Il mito dell'"equità naturale"
di UGO FOSCOLO
Non contradico all’universale opinione che ogni uomo consti di due essenze, una tutta spirituale, l’altra tutta materia; che questa senta le passioni, e quella le regoli per mezzo d’un lume universale del retto, del vero, e del giusto, che, applicato dall’uomo a sè stesso, è chiamato Ragione; applicato agli altri, è chiamato Equità. Alcuni fatti rispondono a questa teoria, ma gli annali del genere umano la contradicono.
Vero è che i mortali, quanto più sentono la loro miseria, tanto più si confortano d’una facoltà conceduta ad essi dalla natura; ed è l’immaginazione: onde come gli artefici egregi fanno modelli di bello corporeo, così i filosofi hanno concepita e celebrata l’idea del retto morale e politico: rare ad ogni modo si veggono persone vive somiglianti all’Apollo di Belvedere, e rarissimi, non che popoli, individui capaci della perfezione desiderata.
Quanto più un popolo vi s’accosta, tanto più gli riesce utilissima quella e le altre teorie che celano i vizj, e abbelliscono le umane virtà; quando poi torna a precipitare verso la corruzione, allora ad alcuni bennati le teorie sono stimolo a nobile vita, a sublimi speculazioni, e generosissime imprese; ma alla universalità de’ cittadini necessitano rimedi desunti dall’esperienza e, consentiti dalla natura perpetua dell’uomo.
Anch’ io uomo e debole, quando l’esempio dell’altrui schiavitù mi fe’ temere di perdere la mia libertà, quando il sentimento contro l’oppressione comune mi suggeriva di unirmi a chi poteva accrescere le mie forze per respingerla o tollerarla, anch’ io invocai l’equità naturale, e la vidi talvolta in mezzo alle famiglie, e tra pochi sventurati che amavano per essere riamati, e tra due amici che si riunivano contro l’avversa fortuna e la indifferenza degli uomini, ed osservai spesso che il bisogno la convertiva in costume: ma gli effetti o danneggiavano gli altri, o non si propagavano; e tolte le cause, non la vidi più.
Accusai il carattere della mia nazione, e cercai l’equità naturale tra gli Inglesi, celebri per stabilità di leggi, per giustizia di tribunali, per prosperità d’arti, per libertà di cittadini; e trovai navi cariche d’uomini negri incatenati, flagellati e condotti da’ loro tuguri dell’Africa alla gleba dell’America.
La cercai tra’ Negri; e vidi il padre che vendeva i figliuoli.
La cercai in tutta l’Asia; e vidi le mogli, le sorelle, le madri, le figlie serve della gelosa libidine d’un uomo solo; le madri allattavano i loro figliuoli sotto la sferza di un eunuco.
La cercai nelle regioni più lontane dal sole; e vidi in tutta la Russia, e nella Svezia e nella Polonia milioni d’uomini schiavi di pochi patrizj.
Accusai il mio secolo e ricorsi agli antichi, e alla virtù degli Spartani; e vidi gl’Iloti sacrificati come buoi; e i giovani rubavano nell’altrui campo senza rimorso, e con lode se non erano colti; erano bensì puniti se al furto non sapeano associare l’astuzia: e sulle rive dell’Eurota, ove pare che i numi e la giustizia avessero are e lavacri, vidi le madri che affogavano i loro figliuoli.
La cercai al popolo d’Atene che si professava propugnatore della religione e della libertà della Grecia, che fu forse il più ingiusto popolo co’ suoi cittadini, ed il più equo e più generoso verso le altre nazioni; e vidi tutti i giovani, appena tocca l’età militare, radunarsi intorno al sepolcro di Cecrope, ed imbracciando lo scudo per cui diventavano cittadini, giurare solennemente, sotto pena d’essere consacrati alle Furie, di considerare per confini della patria tutte le terre che producessero frumento, orzo, viti ed ulivi.
La cercai a’ Romani da’ quali derivano tutti i codici de’ popoli inciviliti; e vidi sui confini della Repubblica scritto parcere subjectis; ma soltanto subjectis; e nelle loro case vidi i padri con arbitrio di carcere e di sangue sul corpo de’ figliuoli adulti; e i servi torturati, uccisi, e chiamati animali senza parola, e preda legittima, perchè soggetta alla mano che la pigliò.
Accusai la corrotta civiltà de’ sistemi sociali, e cercai l’equità naturale nella isola più selvaggia scoperta da Cook; e vidi l’isola insanguinata da’ cadaveri de’ suoi abitanti, che si contendeano la terra e la preda abbondantissima a tutti.
La cercai tra le virtù di que’ Germani contrapposte da Tacito ai vizi del mondo soggetto a Roma; e vidi due uomini che si giuocavano gli armenti, le armi, i figliuoli, e sè medesimi a’ dadi: e dove a’ numi non si offerivano armenti, si trucidavano vittime umane.
Cercai finalmente l’uomo in istato di natura; ma forse i filosofi l’avranno veduto fuor di natura, poichè m’avvidi come lo stato dell’uomo fu sempre e contemporaneamente guerriero e sociale. E conobbi assurda la distinzione di natura e di società, quasichè alle arcane leggi della natura immutabile, imperscrutabile, immensa, non fosse soggetta la vacillante ragione dell’uomo, che non sa nè come viva, nè perchè viva, e che s’ei riguarda il sole e i pianeti, l’ampiezza e l’infinità dei mondi, s’accorge quanto è angusta questa sua terra, ch’egli nondimeno non sa misurare senza ingannarsi, e di cui, dopo tanti secoli di curiosità, di calcoli e di fatiche non può conoscere nè l’età, nè le vicissitudini, nè i confini, nè il principio, nè il termine.
Adunque, veduti i mortali nella storia d’ogni epoca e ne’ costumi di qualunque comunità, appare che ogni loro azione deriva dalla inimicizia reciproca, e ogni loro pace dalla stanchezza. Invano la religione, e la santissima fra le altre, esortava il genere umano a lasciarsi giudicare nelle sue liti dalla paterna giustizia d’ Iddio. Gli astuti e i potenti hanno abusato di questo divino compenso, ed affilate armi a più feroci discordie; e ne hanno agguerrito l’infinita moltitudine de’ violenti e bestiali, gridandole: — Ti sbramerai santamente di sangue! —.
Adorai l’arcana sapienza del Cielo. Invano i giurisprudenti celebrarono il diritto delle genti: lo trovai potentissimo nel timore di due nazioni che non ardivano di affrontarsi, o si collegavano contro un’altra più forte; ma, cessata la causa, cessava il vigor del diritto. Non essendovi tribunali, nè profossi, nè patiboli tra’ due principi, la forza inframmetteva inappellabilmente la sua sentenza, e la scrivea con la spada, finchè il terrore delle altre nazioni, e il fremito del genere umano contro l’usurpazione non suscitasse nuove forze per abbattere il vincitore.
Frattanto i vinti obbedivano; i popoli vittoriosi onoravano il principe che li facea ricchi e temuti, i vicini lo rispettavano, e i lontani e i posteri lo ammiravano.
Conchiusi che la natura opera per mezzo della discordia di tutti i mortali onde agitare, trasformare e far sempre rivivere con moto perpetuo di distruzione e di rigenerazione a certi ricorsi di tempi le cose tutte, [e] gli uomini; che se la concordia fosse legge della natura, sarebbe infrangibile; i giurisprudenti non esorterebbero i principi a mantenerla, e i popoli non si guerreggerebbero mai.
[Della servitù dell’Italia, Discorso primo, 1815]
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