La "nuova cosa" del cinema Italiano
di RICCARDO PACCOSI (FSI Bologna)
Con un certo ritardo, ho finalmente visto anch’io il film italiano di cui più si è parlato negli ultimi mesi, ovvero “Lo chiamavano Jeeg Robot”.
Beh, sono rimasto letteralmente SCONVOLTO dalla visione di quest’opera.
Non mi pare il caso di aggiungere una recensione alle tantissime che già sono state scritte, però mi premono quattro considerazioni generali:
1) Ritengo che “Lo chiamavano Jeeg Robot” sia il più grande film italiano degli ultimi vent’anni. A sostegno di tale affermazione, potrei scrivere un elenco di argomentazioni – tecniche, stilistiche ed estetiche – lungo quanto un’enciclopedia.
2) Quel che mi pare pochi abbiano rilevato, è quanto sia intensa e strutturata la poetica del film. In parole povere, è un’opera che fa emozionare e commuovere.
3) Se diciamo che il film mescola crime story, cinecomic americano e memoria storica dei primi mecha trasmessi in tv (cartoni animati giapponesi coi robottoni), sembrerebbe che ci troviamo di fronte alla solita estetica da “pastiche” postmoderno. E invece non è così. Questa pluralità di fonti e ispirazioni narrative, infatti, giunge a una superiore sintesi – a un qualcosa che supera l’ibridazione fine a se stessa tipica del postmoderno – e che lascia presagire un paradigma estetico nuovo ma che non saprei definire.
4) Al di là della componente supereroistica/favolistica, il contesto stilistico e narrativo di base è quello d’una crime story imparentata con “Gomorra” di Sollima e con “Non essere cattivo” di Caligari. Segno evidente che, quello che in tanti abbiamo atteso per decenni, si sta materializzando sotto i nostri occhi: il Rinascimento del cinema italiano attraverso il genere.
Come possa essere definita questa “nuova cosa”, però, è tutto da stabilire. A me sembra che, malgrado l’uso di scenari urbani riconoscibili e parlate dialettali, vi sia una fuoriuscita non soltanto dalla commedia all’italiana, ma anche da vari retaggi realistici.
Abbiamo infatti visto, negli ultimi decenni, brutte commedie nostrane che pretendevano di rappresentare la società e, invece, rappresentavano a malapena la borghesia di sinistra che lavora a Cinecittà. Il filone cinematografico di Mainetti e Sollima, invece, ricolloca il proletariato al centro della narrazione e in parte lo reinventa: è un proletariato che ha infatti componenti iperrealistiche e favolistiche insieme, come da insegnamento pasoliniano. Dando centralità alla classe proletaria, inoltre, questo cinema oltrepassa e seppellisce il retaggio di Nanni Moretti; quest’ultimo era, difatti, espressione compiaciuta della tramontata fase della cetomedizzazione. Io non so se la “nuova cosa” possa essere chiamata post-realismo ma, in ogni caso, tornando a essere “pura storia” il cinema italiano si libera dall’asfissiante legame con la tardo-borghesia progressista e torna a parlare un linguaggio universale.
“Recensione” inaspettata e interessante, con la quale concordo abbastanza, anche se non mi appartiene, soprattutto oggi, spingere ancora sulla suddivisione borghesia/proletariato data la sostanziale “novità” rappresentata, in tema di divisione sociale, fra chi fa parte od è servo delle lobby, oligarchie politico-burocratico comprese e tutto il resto della società.
Metterei inoltre nelle interessanti “novità” anche il bel “Smetto quando voglio”.