Il dover essere del partito e la politica nazionale
Articolo che propone osservazioni fondate e ottimi spunti di riflessione, anche se gli accenni al “metodo democratico” vanno approfonditi e alcune prese di posizione valutative si possono discutere.
di ANTHONY DOMINO (ARS Sicilia)
Così recita l’articolo 49 della Costituzione italiana: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Il partito politico funge da collettore fra la sfera della libertà, che si concretizza nella società civile, e la sfera dell’autorità, rappresentata dal potere dello Stato; permette che i cittadini manifestino la loro volontà e che questa si tramuti in decisioni politiche che producono effetti sopra le teste di tutti.
La novità apportata, rispetto al passato, dalla Costituzione del 1948 è che il partito non è concepito quale organo attraverso cui si esplicita il potere sovrano, bensì quale strumento popolare volto a controllare e limitare detto potere; infatti ciò è dimostrato dalla “collocazione geografica” della disposizione che lo riguarda (l’art. 49 Cost): non già nella parte relativa all’organizzazione costituzionale, ma in quella che istituisce i diritti e i doveri dei cittadini. Ugualmente si evince esaminando l’enunciato normativo, che assume come soggetto “tutti i cittadini” e non “i partiti” – che ricoprono un ruolo strumentale.
Resta ora da osservare l’espressione “con metodo democratico”. Possiamo attribuirle almeno tre significati. Democratico potrebbe significare pacifico, nel senso che il popolo ha come strumento di determinazione della politica nazionale il partito e non un metodo violento come la lotta armata: questa interpretazione (seppur corretta) non può essere accolta come esaustiva, in quanto meramente caratterizzante di un modello sociale in cui non vige il bellum omnium contra omnes e sicuramente non di un modello democratico.
Democratico potrebbe essere inteso come sinonimo di egalitario, nel senso che i partiti devono essere trattati secondo il principio di uguaglianza formale e concorrere fra loro in condizioni di pari opportunità: pur essendo una giusta considerazione questa, si deve tuttavia notare che essa attiene ai partiti in sé e non ad essi in quanto strumenti nelle mani dei cittadini. Infine possiamo – e dovremmo – interpretare la suddetta espressione nel senso in cui l’organizzazione partitica deve essere improntata a criteri di democrazia per ciò che concerne la definizione della linea programmatica comune.
E’ mia opinione che i costituenti avessero inteso il partito come un’organizzazione di diritto privato, essendo esso una manifestazione della libertà dei singoli, che prevedesse una assemblea e un consiglio direttivo. La prima quale luogo in cui i membri del partito elaborassero e adottassero a maggioranza il programma politico da perseguire, il secondo quale organo volto a manifestare verso l’esterno la volontà del partito.
D’altra parte, come potrebbe un partito non improntato al metodo democratico così inteso concorrere alla democrazia? Non potrebbe. Anzi, facilmente si creerebbero meccanismi idonei ad accentrare nelle mani di una sparuta intellighenzia il potere di adottare le decisioni e la linea programmatica; facilmente il partito si scollerebbe dalla sfera della libertà per arroccarsi a quella dell’autorità e quindi mutare da strumento popolare a strumento di potere riservato a pochi. E così effettivamente è stato (almeno) negli ultimi venti anni, in cui i partiti hanno pervaso ed insidiato l’intera vita pubblica del Paese; anni in cui i partiti hanno imposto la loro “elefantiasi” da una parte e la loro sempre maggiore sudditanza al costituendo sistema di potere europeo: si sono dimostrati, cioè, abilissimi nell’accaparrarsi le più prestigiose posizioni all’interno della pubblica amministrazione e dell’economia nazionale e, per converso, incapaci di guidare il Paese.
E’ stato giocoforza che, una volta mutata concretamente la forma di governo da democrazia in partitocrazia, i cittadini e tutta l’opinione pubblica hanno cominciato a ritenere inutile e persino deleteria la politica, dando facile gioco a quanti vedessero nella tecnocrazia il metodo ideale con cui prendere le decisioni. Infatti, mentre i leader politici a capo di partiti personali sono soggetti ai cambiamenti delle mode e alla volubilità delle masse, i tecnocrati sono visti dai più come porto sicuro mentre il mare è in tempesta – non importa cosa decidano.
In ogni caso, manca una legge che regolamenti il partito – come pure ne manca una che regolamenti il sindacato. E ciò, se storicamente contestualizzato, ha un senso: il codice civile del 1942 originariamente prevedeva forti ingerenze del Governo nella vita delle associazioni dotate di personalità giuridica e, per questa ragione, i partiti decisero di adottare la forme dell’associazione non riconosciuta di diritto privato (la stessa che mantiene tuttora). Il grande vantaggio di tale natura giuridica consiste nella più ampia libertà d’azione del partito, che non è sottoposto a nessun tipo di controlli di natura pubblicistica; ma non possiamo non ammettere che oramai questa caratteristica è stata sfruttata ad uso e consumo dei segretari di partito che, scollandosi affatto dalla “base” e dalla società civile, hanno creato dei partiti composti da nominati.
La soluzione auspicabile sarebbe una legge che preveda, pur mantenendo la natura privatistica del partito, una regolamentazione tale che, in virtù della natura pubblicistica degli interessi in gioco, disponga precisi criteri di selezione delle élites di partito, precise procedure per l’adozione delle linee politiche (evidentemente informate al “metodo democratico”), precisi diritti e obblighi in capo ai membri stessi del partito. Solo così, a mio modesto avviso, il partito tornerà ad essere ciò per cui l’Assemblea Costituente l’ha concepito: un medium fra la società civile e il potere statuale.
Una risposta
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