Storia, geopolitica, calcio: non imparano mai. E noi?
di SIMONE GARILLI (FSI Lombardia)
Il declino geopolitico italiano viene da lontano. Per limitarci alla storia moderna, possiamo dire che fin dal XV secolo l’Italia è preda di intricati interessi esteri, espressi sia in forma militare che in forma economica e culturale.
In epoca contemporanea il processo non si è invertito, e gli Stati Uniti, nuovo attore globale nel XX secolo, non hanno fatto altro che sostituirsi, in buona parte, al precedente dominio sull’Italia di alcune grandi potenze europee.
La costante, perlomeno negli ultimi seicento anni, è quindi che le classi dirigenti nazionali – con varie gradazioni e nonostante qualche parentesi storica di maggiore autonomia – sono subordinate a classi dirigenti esterne. Insieme alle classi dirigenti nazionali sono naturalmente subordinati anche i cosiddetti ‘dominati’, siano essi proletari, piccolo borghesi o borghesi, per utilizzare categorie un tantino invecchiate.
La subordinazione più interessante è quella ideologico-culturale. L’esterofilia di una larga fetta di italiani è fenomeno noto, da molti rivendicato con orgoglio idiota e ignorante. La formula di questi italiani senza patria è più o meno questa: [tutti x – me stesso] dove al posto della ‘x‘ si scrive, in ordine di frequenza, ‘ladri’, ‘corrotti’, ‘incompetenti’, ‘incivili’, ‘terroni’, ‘ignoranti’, ‘raccomandati’.
È la formula dell’autorazzismo, che si accompagna alla solita idiota retorica della superiorità morale, politica, economica, culturale degli altri Paesi, retorica che a sua volta si limita solo al civile Occidente, arretrando davanti ai bruti asiatici, latinoamericani, africani e mediorientali, considerati, tutto sommato, ancora più ladri, corrotti, incompenti, invicili e terroni degli italiani.
È una retorica, come si sarà capito, di natura geopolitica. Non vi sfuggono altri Paesi subordinati come la Grecia, la Spagna e il Portogallo, e persino in Francia e in Finlandia, negli ultimi anni, questa retorica anti-patriottica e disgregante ha funzionato da ariete per aprire la strada ai successivi tagli al settore pubblico, dipinto come ‘inefficiente’, ‘sprecone’, ‘non competitivo’.
Mi sembra di poter dire, però, che in Italia questa retorica sia particolarmente potente. Sarà forse che il lungo declino italiano segue cronologicamente una storia politica, economica e culturale di livello assoluto, direi senza eguali, e anche che la penisola è, nel XX secolo, crocevia strategico tra l’Europa, il Nord Africa e il Medio Oriente, tutti scenari decisivi nel contesto del dominio Usa. Ne deriva la necessità di strozzare sul nascere qualunque afflato di autonomia nazionale che non sia strettamente necessario (come lo è stato invece nella Prima Repubblica, per scongiurare la possibile transizione dell’Italia verso est).
Sia come sia, questa retorica, che è un vero e proprio morbo in fase metastatica, va abbattuta. Pena la disgregazione, prima o dopo irreversibile, del tessuto sociale, economico e politico nazionale, già in fase avanzata.
Ma ora parliamo di calcio, perché, come noto, è nel calcio che l’Italia ritrova ancora quell’unità di intenti che in altri campi ben più ‘pesanti’ non esprime da lungo tempo. Nemmeno il calcio è impermeabile all’autorazzismo. Prima di ogni manifestazione di una certa importanza (Mondiali o Europei) si è soliti seguire la corrente internazionale, che dipinge immancabilmente la nostra selezione nazionale come ‘mediocre’, ‘sfavorita’, ‘inaffidabile’, ‘declinante’.
Dopo le sconfitte prevale il disfattismo, ma c’è addirittura chi dopo vittorie grandiose si preoccupa di individuare pericolosi segnali di imminente declino, salvo poi tentare la scalata al famoso carro del vincitore.
Non mi interessa come andranno a finire, per l’Italia, gli Europei 2016. Sono iniziati bene, ma non è questo il punto. Il punto è che dopo una vittoria talmente convincente da non poter essere in alcun modo ridimensionata, essendo stata perdipiù ottenuta contro un forte avversario, la stampa estera si accorge che “L’Italia è eterna” (L’Equipe), “mostruosamente solida e intelligente” (Le Figarò), con “una difesa impenetrabile” (Daily Mail), “impressionante” (Guardian), “brillante, completa, un capolavoro tattico” (The Times) e il Sun deve riconoscere che “forse questi italiani non sono poi così male come tutti avevano pensato”.
Stiamo parlando, per la cronaca, di una Nazionale che ha vinto 4 Mondiali (seconda solo al Brasile, con 5) e 1 Europeo. È quindi, insieme alla Germania, la principale e storica potenza calcistica europea. Va detto che i successi sono ben distribuiti nel tempo e non appartengono tutti al passato remoto. Dopo i Mondiali del 1934 e del 1938 e l’Europeo del 1968, l’Italia ha vinto anche i Mondiali del 1982 e del 2006, ed è arrivata in finale ai Mondiali del 1994 e agli Europei del 2000 e del 2012, e in semifinale nei Mondiali del 1990. Sempre sugli scudi, con qualche fisiologica battuta d’arresto.
In nessuno dei successi più recenti (diciamo dal 1968 in avanti) l’Italia aveva i calciatori più forti. In tutti, però, ha saputo primeggiare per organizzazione tattica e difensiva, sconfiggendo a ripetizione selezioni più attrezzate (la Germania non vince in competizioni ufficiali con l’Italia da molti decenni, mentre con il Brasile c’è più equilibrio).
Nei vincenti Mondiali del 2006 l’Italia subì 2 gol in 7 partite e per la prima volta, o quasi, grazie ad un Mondiale un difensore di ruolo vinse il Pallone d’Oro (Fabio Cannavaro) e un portiere arrivò secondo (Gianluigi Buffon).
Tanto basterebbe per mostrare immenso rispetto alla selezione italiana anche quando essa arrivasse ai grandi appuntamenti con meno talenti individuali del solito, come quest’anno. Ma non basta mai, perché prevale sempre e comunque la retorica anti-italiana, all’esterno come, purtroppo, all’interno. Almeno fino alla prova del campo, che in tantissime occasioni racconta ben altra storia.
Ricostruire un’ideologia patriottica è urgente e necessario. Il calcio sia di esempio della pochezza dell’ideologia anti-italiana e anti-patriottica, praticata all’esterno come all’interno dei nostri confini.
Fuori non impareranno mai, perché non possono e non vogliono imparare. Ma noi, quando impareremo?
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