Il contributo dei patrioti Arbëresh al Risorgimento (1a parte)
di GIUSEPPE FERRARI (storico e teologo)
Parlare del contributo degli Arbëresh [gli Albanesi d’Italia, ndr] alla grande Causa Nazionale non è soltanto fare la storia del gesto di Agesilao Milano o delle gesta di Pasquale Baffi, di Mons. Bugliari, dei Pace, dei Mauro, di Damis e di tanti e tanti altri. Costoro non furono che dei valorosi capi di numerose schiere di combattenti, condotti sì da essi alla battaglia, ma non sempre da essi organizzati. In moltissimi villaggi gli organizzatori delle colonne albanesi erano i preti e molte case di sacerdoti erano centri di società segrete. Ad approfondire poi la storia degli italo-albanesi in questo periodo, bisognerebbe far luce completa sulle due maggiori figure di vescovi albanesi: Francesco Bugliari da S. Sofia d’Epiro e Domenico Bellusci da Frascineto.
Il primo, conterraneo, parente e coetaneo di Angelo Masci e di Pasquale Baffi; il secondo, educatore della numerosa e gloriosa schiera di albanesi, alunni del Collegio Corsini in San Demetrio Corone, che presero attiva parte ai movimenti dal ’48 al ’60 e in seguito. Garibaldi stesso rimase impressionato e commosso nel suo passaggio a Cosenza e a Castrovillari, vedendo gruppi di sacerdoti, con barba e capelli lunghi, rivestiti di abiti dalle ampie maniche, con in capo il caratteristico cappello bizantino e con una fascia rossa di circostanza attorno al collo, che, per festeggiare l’eroe, erano convenuti dai paesi vicini, portandosi appresso tutta una sterminata folla plaudente. A Cosenza, visto uno di questi preti, il più scalmanato di tutti, Antonio Baffa di S. Sofia d’Epiro, chiese al Prefetto Morelli chi fosse e, saputolo, corse a stringergli calorosamente la mano.
La storia del movimento risorgimentale, non solo degli ambienti albanesi ma di tutta la Calabria superiore, si confonde con la storia del collegio di S. Adriano, in S. Demetrio Corone. La sede dell’Istituto divenne il centro della Carboneria. Il maggior poeta albanese, Girolamo De Rada, figlio del parroco di Macchia e proprio in quegli anni alunno dell’Istituto, fa notare, nella sua autobiografia, come accanto ai libri che il conformismo del tempo rendeva d’obbligo e ai libri d’ispirazione religiosa, sotto lo sguardo compiacente del vescovo-presidente Mons. Bellusci, si introducessero e si diffondessero tra gli alunni, i libri delle nuove idee. Per i Borboni oramai il collegio costituiva una spina all’occhio e lo si chiamava «l’officina del diavolo». Gli albanesi furono soci in tutte le nobili imprese e piace soffermarmi su alcune soltanto delle gesta gloriose e sui principali personaggi.
Arriviamo così ai massacri cosentini del 1844, in cui trovarono la morte i fratelli Bandiera. E qui credo opportuno fare l’elenco degli italo-albanesi, che, in quella circostanza, subirono condanne varie: 21 furono condannati alla pena capitale, dei quali erano albanesi 15 e precisamente: Raffaele Camodeca di anni 25 da Castroregio; Giuseppe Franzese di anni 44 da Cerzeto; Francesco Tavolaro di Domenico di anni 26, da S. Benedetto Ullano; Federico Franzese di anni 25 da Cerzeto; Gianfelice Petrassi di anni 24 da Cerzeto; Carlo Mosciaro di anni 21, da San Benedetto Ullano; Vincenzo Barsi di anni 30, da S. Benedetto Ullano; un secondo Francesco Tavolaro fu Gennaro, di anni 21, da S. Benedetto Ullano; Giuseppe Tavolaro Costa di anni 25, da S. Benedetto Ullano; Giovanni Manes di anni 28, da S. Benedetto Ullano; Saverio Fullone di anni 22, da S. Benedetto Ullano; Antonio Pinnola di anni 35, da S. Benedetto Ullano; Orazio Fullone di anni 22 da S. Benedetto Uilano; Gaetano Barci di anni 34, da S. Benedetto Ullano; Giuseppe Parisi di anni 24, da Cerzeto. Per grazia sovrana ad alcuni fu commutata la pena e dei ventuno condannati, 1’11 luglio 1844 alle ore 22, furono fucilati quattro, di cui due albanesi, il Camodeca e Franzese Giuseppe. Anche Antonio Raho di Cosenza doveva essere fucilato, ma preferì morire precedentemente, avvelenandosi con le proprie mani. Offrì pure al Camodeca del veleno, che rifiutò e affrontò coraggiosamente la morte, gridando all’ultimo istante: «è questo il giorno più bello della mia vita! Viva l’Italia!».
In quel medesimo processo, 10 venivano condannati a 30 anni di ferri ed altri 12 ad anni 25. Di costoro erano albanesi: Gaetano Tocci di anni 25, da S. Benedetto Ullano; Michele Candreva di anni 26, da S. Benedetto Ullano; Domenico Sarri di anni 26, da S. Giacomo; Angelo Mazzucca di anni 19, da S. Benedetto Ullano; Giuseppe Pollera di anni 27; Raffaele Matrangolo di anni 23; Domenico Gliosci di anni 37; Domenico Franzese di anni 74; Ferdinando Franzese di anni 32; Domenico Matrangolo di anni 28, tutti da Cerzeto. Sei anni di reclusione si ebbe, tra gli altri, Domenico Petrassi da Cerzeto. Assolti con formula dubbia: Pasquale Conforti, Pietrangelo e Cesare Migliani, da S. Benedetto Ullano. Assolti con formula piena altri due albanesi: Agesilao Mosciaro e Giuseppe Tavolaro Bellocchio di S. Benedetto Ullano.
Ma i processi e le condanne non finirono qui. Anche Domenico Mauro fu arrestato e messo a disposizione della polizia. Il coraggio però, che dimostrarono le vittime, commosse tutta la Calabria. Già dissi come il Raho avesse preferito il veleno, ma qui debbo aggiungere che, prima della morte, i condannati avevano a lungo discusso se fosse più glorioso per la Patria darsi volontariamente la morte. Contro il parere del Raho, sostennero gli albanesi Camodeca e Franzese, che quella morte era atto di debolezza e non di coraggio; soltanto il sangue versato dal. nemico o dal boia sarebbe stato fecondo per la Patria. E quando dal vallone Rovito si sentì l’eco degli scarichi di fucile e dell’ultimo grido dei Martiri “Viva l’Italia!”, il loro viso non fu preda del terrore, ma brillò di gioia. Era questa gioia, ancora una volta, come quella del Baffi, come quella del Bugliari, espressione di gratitudine degli albanesi all’Italia vera, all’Italia degli Eroi e questa Italia rispose unanime con l’eco del grido dei Martiri: “Viva l’Italia!”. I loro corpi furono sepolti nella Chiesa di S. Agostino e nel 1848 degnamente sistemati. Né la sete di sangue si estinse. Il 25 luglio, nello stesso vallone Rovito, cadevano i fratelli Bandiera e i loro compagni.
Un fremito di sdegno percorse l’intera Europa per i tristi avvenimenti di Cosenza. Improvvisamente il re e la regina di Napoli scendono in Calabria e il 10 settembre di quello stesso anno compaiono a Paola. La ragione ufficiale di quella visita, si disse, era un voto fatto dai sovrani a S. Francesco. In realtà essi volevano smentire le notizie, che circolavano in Europa, sull’odio ormai insanabile dei calabresi verso il governo. Un’ora dopo lo sbarco, essi prendevano la via di Cosenza. