Multiculturalismo, sradicamento, americanizzazione
di SEBASTIANO CAPUTO (giornalista)
L’enraciment (Il radicamento) Simone Weil avrebbe potuto pubblicarlo oggi e invece lo scrisse nello storico Café Flor di Parigi. Era il 1943. Con sessant’anni di anticipo raccontava la Francia dei nostri giorni, quella urbana, metropolitana, cosmopolita, post-industrializzata. La trasformazione delle grandi città – Parigi, Marsiglia, Lione -, la nascita delle banlieues (quartieri periferici), la distruzione dei bistrot e delle botteghe tradizionali.
E’ la parabola di tutte metropoli d’Occidente dal Piano Marshall (1945) passando per il Sessantotto (1968), dove la città diviene sempre meno rappresentativa dello spirito profondo della nazione. In Francia però, questo snaturamento, appare più evidente che altrove in Europa.
Da un lato c’è il fattore demografico – le grand remplacement (la grande sostituzione) lo chiamano Oltralpe -, legato al passato coloniale e alle politiche immigrazioniste pianificate entrambe dalla sinistra repubblicana e progressista, che vede le popolazioni magrebine e africane insediarsi nelle città, dall’altro c’è quello economico-simbolico, in un Paese colonizzato integralmente da marchi e prodotti-spazzatura statunitensi (dalla ristorazione al vestiario, dal Mc Donald ai jeans).
In Europa i guardiani della pensée unique lo chiamano “multiculturalismo” (convivenza di culture diverse), ma in realtà questi due elementi (le grand remplacement e la colonizzazione economica) sono perfettamente complementari e finalizzati all’americanizzazione dell’immigrazione che è in fondo sinonimo di sradicamento. Diremo noi con un sillogismo: il multiculturalismo porta allo sradicamento e lo sradicamento conduce all’americanizzazione dei costumi.
“Il denaro distrugge le radici ovunque penetri”, annotava Simone Weil insistendo sul valore sacro del radicamento: “Un essere umano possiede delle radici attraverso la sua partecipazione reale, attiva e naturale all’esistenza di una collettività, che mantiene viva i suoi tesori del passato e alcuni presentimenti dell’avvenire”.
Le popolazioni immigrate rappresentano l’opposto teorizzato dall’allieva di Heidegger. Un gruppo sociologicamente sfruttato (il più delle volte fa lavori a basso costo che i francesi non fanno), analfabeta (non parlano il francese correttamente), non integrato (si auto-esclude oppure viene marginalizzato nelle banlieues), parassitario (molti non lavorano e vivono di sole sovvenzioni statali), disorganizzato (non occupano posti chiave nell’apparato statale e dunque incidono poco sulle decisioni politiche), e soprattutto vengono manipolati dal sistema economico e cultural-mondano (i loro desideri sono quelli fabbricati dal mercato).
Le nuove popolazioni non portano con loro la propria cultura, ma lo sradicamento. Ecco perché ogni immigrato è un potenziale iper-consumatore che aspira all’american way of life.
Se Simone Weil attraversasse oggi Parigi in metrò non vedrebbe donne africane vestite con splendidi abiti tradizionali ma delle fotocopie di Rihanna o Beyoncé. Come non vedrebbe uomini di fede islamica con un Corano in mano, ma dei racailles (ragazzo della banlieu), pura imitazione del gangster bling bling americano. Non esiste il multiculturalismo perché si è americanizzato.
Il passo successivo è il melting-pot di marchio statunitense: un mondo di plastica nel quale viene forzata la fusione tra la popolazione locale e quella immigrata. Oppure avrà ragione Céline: “me ne fotto dei posteri, il futuro appartiene ai cinesi”.
Fonte: L’Intellettuale Dissidente
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