Il movimento francese del '95 e quello attuale, tra sinistra ultraliberista e post-fascisti che mostrano il volto di sempre

Nel 1995 si aprì in Francia un ciclo di conflitto sociale più intenso di quello attuale. Andando a memoria e rischiando quindi qualche imprecisione, possiamo dire che quel movimento durò all’incirca due anni, generò ampi fenomeni di guerriglia urbana e, malgrado i grossi disagi dovuti agli scioperi a oltranza di trasportatori e controllori di volo, ottenne un certo consenso presso l’opinione pubblica. Di lì a poco, il governo Juppé di centrodestra cadde e s’insediò il PSF guidato da Lionel Jospin. Quest’ultimo si fece carico di traslare in senso riformista alcune istanze di quel movimento istituendo, fra le altre cose, la giornata lavorativa di 35 ore a parità di salario.

Questa vicenda fu l’ennesima dimostrazione di come un dato che sarebbe in teoria visibile da chiunque, viene invece negato a causa della sedimentazione di letture ideologiche della realtà. Il dato, semplicissimo, è che rivolta di piazza e riformismo non sono mai stati paradigmi politici autosufficienti: per ottenere risultati parziali ma concreti, l’una ha bisogno dell’altro. Se c’è una cosa rispetto alla quale bisognerebbe davvero liberarsi del Novecento, è proprio questo mito di autosufficienza che – riformisti da una parte e antagonisti dall’altra – proiettano mendacemente sulle loro rispettive dottrine.

Più in generale, quella fase della storia francese rappresentò l’unico – quantunque temporaneo – contrattacco al liberismo verificatosi in Europa occidentale nell’ultimo trentennio. Oggi, ancora una volta in Francia, si sta verificando una mobilitazione di massa incentrata sulla contrapposizione alle politiche liberiste. Il punto, però, è che la situazione appare molto più disperata giacché non si delinea all’orizzonte un possibile sbocco politico, una modificazione istituzionale dei rapporti di forza. Lo stesso partito che nel ’95 fece da interlcutore al movimento – il PSF – è infatti oggi promulgatore dell’ultra-liberismo.

Vi è poi il partito politico che raccoglie, attualmente, la maggioranza del voto operaio e proletario in Francia, ovvero il Front National. Ebbene, Marine Le Pen era stata l’unica leader di storia e formazione culturale fascista a essersi espressa in termini espliciti contro il liberismo. Senonché, adesso, dinanzi a una mobilitazione reale contro una legge liberista, la Le Pen non ha trovato di meglio che invocare la repressione contro il movimento perché, a suo dire, “generante violenza e degrado”.

A quanto pare, alla leader che raccoglie il maggiore consenso presso gli operai interessa assai poco contrastare il liberismo e interessa assai più – come da sempre accade con fascisti e post-fascisti – vellicare gli istinti legge-e-ordine, farsi portavoce del punto di vista piccolo-borghese del genere “signora mia, dove andremo a finire con tutti questi capelloni”. Ai miei tanti contatti rossobruni – cioè quelli che sostengono la tesi del superamento della dicotomia fascismo-antifascismo in ragione della presunta e comune matrice anticapitalista di “rossi” e “neri” – suggerisco di riflettere e di chiedersi: in quest’occasione, posta di fronte a una mobilitazione reale di lavoratori reali, Marine Le Pen si è forse dimostrata avversa al capitalismo?

Il punto, quindi, è che questo movimento francese rischia di non lasciare nulla di concreto, di limitarsi alla mera testimonianza. E questo perché esso si trova di fronte allo stesso problema politico immenso, gigantesco, in cui si trova l’Italia: la causa dei problemi sociali è il liberismo, ma nessuna formazione anti-liberista è presente sulla scheda elettorale.

Oggi, la nostra “scelta” democratica consta del poter votare quale partito liberista debba governare: possiamo infatti votare per i liberisti duri e puri, per i liberisti compassionevoli, per i liberisti vicini al cittadino e così via. Né più né meno di quello che accade in Iran, dove gli elettori sono “liberi” di scegliere fra ayatollah progressisti e ayatollah conservatori.