Politica dei redditi e occupazione: Tarantelli intervista Caffè
Ezio Tarantelli
Il problema della politica dei redditi è un problema che è dibattuto in Europa e non soltanto in Italia almeno dalla fine degli anni Cinquanta, quando in Paesi come l’Olanda e il Belgio si pensò, per la prima volta proprio all’inizio o forse un po’ dopo l’inizio del cosiddetto miracolo economico europeo, di controllare l’inflazione coinvolgendo il sindacato con la possibilità di moderazione del tasso di aumento dei salari monetari all’interno degli strumenti più generali della politica economica; dalla politica monetaria alla politica fiscale e il discorso che allora si faceva, siamo alla fine degli anni Cinquanta, era grossomodo questo: il sindacato moderi le proprie rivendicazioni salariali in linea con il tasso di aumento della produttività, in modo da contenere il tasso di aumento dei prezzi da parte delle imprese e il governo faccia le riforme.
Molto tempo è passato da allora, ci sono state tre crisi formidabili nei Paesi industrializzati, la crisi del cosiddetto Maggio francese del 1968, l’aumento della conflittualità in fabbrica e in azienda, l’Autunno caldo italiano del 1969 e poi la prima crisi petrolifera, quella del settembre del 1973, e la seconda crisi petrolifera del 1979.
A fronte di queste tre crisi formidabili, sta uno scenario futuro altrettanto carico di rischi, di problemi non soltanto economici, ma anche sociali e politici; forse due tra i problemi economici maggiori che ci sono di fronte sono: il pericolo di riaccensione dei focolai inflazionistici, una volta che la ripresa – che proprio in questo momento sta iniziando dagli Stati Uniti che poi sono stati subito seguiti a partire dalla fine dell’83 dalla Germania e dal Giappone – abbia luogo. E una volta che questa ripresa abbia luogo, [si ripresenta] il pericolo che nuovi focolai inflazionistici possano verificarsi nei Paesi industrializzati.
Poi c’è il problema dei Paesi del Terzo Mondo, ma su questo non avremo il tempo di rientrare, e che in parte è figlio della crisi dei Paesi industrializzati perché, ovviamente, se questi Paesi restringono il livello del credito, della domanda e dell’occupazione, non importano materie prime dai Paesi sottosviluppati e quindi troncano la possibilità da parte di questi ultimi di potersi sviluppare.
Poi c’è il pericolo di una terza crisi petrolifera che naturalmente è sempre una spada di Damocle sulla nostra testa, non appena la domanda sui mercati mondiali dovesse raggiungere i livelli già raggiunti nel 1979 e poi, prima ancora, come già ricordavo, nel 1973.
Esistono poi domande inevase di maggiore giustizia sociale da parte delle donne, dei giovani, dei disoccupati e che fondamentalmente ci provengono almeno da quella crisi del Maggio francese e dell’Autunno caldo italiano del ’69 a cui facevo riferimento poc’anzi.
In tale scenario la mia osservazione è che quei Paesi che negli ultimi dieci anni hanno attuato politiche dei redditi centralizzate «per così dire a Palazzo Chigi» – ciascun Paese nel suo «Palazzo Chigi» – in cui il sindacato è stato coinvolto all’interno della politica economica come soggetto attivo e nella sua possibilità anche di difendere il salario reale ma moderando la crescita dei salari monetari, questi Paesi, che hanno attuato questa politica dei redditi, se la sono cavata meglio degli altri.
Il problema è naturalmente quello di vedere in che modo anche l’Italia, nella salvaguardia del salario reale e nella salvaguardia del sindacato come soggetto attivo di politica economica, possa intervenire in modo operativo all’interno della politica economica e quindi all’interno di una politica dei redditi di questo tipo.
