Fondamentalismo capitalista
di FRANCO CASSANO (sociologo; Università di Bari)
Il capitalismo è quella forma di fondamentalismo che ha come suo centro il capitale. Ma la critica del fondamentalismo del capitale non può appoggiarsi ad altri fondamentalismi, né a quello del progresso, così caro al Marx del Manifesto, né a quello della rivoluzione, che ritiene disinvoltamente che la redenzione dell’umanità possa passare attraverso la reclusione e la liquidazione di una parte di essa.
Quando parlo di fondamentalismo, parlo di una procedura intellettuale attraverso la quale una forma di vita storicamente determinata viene indebitamente innalzata a condizione ontologica e naturale dell’uomo. Ora a me sembra che il fondamentalismo del mercato e dell’economia porti ad un’esaltazione di quello che io chiamo l’individualismo radicale, un individualismo che rifiuta ogni legame sociale e ritiene la nozione stessa di interesse collettivo un’inaccettabile prevaricazione a danno della sua libertà. C’è in questa spinta sicuramente un aspetto liberatorio, ma come non vedere che il suo tratto più costante è proprio l’erosione di ogni identità collettiva?
Questa spinta è formidabile. La dimensione oceanica della globalizzazione ha messo in crisi anche gli stati nazionali: di fatto ne ha ridimensionato profondamente la forza e il potere, ma nello stesso tempo ne disgrega il collante collettivo. Credo che questo processo di sradicamento, se non si fa qualcosa, continuerà ad andare avanti.
Evitare che il futuro possa essere soltanto una deriva anomica dell’individualità, un’individualità sempre più nomade e ribelle, e sempre orientata nella direzione opposta a quella della ricostruzione di qualsiasi legame sociale. La filosofia di Gilles Deleuze rappresenta, secondo me, proprio questa prospettiva: l’esaltazione di questa progressiva decomposizione della comunità, vista come una rivoluzione molecolare. Io non condivido per niente questo giudizio. Nella stessa cultura occidentale la nozione di cittadinanza è una nozione chiave, una nozione dalla quale anche le altre culture avrebbero qualcosa da apprendere.
Ma quella nozione presuppone una dialettica forte tra diritti e doveri: i cittadini sono liberi, ma sono anche soggetti a degli obblighi, che derivano dalla loro appartenenza ad una comunità. Io credo che negli ultimi decenni questa corrispondenza e questa dialettica si siano decomposte a favore dell’esaltazione unilaterale della libertà e dei diritti individuali. Un esempio? Le tasse sono una parte del nostro appartenere alla comunità. Ma la rivolta antifiscale tende, in molti casi, a significare fondamentalmente che i doveri collettivi si devono indebolire a favore dell’intraprendenza individuale. Io credo che tutto questo produca la perdita della fraternità e della coesione sociale, la crescita delle disuguaglianze, la moltiplicazione delle patologie.
Le patologie degli stati totalitari avevano tutte un nome preciso. I Lager e i Gulag imprigionavano, mettevano dentro. Le patologie del mercato invece mettono fuori, vengono chiamate esuberi, si spostano erraticamente da un paese all’altro in funzione degli interessi delle grandi imprese e del capitale finanziario. Si tratta di patologie sociali e politiche, che però vengono vissute come drammi individuali che non hanno una forma di rappresentazione collettiva.
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