di ALESSANDRO COLOMBO (politologo; Università Statale di Milano)
All’inizio del ventunesimo secolo, l’Occidente euro-americano si trova – e, nella stessa misura, si sente – in una condizione ambigua, quasi paradossale. Da un lato, reduce dall’ultima e in apparenza decisiva vittoria del Novecento, esso ha persino rafforzato la propria pretesa di esemplarità, riflessa nella religione civile del mercato e della democrazia e tradotta in programmi universalistici di esportazione di diritti, istituzioni e pratiche di efficienza. Dall’altro lato, sotto la pressione congiunta delle proprie crisi interne e dell’ascesa di grandi potenze non-occidentali quali Cina e India, l’Occidente sta maturando un sentimento crescente di vulnerabilità, espresso questa volta nella retorica dell’assedio e orientato verso una panoplia di risposte difensive, controffensive o (in senso preventivo) offensive.
Il declino dell’Occidente è, innanzitutto, un processo storico oggettivo – dal punto di vista delle relazioni politiche ed economiche internazionali, il fenomeno più significativo (e, in prospettiva, emblematico) della storia dell’ultimo secolo. Visto dall’Europa, è a buon diritto che il Novecento può essere considerato il secolo del riflusso dell’impatto occidentale sul resto del mondo. Proprio l’inizio del secolo, oltre tutto, costituì il punto più alto della parabola dell’espansione europea. A quell’epoca il continente europeo contribuiva per il 62% alla produzione manifatturiera mondiale, contro il 23,6% degli Stati Uniti, il 6,2% della Cina, il 2,4% del Giappone e l’ 1,7% dell’India. Non casualmente, la popolazione europea costituiva quasi un quarto (il 24,7%) della popolazione mondiale, una quota clamorosamente sproporzionata alla ridotte dimensioni geografiche del continente; mentre, delle quattordici città con oltre un milione di abitanti esistenti nel 1900, l’Europa ne ospitava sei (includendo Mosca e Pietroburgo), contro le tre del Nord America, le due del Sud America e le tre sole dell’Asia.
La stessa sproporzione si rifletteva sul terreno militare, dove la superiorità senza precedenti delle grandi potenze europee sui propri competitori poté essere messa in mostra, in pochi anni, non soltanto nelle spedizioni coloniali in Africa ma anche nella umiliante spedizione multilaterale in Cina nel 1900 (ma già con il primo segnale, sebbene periferico, della sconfitta russa contro il Giappone nel 1904-05). E, a completare il quadro, l’Europa rimaneva di gran lungo il centro culturale del mondo, a maggior ragione sul terreno dell’innovazione scientifica e della formazione universitaria.
L’inversione di questo movimento storico avvenne con ritmi straordinariamente rapidi. La centralità che l’Europa aveva preparato in quasi quattro secoli e compiuto nel diciannovesimo secolo venne riassorbita nell’arco di pochi decenni – ed è superfluo sottolineare quanto, a propria volta, la rapidità abbia accentuato il senso di deprivazione relativa, da un lato, e le difficoltà di adattamento dall’altro. Al termine del ciclo trentennale delle due guerre mondiali del Novecento, all’inizio degli anni Cinquanta, la quota europea complessiva della produzione manifatturiera mondiale era già scesa dal 60% degli inizi del secolo a circa il 25%, contro il 44,7% degli Stati Uniti e a fronte della brusca crescita dell’Unione Sovietica.
Un tracollo ancora più marcato era avvenuto, intanto, sul terreno militare. All’inizio degli anni Cinquanta, la somma delle spese per la difesa di Gran Bretagna, Francia e Italia (la Germania era ancora smilitarizzata) era ormai pari a meno di un quinto di quelle degli Stati Uniti e a meno di un terzo di quelle dell’Unione Sovietica. Da centro di irradiazione di conquiste e guerre globali, l’Europa si era trasformata in consumatrice di sicurezza e potenziale vittima delle strategie globali delle superpotenze.
All’inizio del ventunesimo secolo, sebbene lontanissima dai livelli di un secolo fa, l’Europa rimane uno dei centri indiscussi delle relazioni internazionali globali, almeno sul terreno delle relazioni economiche e commerciali. Ma, su tutti gli altri terreni, l’involuzione rispetto ai picco di cento anni fa rimane clamorosa e, quel che è peggio, crescente. Sul terreno militare – che, lo riconoscano o no gli europei di oggi, è stato uno dei motori dell’espansione del passato – l’Europa continua a compensare la propria non-autosufficienza con una subordinazione politicamente e diplomaticamente sempre più costosa all’egemonia globale degli Stati Uniti. Sul piano demografico, pur con differenze rilevanti al proprio interno, la percentuale degli Europei sulla popolazione mondiale è crollata a poco più del 10% (meno della metà rispetto a un secolo fa), con un tasso di invecchiamento superiore ed economicamente più costoso rispetto a quello di tutti gli altri principali attori.
Sul piano politico e istituzionale infine, il processo di integrazione ha imboccato negli ultimi quindici anni una evidente parabola involutiva, riflessa nella crisi di rappresentatività delle istituzioni tanto statuali quanto comunitarie e passibile persino di aggravarsi, qualora l’impatto della crisi economica e finanziaria dovesse approfondire la frattura tra Europa settentrionale ed Europa meridionale che ha già sostituito quella di impronta bipolare tra Europa occidentale ed Europa orientale.
fonte: Jura Gentium
L’autore parte parlando dell’occidente, ma ben presto si capisce che parlava fin da principio di Europa non dell’occidente. Io non utilizzerei più la parola “occidente”. Infatti mi sembra strano che esista l’occidente anche se non esiste l’oriente.
Dell’oriente e degli orientali non predichiamo niente. Non diciamo e scriviamo “l’oriente è a un bivio…” o “l’oriente è stato attaccato…”. Soprattutto non capita di leggere “l’oriente è a un bivio…” o “l’oriente è stato attaccato…”.
Invece capita di leggere che l’occidente “è stato attaccato” e che si trova “davanti a un bivio”.
L’occidente non esiste. Non è una comunità politica. Non ci sono trattati internazionali soltanto occidentali. Non c’è che un organo politico dell’occidente. L’unica cosa occidentale è la NATO. Diciamo NATO allora. Perché utilizzare un’altra parola? Il G8 non è occidentale e nemmeno il G2 o il G3. Il G1 è l’occidente, soltanto il G1. Ogni volta che utilizziamo la parola occidente creiamo trappole per il pensiero. Occidente ora designa gli Stati Uniti, ora gli Stati Uniti e l’Europa assieme considerati, ora la sola Europa.
A partire dal ’45 la nozione di “occidente”, come quella di “mondo libero”, è diventata una circonlocuzione politically correct per indicare l’impero statunitense e i suoi satelliti, funzionale a una surrettizia geopolitica di regime. “In ambito politico i concetti presentano sempre connotati ideologici. Poterli definire in maniera vincolante pertiene ai paramenti del potere. Le parole sono armi sul campo di battaglia dell’ordine simbolico a cui i rappresentanti delle diverse ideologie le funzionalizzano” (M. Weimayr).
PS: nell’articolo manca un cenno all’unico concreto tentativo di riscattare l’Europa dal suo ciclo di decadenza, quello nazionalsocialista. La sconfitta della Germania ha spianato la strada alla decadenza demoplutocratica che oggi si manifesta in tutte le sue stimmate.
Quel tentativo distrusse l’Europa: la Germania, l’Italia, ma anche l’Inghilterra ormai gregaria degli USA. E portò in Europa le basi statunitensi. Questo è l’esito, questo il risultato prodotto da quel tentativo. Anche da questo punto di vista estremamente geopolitico ed ideologico, il nazional socialismo fu un disastro.
Le guerre si fanno nella speranza di vincerle e nella consapevolezza di poterle perdere. Soprattutto quando, come nel caso del nazionalsocialismo, la rinuncia a combattere avrebbe avuto lo stesso risultato della sconfitta: la diluzione della civiltà mitteleuropea in quella anglosassone.
Spiace vederti echeggiare gli slogans del regime non appena si toccano i tabù che hai scelto di non metttere in discussione.
La questione da trattare non sarebbe stata la decadenza dell’Europa: questo è un fatto che risale alla prima guerra mondiale, e che è divenuto evidente dalla fine della seconda, quando gli Stati Uniti hanno cancellato il colonialismo europeo, poi hanno eroso con la NATO la sovranità degli Stati europei, fino a cancellarla con la UE. Qui l’autore sfonda una porta aperta. Più interessante sarebbe invece indagare se in questi giorni si stiano verificando la fine della NATO, l’erosione definitiva della UE e la decadenza dell’egemonia mondiale degli Stati Uniti. Di questo avviso mi sembra Sapir; secondo lui lo stato di emergenza in Francia è un’oggettiva ripresa della sovranità, l’accordo militare con la Russia per combattere l’ISIS, qualunque sia la sua opportunità e la sua efficacia, implica la fine della NATO, la destabilizzazione del Medio Oriente rivela il limite dell’egemonia USA.