso, quasi ogni articolo che esce su un quotidiano generalista
cioè non dichiaratamente d’opinione è una pubblicità: restano fuori
dal novero solo il Foglio il Riformista e pochi altri.
Un giornale generalista, sostenuto solo dal prezzo di copertina, per
sopravvivere dovrebbe costare quindi dalle 7 alle 12 volte in più,
quindi dai 7 ai 12 euro al giorno.
Si capisce che il prezzo sarebbe improponibile. Diciamo che tutto il
modello, passato dalla scure che proponi tu, risulterebbe obsoleto. E
forse lo è davvero, non dico di no.
Propongo una alternativa e una divagazione, senza svilupparli per non
andare off-topic:
1) Il passaggio della stampa generalista su internet è segnato da vari
tentativi negli ultimi anni, spesso andati male; i costi di stampa e
distribuzione stanno sfiancando il prodotto; credo che l’unico futuro
che i quotidiani cartacei cui siamo abituati possono avere sia su
internet, con una homepage gratuita che riassume per sommi capi i
titoli e un tanto ad articolo aperto versato dal lettore, diciamo 1
centesimo, o 10 centesimi, si vedrà.
Un po’ come quando si acquista una canzoncina su iTunes di Apple, per
chi lo conosce.
2) Riguardo a quanto proponi tu, cioè un prodotto industriale che
costa quel che rende direttamente: ti rendi conto che in un circuito
variamente irrelato di fonti e destinatari, e in un mercato traversato
da un numero altissimo e crescente di fonti a disposizione del lettore
delle quali parecchie gratuite anche se non fidate e attendibili, il
prezzo di copertina di un giornale diventa quasi un “plusvalore” o
meglio un “minusvalore”, in termini economici “classici”; un
minusvalore semplicemente come costo: quanto è disposto un lettore a
pagare sulla fiducia – prima di avere accesso all’informazione –
quella stessa informazione proveniente da una fonte che lui considera
affidabile.
So che non è la stessa cosa, ma prova a pensare all’università – per
fare un esempio a te più vicino – che costa allo studente quel che
rende all’amministratore: non ho sottomano i bilanci ministeriali, ma
avendo sentito parlare dei debiti dei singoli atenei, penso che
parliamo di rette ben al di sopra di quelle della Louis, e parliamo
della fascia di reddito più bassa, quella che ora costa un migliaio di
euro l’anno. Anche qui ora come ora, mi vien da dire: improponibile!
Infine sulla pubblicità in tv non ho niente da dire, ma non credo si
possano affiancare in tutto e per tutto i tiggì delle tv nazionali
pubbliche e private ai grandi giornali generalisti.
un saluto
Marco
Caro Marco,
proseguo il dialogo rispondendoti in tre punti:
I) fare un giornale costa un sacco di tempo e lavoro anche perché il giornale è pieno, come tu hai osservato, di articoli che in realtà sono pubblicità (a politici, cantanti, attori, imprenditori, a società che stanno per quotarsi in borsa, e così via). Sono certo che tu concorderai con me che se nessuno più potesse scrivere questi articoli, perché renderebbero il giornale antieconomico (sto ipotizzando che sia stata vietata la pubblicità), non si avrebbe alcuna perdita per i cittadini (salvo per il cantante, l’imprenditore, l’attore, il politico, da un lato, e il proprietario del giornale, da un altro). Insomma se il corriere della sera e La repubblica fossero giornali di dieci pagine al giorno non vedo quale grave conseguenza ne deriverebbe.
II) è vero che negli Stati Uniti d’America il calo dei lettori (che fa perdere pubblicità ed entrate), abbinato alla diffusione di internet (che attira pubblicità e toglie altre entrate ai giornali), con l’aggiunta della grave crisi economica (che fa diminuire anch’essa la pubblicità e gli incassi dei giornali) ha reso palese a tutti che la maggior parte dei grandi quotidiani dovrà trasferirsi su internet (anche se non è ancora provato che i lettori pagheranno per leggere quei quotidiani e non si sposteranno, in parte sempre maggiore, verso i blog). E tuttavia non mi sembra una ragione legittima per non porre il problema politico sollevato dall’articolo: perché non tutelare la libera manifestazione del pensiero di tutti i cittadini e dunque il principio di uguaglianza sostanziale togliendo al grande capitale il potere di formare l’opinione pubblica? Perché attendere che la rivalutazione della parola, del pensiero e dell’uguaglianza consegua, sia pure soltanto in parte, al combinarsi della situazione economica e della evoluzione tecnologica?
