La Patria ci è madre e la nostra è bellissima
Brano tratto da “Storia degli Italiani” di Cesare Cantù nella edizione napoletana del 1857.
“Di qui pur la portentosa varietà di aspetti, che vi ravvicinano il clima di Costantinopoli a quello della Norvegia vuoi in estensione vuoi in elevatezza; sicchè tu raccogli limoni e melagrani nelle ridenti morene che fan piede alle alpi Retiche, sulle cui rupinose vette appena il camoscio raspa qualche lichene da sotto al gelo perpetuo; di nevi s’incorona il Mongibello, le cui spalle sono sparse di scorie, e alle cui falde non cessa mai l’estate; come delle Madonie e del Montisori di Sicilia un fianco biancheggia di neve, l’altro fiorisce di aromatiche rarità. Di qui ancora la multiforme vegetazione: il cupo verde delle conifere spicca dalla corazza delle ghiacciaie, che il Cenisio, il Sanbernardo, la Spluga oppongono ai dardi del sole e all’avidità dei conquistatori; laghi cristallini, cristallini, ricreati da freschi orezzi, e incorniciati dalla perenne letizia dei mirti, degli allori , foscamente spiccanti dall’argentino ulivo , colla montana severità circostante imitano il contrasto della gaia fanciullezza colla pensosa canizie; a mezzogiorno deserti, ove rosseggia la ruvida soda spinosa; a settentrione fragranti praterie subalpine nutrono api, mandre, pecore; tra filari di gelsi cinesi e di pioppe pinate torreggiano in piano le città lombarde; e in limpidi pelaghetti si specchiano giardini a pergolati che schermiscono dalla canicola e dalle protratte ariditàdel cielo splendidissimo; l’oro di migliaia d’agrumi rileva sul bruno delle boscaglie nella Campania, nel Genovesato e nella Calabria; boschetti di terebinto di lentischi ombrano le tane de’ Trogloditi; lance di àgave e spatole di cacti assiepano campi , dove pompeggiano spontanei il leandro, il pistacchio, le palme a ventaglio, e sublimi canne; le roccie irte di fichi opunzi, e i carrubi, e gli aloe sorgenti fin venti metri, e il castano che copre cento cavalli, e i datteri di Catania e di Girgenti avvertono la vicinanza dell’Africa; e la sorridente guardatura di Palermo e di Mergellina ti fa trovare veramente, com’è in proverbio, un pezzo di paradiso caduto in terra.
E quando di un’occhiata abbracci Italia e Sicilia, e tante rade e tanti seni opportunissimi al comunicarsi della civiltà e delle produzioni; e tanta ricchezza di minerali, tanti agi del vivere, tanti vezzi che invitano d’ogni plaga gli invidianti stranieri, i curiosi del bello, i pellegrini dell’intelligenza; e città sepolte sotto i lapilli, o dimentiche fra gli scopeti e le macìe; ed altre già frequentissime, or da pochi poveri abitate ; e i porti, da ciascuno dei quali uscivano cento navigli, ed ora appena vi sorge qualche barca peschereccia; e misteri dell’arte non meno stupendi di quei della natura; e memorie d’ogni gente che da settentrione e da mezzodì venne a bagnarla col suo sangue e col nostro; e una città eterna, che signoreggiò il mondo prima per la forza, poi per le leggi, indi per la religione: allora ti senti preso di maggior affetto per un paese di glorie privilegiate e di privilegiate sventure, e che tre volte risuscitato dalle proprie ruine, nell’operoso silenzio rifà le ali della speranza.
E poiché un popolo tanto più sente la dignità quanto più è lungo il tempo a cui dilata la sua storia, diventa un dovere di pietà lo studiar quella degli Italiani da’ primordi fino al presente. E quanti già la raccontarono! Eppure senza tòrne la voglia ad altri, avvegnanchè ogni età abbia un linguaggio suo proprio, ogni autore un proprio modo di scorgere, di connettere, di valutare i fatti, pur beato chi può dire , – La patria ha inteso il mio!”
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