Ecco, io vorrei chiedere al professor Caffè: che cosa ne pensa di questa vecchia concezione – passeremo tra poco alla nuova concezione della politica dei redditi –, cosa ne pensa il prof Caffè di questa vecchia concezione di politica dei redditi che sostanzialmente allineava, con la promessa delle riforme, il tasso di incremento dei salari monetari al tasso di incremento della produttività, chiedendo ai sindacati di rispettare questa regola?
Federico Caffè
Entrando nel concreto, quello che ricordo della politica degli anni Cinquanta inoltrati e Sessanta, di imitazione prevalentemente anglosassone, è che si usava parlare di politica dei prezzi e dei redditi; c’era quindi la promessa generica delle riforme, ma c’era anche l’indicazione, come era stata fatta in altri Paesi, di qualche cosa di più concreto, vale a dire di
una politica che non riguardasse soltanto i redditi salariali, ma che riguardasse tutti quanti i redditi.
In Italia, tutto questo è avvenuto semplicemente a parole, nel senso che si è iniziata sin d’allora quella tradizione, che poi continuerà anche in seguito, di richiedere delle condizioni da assolvere immediatamente e di dare delle promesse sia in termini di riforme, sia in termini di miglioramenti generali riguardanti le condizioni di lavoro, da assolvere nel futuro.
Promesse nel futuro che non sempre sono state mantenute e che hanno dato un certo carattere di scetticismo a tutta questa politica e vi è una specie di parallelismo tra la politica dei redditi, come è comprensibile, e la politica monetaria, nel senso che nella misura in cui disponessimo di una politica dei redditi efficace la politica monetaria potrebbe essere più rilassata, potrebbe essere più blanda, allo stesso modo che tutti i problemi di bilancia dei pagamenti li abbiamo eternamente risolti con la politica monetaria restrittiva. Così tutte le nostre applicazioni della politica dei redditi sono stati promesse e impegni ora, promesse nel futuro, e questo credo che non abbia contribuito a dare una «rispettabilità» – starei per dire – alla politica dei redditi stessa, mentre essa è molto utile se si vuole conseguire ancora oggi un obiettivo di elevata occupazione.
Tarantelli
Ecco, il professor Caffè ha ricordato con chiarezza quello che alcuni anni fa, adesso dobbiamo dire più di dieci anni, si diceva della politica dei redditi, come la politica delle promesse mancate, e si diceva anche – alcuni lo ricorderanno – la politica dei due tempi: prima fate la moderazione salariale, si diceva al sindacato, poi verranno le riforme. In Italia ma anche in altri Paesi quelle riforme non vennero mai.
E la crisi del ’68 con il Maggio francese e l’Autunno caldo italiano dell’anno successivo, del 1969, che molti ricorderanno, sostanzialmente misero sotto contestazione insieme a varie altre cose anche questo modo di impostare la politica dei redditi. Vennero poi due altre crisi formidabili: la crisi del petrolio del 1973, con la quintuplicazione del prezzo del petrolio e poi la crisi dell’autunno del 1979, la cosiddetta seconda crisi petrolifera.
Queste tre crisi, quella dell’Autunno caldo italiano, del ’73 e del ’79, hanno chiaramente messo sotto accusa questa vecchia concezione della politica dei due tempi che, come il professor Caffè ricordava, fu la politica delle promesse mancate, la politica dei due tempi. Io vorrei chiedere al professor Caffè in che modo secondo lui questi eventi – se potesse un po’ elaborare su questo argomento – hanno modificato l’accettabilità stessa di questa vecchia concezione della politica dei redditi nei Paesi industrializzati.
Caffè
Beh, indubbiamente gli eventi del ’69; tutto sommato, hanno in qualche modo attribuito ai sindacati delle responsabilità che non fossero di carattere puramente salariale; questo in un primo tempo è stato riconosciuto come un fatto che rispondeva a esigenze obiettive, che il sindacato si occupasse delle condizioni di lavoro anche al di fuori della fabbrica, vale a dire delle condizioni di abitabilità, che si occupasse delle condizioni della salute del lavoratore; che si occupasse delle possibilità anche della pendolarità del lavoratore e quindi dei problemi del trasporto, non era qualcosa che usurpasse poteri di altre forze rappresentative.