III) Per quanto riguarda l’Università, il discorso è complesso, ma non credo che si possa mai ammettere che le Università abbiano entrate dalla pubblicità; d’altra parte l’università pubblica deve essere finanziata dalla fiscalità generale. Ciò è vero, al più per la televisione pubblica (ma qui dovremmo iniziare un discorso completamente diverso). Mentre le iniziative editoriali devono riuscire a soddisfare il requisito della economicità (salvo che qualcuno sia deliberatamente disposto a perdere i propri soldi). Ci siamo abituati a giornali che vendevano anche un milione di copie e che erano composti da ottanta pagine con l’aggiunta di inserti nonché a canali televisivi che trasmettono 24 ore su 24. Siamo sicuri che se questi giornali e questi canali televisivi “omogeneizzanti” non esistessero più (ed esistono soltanto grazie alla pubblicità: il nostro presidente del consiglio è in primo luogo un venditore di pubblicità; questo non dobbiamo scordarlo), la possibilità di informarsi dei cittadini e la capacità critica per riflettere sulle informazioni sarebbero pur in minima parte compromesse? Io credo chee non sarebbero minimamente compromesse.
Stefano
Osservando la realtà attuale non si può far altro che constatare l’assoluta dipendenza dalla logica imprenditoriale ed economica che regge l'”informazione” del nostro Paese.. se pur è vero che un giornale generalista privo di sostegni pubblicitari avrebbe un costo più elevato mi chiedo se non sia un dovere per uno Stato democratico fondato sul parlamento e non sul governo impedire che lobby economiche possano influenzare non solo l’economia ma anche le coscienze civili? se la risposta è positiva non posso che constatare la mancanza di riflettori su problemi che la nostra società potrebbe risolvere alla radice attraverso partiti forti che vogliano il bene comune e non la gestione di fondi europei o nazionali volti ad alimentare il sistema clientelare. In tal senso, l’auspicio è che questo sito internet, nodo di un’informazione libera e aperta alle critiche, possa costituire quel “grimaldello” necessario a risvegliare la società italiana dal torpore che attualmente l’avvolge.
Giuseppe
Sono d’accordo con te Giuseppe, anche se credo che sia necessario passare ad una politica attiva per poter risvegliare la società italiana.
Rossella
Cara Rossella,
la “politica attiva” intesa come costituzione di un partito politico che rappresenti davvero la società italiana nella sua più alta rappresentatività costituisce, secondo me, un traguardo che può raggiungersi solo dopo aver scosso le coscienze critiche del nostro Paese. Occorre, in altre parole, preparare il terreno culturale su cui poggiare le fondamenta di un eventuale futuro partito. Tale obiettivo può raggiungersi solo mediante un’attività di denuncia che solo un’informazione davvero libera e avulsa da un controllo delle lobby può realizzare.
Giuseppe
Domanda: ma se si volesse partecipare attivamente al sito? Intendo come redattore.
Caro Gianni,
non vedo ostacoli e anzi sono felice di aver ricevuto questa prima proposta.
Intanto direi che potresti scrivere un articolo e inviarlo a appelloalpopolo [at] gmail . com. Oppure, se preferisci, scrivi a quell’indirizzo una mail in cui proponi uno o altro argomento.
Tieni conto che noi conosciamo la censura. Siamo la rivista “organica” del partito che non c’è. Il Manifesto ci serve a dare coerenza e organicità al complesso degli articoli: segnala temi e fissa confini.
Attendiamo il primo contributo, lo valuteremo, eventualmente ci lavoreremo su e poi lo pubblicheremo. Ciao