Jean-Claude Michéa e la “sinistra capitalista”
di MATTEO LUCA ANDRIOLA (politologo; l’interferenza)
L’analisi di Michéa si incentra sull’obsolescenza e sull’equivocità del termine “sinistra”, ma anche su come essa sia ormai organica al progetto dominante capitalistico. Quest’ultimo – che Marx definiva nel libro III de Il Capitale non come una «cosa», ma come «un determinato rapporto di produzione sociale, appartenente ad una determinata formazione storica della società» che si costituisce «dai mezzi di produzione monopolizzati da una parte determinata della società, dai prodotti e dalle condizioni di attività della forza-lavoro, resi autonomi nei confronti della forza-lavoro vivente, che vengono mediante questa contrapposizione personificati nel capitale» – è antropologicamente strutturato in senso individualista e anti-comunitario, fondandosi infatti, com’è sottolineato in Les mystères de la gauche: de l’idéal des Lumières au triomphe du capitalisme absolu, pubblicato nel 2013, sul paradigma dell’«uomo-mercante», sull’accrescimento smisurato del profitto individuale, anche a discapito dei rapporti affettivi e di sangue, sulla fiducia assoluta verso la Mano Invisibile della provvidenza, cioè del mercato (come scriveva Smith, e in seguito, con la secolarizzazione di quest’etica, la mano del Caso), che avrebbe sistemato tutto, bypassano l’odiato – e noi aggiungiamo, hegeliano – Stato, un mostruoso Leviatano capace di distruggere ogni libertà individuale.
Per Michéa – come per Marx ed Engels – la struttura capitalista è tutto tranne che conservatrice, ed è capace di archiviare ogni sovrastruttura appartenente alle epoche precedenti (la morale, l’etica, lo stato, ecc.), pur di mantenersi e proiettarsi verso il futuro – rivoluzionandosi. Il crollo del comunismo sovietico viene identificato dal filosofo come l’evento che proietta globalmente tale modello di produzione, che diviene Pensiero Unico, un evento che riconosce formalmente ogni libertà di espressione e di ogni «stile di vita» a «tutti», purché non si metta in discussione il suo modello di sviluppo, che si presenta, scrive l’Autore, «come una totalità dialettica di cui tutti i momenti sono inseparabili (siano essi economici, politici e culturali) e invitano, a loro volta, ad una critica radicale». Una struttura che si legittima culturalmente (come rilevavano anche i filosofi della Scuola di Francoforte), e che rifiuta tutto quello che è “altro da sé”, delegittimato come “male assoluto” mente quello liberalcapitalista diviene il “migliore dei mondi possibili” (nonostante certi autori della sinistra per bene trovino “alcune” contraddizioni: quelle di genere, ad esempio, tanto per cambiare, interpretate naturalmente a senso unico…).
L’autore si rivolge alla galassia socialista, rivendicando lì la propria appartenenza (ma non alla “sinistra”), un socialismo diverso da quello progressista e illuminista sviluppatosi dalla morte di Marx e da quello “reale”, sviluppatosi nell’Est dell’Europa dal 1917 al 1989/1991, un socialismo che senz’altro fa sua l’analisi di Marx (l’analisi non economicista), unito all’eredità di Proudhon, di Sorel e, soprattutto, di George Orwell, chiedendo alla sua area una seria riflessione. Com’è rilevato ne Il vicolo cieco dell’economia (Elèuthera, 2004), viene contestato l’utilitarismo e l’economicismo presente nell’apparato ideologico dominante trasversalmente i due schieramenti, animatori di un sistema che offre ogni giorno al cittadino “due narrazioni”, una col capitale che ci offre nuovi progressi e nuove potenzialità, promettendoci l’avvento di un mondo in cui l’umanità realizzerà tutti i suoi sogni secolari, l’altra, appena si arriva alle “cose concrete”, che cambia il discorso, ricordandoci che nell’era socialdemocratica si è vissuti al di sopra dei nostri mezzi, che occorre rinunciare a diritti sociali che si erano creduti acquisiti, come un lavoro stabile, una pensione dignitosa, cure mediche e istruzione universali gratuiti, che oramai diventano sempre più privilegi in contrasto con le leggi dell’economia.
Secondo l’Autore: «suppongo non sia necessario avere un carattere particolarmente ombroso o incontentabile per arrivare alla conclusione che un sistema sociale che ha bisogno di favole di questo genere per legittimare le proprie modalità di funzionamento reali sia ingiusto e inefficace nel principio stesso, e proprio per questo imponga una critica radicale». Il capitalismo, quindi, è contestato alla sua stessa radice: l’individualismo anticomunitario. Per l’Autore infatti «la peggiore delle illusioni in cui oggi può cullarsi un militante di sinistra è quindi quella di continuare a credere che quel sistema capitalista che egli afferma di combattere costituisca in sé un ordine conservatore, autoritario e patriarcale, i cui pilastri fondamentali sarebbero la Chiesa, l’Esercito e la Famiglia. Se si confronta questa prospettiva delirante con ciò che abbiamo realmente sotto gli occhi, ci si rende conto che poggia su una confusione micidiale fra le differenti figure proprie allo spirito borghese (…) e allo spirito del capitalismo».
Concetti che, per chi ha letto Preve, non sono di per sé così nuovi, ma che risuonano come una bestemmia urlata all’interno della cattedrale del politicamente corretto. Ma «come può essere […] che un movimento storico di tale portata non sia mai riuscito a rompere nella pratica l’organizzazione capitalistica dell’esistenza?». “La sinistra” è ormai divenuta per Michéa un significante-padrone fatto prostituire già da molti anni, un’area che ormai ha dismesso la parola “socialismo”, che in origine indicava il mutuo soccorso operaio promosso da Pierre Leroux, divenendo negli anni ’80 sinonimo delle pagliacciate à la Jack Lang. Per l’Autore l’origine della crisi di tale area è da situarsi nel ‘900: all’inizio, in seguito all’affaire Dreyfus, era naturale il compromesso storico (è così definito dall’Autore) tra movimento operaio socialista e sinistra liberale e repubblicana, cioè «il “partito del movimento”, dove il partito radicale e la massoneria volteriana dell’epoca marciavano fianco al fianco», contro i fautori dell’Ancien Régime, nobiltà e clero.
Ma per l’Autore – sotto questo profilo in netta sintonia con Preve – tale fronte reazionario è stato definitivamente sconfitto dal Maggio del ’68, mentre l’odierna destra di oggi è anch’essa erede di quella stagione, dato che fa sue le istanze individualiste del liberalismo economico di Friedrich Hayek e Milton Friedman. Per l’Autore, quindi, che attacca Hollande alla pari dei conservatori gollisti dell’Ump, la sinistra si è adeguata a questo “partito del movimento”, cioè alla “sinistra liberale”:
«Privato del suo nemico storico e dei suoi bersagli specifici (come la famiglia patriarcale o “l’alleanza tra il trono e l’altare”), il “partito del movimento” è stato immediatamente costretto, per mantenere la sua identità originaria, a perseguire a tempo indeterminato la sua opera di “modernizzazione” del mondo (che è il motivo per cui, oggi, “essere di sinistra” non significa altro che essere in testa a tutti i movimenti che lavorano per la costruzione della società capitalistica moderna, che vadano incontro o meno agli interessi del popolo, o finanche al semplice buon senso). Anche se i primi socialisti condividevano con i liberali e i repubblicani il rifiuto di tutte le istituzioni oppressive e portatrici di ineguaglianza dell’Ancien Régime, non avevano alcuna intenzione di abolire tutte le forme di solidarietà popolare tradizionale, neppure quindi di attaccare le fondamenta del “legame sociale” (perché questo è ciò che inevitabilmente accade quando si afferma di voler fondare una “società” moderna – ignorando tutti i dati dell’antropologia e della psicologia – esclusivamente sulla base di un accordo privato tra individui considerati come “indipendenti per natura”). La critica socialista degli effetti atomizzanti e distruttivi sull’umanità del credo liberale, secondo il quale il mercato e il diritto astratto sarebbero stati sufficienti a formare, secondo le parole di Jean-Baptiste Say, un “collante sociale” (Engels scrisse nel 1843 che l’ultima conseguenza di questa logica sarebbe stata un giorno la “dissoluzione della famiglia”), divenne quindi chiaramente incompatibile con il culto del “movimento” come fine in sé, di cui Eduard Bernstein aveva formulato il principio sin dalla fine del XIX secolo, proclamando che “il fine è nulla” e “il movimento è tutto”. Per liquidare quest’alleanza ormai priva di senso tra i sostenitori del socialismo e recuperare la sua indipendenza originaria, la “nuova” sinistra non dovette fare altro che imporre mediaticamente l’idea che qualsiasi critica dell’economia di mercato o dell’ideologia dei diritti umani (il “pomposo catalogo dei diritti dell’uomo” a cui Marx contrapponeva, ne Il Capitale, l’idea di un modesta “Magna Carta” capace di proteggere realmente le sole libertà individuali e collettive fondamentali) porterebbe ineluttabilmente al “gulag” e al “totalitarismo”. La missione è stata portata a termine alla fine degli anni ’70 da quella “nouvelle philosophie” che oggi è diventata la teologia ufficiale della società dello spettacolo. In queste circostanze, io continuo a pensare che oggi è diventato politicamente inefficace, se non pericoloso, continuare a promuovere un programma di ritiro graduale del capitalismo sotto le insegne esclusive di un movimento ideologico la cui missione emancipatrice è finita, in sostanza, quando la destra monarchica, reazionaria e clericale è definitivamente scomparsa dal panorama politico. Il socialismo è per definizione incompatibile con lo sfruttamento capitalistico. La sinistra, purtroppo, no. E se tanti lavoratori – autonomi o dipendenti – ormai votano a destra, o non votano per nulla, è spesso perché hanno percepito intuitivamente questa triste verità».
L’autore è colpito da questa graduale mutazione genetica – parallela a quella della sinistra italiana – che porta il PS ad essere accostato con l’UMP nel considerare l’economia capitalista come l’orizzonte ultimo del nostro tempo, con Christine Lagarde nominata direttrice del FMI per perseguire la stessa politica di Strauss-Khan, a sua volta finanziatore, attraverso lo stesso organismo, della fondazione Terra Nova, che ha introdotto le primarie – un sistema americanizzato quindi – nel partito progressista “di maggioranza”.
Oggi, prosegue l’Autore, «stiamo assistendo ad una surreale e feroce lotta tra coloro la cui unica missione è difendere tutte le implicazioni antropologiche e culturali di questo sistema e coloro che devono far finta di combatterlo», con una sinistra che da una parte cancella i diritti dei lavoratori, e dall’altra si fa dettare la propria linea da «un ex groupie di Bernard Tapie e di Edouard Balladur come Christiane Taubira», quella del matrimonio gay, una “stilettata” anche contro chi mette in croce Alexis Tsipras per non aver nominato ministri di sesso femminile, incappando nell’accusa di “sessismo” e “paternalismo”, facendo dimenticare – nonostante le contraddizioni di Syriza – che in Grecia non si muore di sessismo, ma di precarietà, disoccupazione e crisi economica, e che vi sono altre priorità alla lotta di genere, e cioè portare la pagnotta sulla tavola ponendo fine all’attacco della troika.
Una riflessione che ci porta a convergere col pensiero autenticamente socialista di Michéa, che contesta al movimento noglobal non le sue giuste critiche al neoliberismo, ma la base liberale di questi movimenti, che fanno l’elogio dell’individuo isolato che manifesta per il diritto di restare un individuo isolato, la “moltitudine” di Toni Negri che “contesta” l’anonimo Impero.
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