Ecco, in un primo tempo questo, direi, fu fatto in una specie di stato di necessità; successivamente – anche attualmente – lo – si considera quasi un’usurpazione da parte dei sindacati di problemi che appartengono al partito, ma in realtà, io direi che anche in economia non è ammessa la possibilità del vuoto: se i sindacati a suo tempo assunsero questa funzione, fu assunta in quanto non era sufficientemente tenuta in conto da parte delle altre forze rappresentative delle varie categorie sociali.
Il punto che rimane da chiedere è se quest’azione (non meramente salariale) del sindacato, che io ritengo efficace, sia un’azione che abbia riguardato tutti i potenziali lavoratori o abbia riguardato soltanto i lavoratori occupati. Temo che la risposta sia che il sindacato abbia dato sempre una certa prevalenza esclusivamente ai lavoratori occupati per ragioni agevolmente comprensibili, ma lo stato attuale dell’aggravarsi della segmentazione del mercato del lavoro, della presenza di masse rilevantissime di disoccupati giovanili dovrebbe condurre il sindacato a un ripensamento circa la sua funzione, non soltanto nei confronti degli iscritti ma anche nei confronti dei potenziali lavoratori.
Tarantelli
Quindi, a partire dal ’68, si può dire che il sindacato in questa visione della politica dei redditi, cessa di essere un semplice esecutore di una regola – far aumentare il salario monetario quanto la produttività del lavoro – e inizia un suo ruolo, tra il ’68 e l’inizio degli anni Settanta, di gestore del conflitto dell’alta conflittualità di quegli anni e poi un ruolo di vero e proprio soggetto attivo di politica economica; almeno in alcuni Paesi, penso ai quattro Paesi scandinavi, all’Austria, alla Germania, o al Giappone.
In altri Paesi, le cose invece vanno diversamente; qui il rientro dall’inflazione, quando c’è, c’è attraverso strette monetarie che serrano il cordone del credito attorno al collo dell’economia, fanno aumentare i tassi di interesse – pensiamo alla politica della Thatcher in Inghilterra o alla politica reaganiana negli Stati Uniti – e creando disoccupazione, mettono in ginocchio sindacati e lavoratori e li costringono in questo senso a quella politica dei redditi che per motivi di conflitto politico e sociale interno non è stata accettata.
Questo modo di vedere il problema va sotto due etichette nel gergo degli economisti: «monetarismo» da un lato, «neo-keynesismo» dall’altro. Secondo la scuola monetarista – semplificando al massimo – si tratta di rientrare dall’inflazione stringendo, appunto, il cordone del credito attorno al collo dell’economia, creando disoccupazione e mettendo in ginocchio sindacati e lavoratori. Secondo il «neo-keynesismo» si tratta di fare una politica diversa dalla politica dei redditi della fine anni Cinquanta, cioè una politica che non veda il sindacato come un soggetto passivo che fa aumentare il tasso di incremento dei tassi monetari in linea con il tasso di incremento della produttività, con promessa di riforme che magari non verranno mai, ma un sindacato invece come soggetto attivo di politica economica, che in cambio di riforme contestuali accetta la moderazione sul piano del salario.
Io vorrei chiedere al professor Caffè se potesse elaborare un po’ su queste due scuole importanti di pensiero economico, monetarismo da un lato e neo-keynesismo dall’altro, e darci un po’ la sua opinione a questo riguardo.
Caffè
Beh, il professor Tarantelli sa molto bene che il monetarismo non è l’indirizzo di pensiero che io condivido, per il semplice fatto che anche laddove ha raggiunto il risultato di provocare un certo rientro dall’inflazione non bisogna illudersi: questo è stato ottenuto a prezzo di gravissimi costi sociali, che sono stati rilevati anche dalla stampa più moderata di tali Paesi. A parte la circostanza che le necessità di provvedere in qualche modo alle esigenze minime di vita hanno poi contribuito – e il caso dell’Inghilterra ma anche degli Stati Uniti d’America – ad aggravare il disavanzo del bilancio.
Il fatto è che si è creata una categoria di cittadini che vivono con delle forme di sussidio – scriveva «The Economist» – come gli indiani nelle riserve, come cittadini di seconda categoria. Quindi non credo che questo possa corrispondere a degli ideali sociali, né dal punto di vista tecnico a mio avviso, per quello che vale – a nessuna validità empirica che il conseguimento e il rallentamento del ritmo dell’inflazione di per sé porti a modificare le condizioni sociali che, anzi, possono essere anche ulteriormente aggravate anziché essere attenuate.
Quindi è chiaro che il monetarismo, secondo me, sta trovando le sue manifestazioni fallimentari proprio nella circostanza – molto grave, anche per i riflessi nei confronti dei Paesi sottosviluppati che anche laddove il tasso di inflazione è rientrato, i tassi di interesse reali sono rimasti elevati – i tassi di interesse depurati dall’inflazione – e questo ovviamente determina grosse conseguenze sia sul piano interno, sia sul piano internazionale.
Quanto al neo-keynesismo, in questa nuova interpretazione come nuova politica dei redditi, vorrei ricordare una frase scherzosa di un economista americano che si è molto interessato dei problemi del lavoro e dell’occupazione, Okun; il quale ha avuto occasione di dire che se mettiamo in una gabbia un leone e una pecora è necessario tenere in riserva una buona scorta di pecore. E dunque – è sempre Okun che lo dice – se una società si avvale di una politica dei redditi se ne deve possedere una buona scorta.
Quindi io non mi sorprendo che esistano delle varie formulazioni di politica dei redditi, che non esista un tipo standard e che provengano proposte di continuo. Lo stesso Tarantelli ha contribuito con varie sollecitazioni, con varie proposte, con varie indicazioni a fornire dei modelli di politiche dei redditi. Rimango un pochino più sorpreso – e debbo dire che io non rientro nella categoria di coloro che danno suggerimenti in questo campo specifico – quando si ritiene che una particolare configurazione della politica dei redditi sia quella che porti a risultati giusti.
Bisogna procedere, come avviene in economia, per tentativi ed errori; non bisogna esaurire anche la pazienza in questi tentativi, perché si tratta di realizzare un accordo tra le parti sociali e questo non è sempre agevole, ma è l’unico modo per conciliare un livello più elevato di occupazione, che rimane sempre, a mio avviso, l’obiettivo prevalente di una qualsiasi politica sociale accettabile, con tassi di disoccupazione e tassi di inflazione che attualmente devono anche tenere conto delle riaccensioni che si possono manifestare da parte dell’estero, oltre che di quelle domestiche.
Tarantelli
Io direi che sono assolutamente d’accordo con quello che ci ha appena detto il professor Caffè riguardo al monetarismo; anche io credo che questo tipo di politica, se è riuscita in casi importanti come in quello americano e in quello inglese, a far ridurre il tasso di inflazione, l’ha fatto a costi di disoccupazione tali che c’è da chiedersi se la cura non sia stata peggiore del male che si voleva curare; e nel caso della politica dei redditi, dal momento che sono in parte anche io responsabile – come appena ora ricordava il professor Caffè – di proposte di modelli di politica dei redditi per il rientro dall’inflazione nel nostro Paese, sono anche del tutto consapevole del pericolo che proposte di questo tipo possono provocare.
Ad esempio, nel momento in cui si parla di predeterminazione dell’inflazione e si dice: i sindacati a Palazzo Chigi dovrebbero concordare con il Ministro del Lavoro e le altre parti sociali, in particolare i rappresentanti degli imprenditori, su un tasso di incremento dei prezzi e sintonizzare e armonizzare la politica salariale, per raggiungere quell’incremento, una delle critiche che vengono rivolte – e sono state rivolte a molti di noi che si occupano di questi problemi (e anche al sottoscritto) è l’eccessiva centralizzazione di una politica di questo tipo.
Cioè il pericolo che il Ministro del Lavoro, la Confindustria e i sindacati decidano per tutti a Palazzo Chigi, come dire in barba da un lato al Parlamento e dall’altro agli operai e agli impiegati. Io questo pericolo – che naturalmente, come dirò tra poco, è un pericolo che penso possa essere superato – me lo rivolgo anche come un’autocritica, e vorrei chiedere al professor Caffè cosa ne pensa.
Caffè
Ma, vedi, una politica salariale completamente decentrata – e questo ce lo hai insegnato tu – si è realizzata anche dal Giappone e questo non dipende esclusivamente dalla debolezza del movimento sindacale, ma anche dal fatto che le imprese si fanno carico delle condizioni dei lavoratori. Ora non so in che modo questo modello «mitico», che noi ci portiamo sempre dietro senza conoscerlo a sufficienza, possa essere senz’altro riprodotto in altri Paesi.
Quindi è chiaro che i due livelli di contrattazione, a livello presso la fabbrica e al livello che tenga conto delle esigenze macroeconomiche dell’economia, devono poter coesistere, ma devono poter coesistere senza conflitto e questo avviene attraverso, credo, un maggiore scambio di informazioni, una maggiore trasparenza, una maggiore possibilità di conoscere quali sono i problemi reali che vengono affrontati e soprattutto il controllo della verifica che quotidianamente l’operaio da una parte, la massaia dall’altra, possono fare.
Non si possono stabilire criteri di moderazione e contemporaneamente avere aumenti continui di prezzi di tariffe di alcuni generi di prima necessità. Bisogna mettersi in mente che la politica dei redditi è una politica di deliberata tregua all’aumento dei prezzi, per guadagnar tempo, quindi tutta la difficoltà che noi incontriamo nel nostro Paese dipende dal fatto che alcuni strumenti di politica economica non li riteniamo rispettabili: i controlli, i controlli sui prezzi, i razionamenti delle forme che tecnicamente noi chiamiamo controlli diretti, vengono considerati o indesiderabili o inapplicabili. Personalmente, io sono portato a non condividere nessuna di queste due posizioni, né che siano indesiderabili, perché quanto più voi rinunciate a queste forme di controllo, tanto più dovete stringere quella corda della politica creditizia, che poi è l’unica a funzionare – quale sia la situazione delle finanze lo sappiamo tutti, quindi è inutile insistere sull’ovvio.
Non la ritengo non praticabile perché il popolo italiano non è capace di assoggettarsi ad alcuna disciplina, perché questa mi pare francamente un’argomentazione di carattere razzista; io quindi insisto: non sono un creatore di formule, ma ritengo quindi che una politica dei redditi sia inseparabile da una politica dei prezzi, oltre ad essere una politica che non si applichi soltanto ai redditi salariali ma cerchi di potersi applicare anche alla generalità dei redditi.
Tarantelli
Tu hai messo qui in evidenza un punto su cui non posso che concordare, cioè la necessità di istituire anche nel nostro Paese, come è stata istituita in altri – penso al caso più classico, quello austriaco la commissione paritaria sui prezzi, organismo istituzionale di controllo serio sui prezzi, e che almeno i prezzi delle medie e grandi imprese possano essere se non sempre controllati, certamente anche sorvegliati; e poi c’è il discorso che tu non hai fatto ma su cui so che sei d’accordo, e cioè il discorso sulle tariffe pubbliche e sui prezzi amministrati e cioè il fatto che, se pensiamo ad esempio alla storia più recente, quella del 1983, c’è più di un punto e forse due punti di inflazione in più, come effetto di un aumento unilateralmente deciso dal governo sulle tariffe sui prezzi amministrati di cui certamente non possono essere resi responsabili né gli operai, né tanto meno il sindacato.
Abbiamo anche affrontato un discorso che nel gergo va sotto il nome di neo-corporativismo, sebbene lo abbiamo fatto fino a ora in modo del tutto implicito, e cioè un modello nel quale il sindacato contratta a Palazzo Chigi, è per così dire neo-cooptato all’interno della politica economica del governo, ma non soltanto per la moderazione salariale, bensì anche per riforme non della politica dei due tempi – come tu dicevi all’inizio – ma per riforme contestuali date dal governo in contropartita, per così dire, della moderazione salariale.
Un modello centralizzato che però – come tu appena ci ricordavi – può essere anche decentrato a livello dei consigli di fabbrica per quello che riguarda le gerarchie, la divisione del lavoro, le strutture aziendali. C’è posto per tutti purché i due ruoli, quello del sindacato centralizzato a Palazzo Chigi, quello del consiglio di fabbrica decentrato a livello della singola azienda, siano chiaramente distinti.
Ecco, in questo contesto – che sostanzialmente poi ci riporta al discorso sulla predeterminazione dell’inflazione in Italia, come esso è stato affrontato negli ultimi due o tre
anni – volevo chiederti cosa ne pensi delle varie proposte di rientro dall’inflazione in Italia, e cioè in che modo tu pensi che si possa affrontare il problema di un rientro serio, ma anche equo, nei riguardi non soltanto degli operai ma anche degli impiegati, e nei riguardi delle istanze delle riforme che si pongono in questo Paese. Come pensi che questo problema possa essere affrontato in Italia?
Caffè
Ti ho detto che non sono uno specialista delle formule, proprio tu vuoi cacciarmene una! Io vorrei dire – prima di tutto preferirei che si parlasse di neo-corporatismo, tanto proprio per evitare una parola che, avendo io vissuto quei tempi, mi risulta ancora adesso antipatica – l’importante è che ci sia un’intesa che cerchi di tener conto – la parola è antipatica ma dobbiamo pronunciarla, anche questa è degli economisti – della compatibilità tra le grandezze economiche.
Ecco, la formula che a me pare opportuna è soprattutto quella della lealtà; quella, vale a dire, per cui questi sacrifici debbano avvenire in maniera che a tutti quanti i livelli sia trasparente, che qualche cosa si stia muovendo sul terreno della disoccupazione giovanile, che qualche cosa si stia muovendo sul terreno della maggiore giustizia fiscale, che qualche cosa si stia muovendo sul problema di una politica attiva della manodopera e della qualificazione professionale.
È inutile che ci facciano della retorica e dicano che diventeremo nel futuro la California dell’Europa; ma come si possono dire delle cose demagogiche di questo genere, quando nello stesso periodo di tempo non facciamo niente per la qualificazione professionale, non facciamo niente di serio, senza attribuire la colpa all’Università, al modo in cui funziona la ricerca. La realtà è che mancano i mezzi, in definitiva, e che queste strutture non si mettono in moto.
Io ho molta fiducia, cioè sarei anche persuaso che i lavoratori sono ben disposti pure ad accettare non soltanto la tutela del salario reale ma anche una lieve riduzione del salario reale se avessero una garanzia corrispondente di un miglioramento delle condizioni occupazionali, che sono quelle dei loro figli, dei loro nipoti, dei loro parenti. E vedessero che questo avviene effettivamente. È il fatto di girare intorno ai problemi e di non affrontarli con concretezza, che mi lascia piuttosto scettico su queste proposte, pur concordando che ovviamente ogni sforzo serio debba essere fatto per un rientro serio dall’inflazione.
Tarantelli
Su questa nota circa la necessità di una politica dei redditi, con contropartite serie, eque ed efficaci date ai lavoratori e al sindacato su cui, come tu ben sai, anche io mi sono battuto in
questi anni difficili – credo che possiamo concludere.
Fonte: Cisl scuola
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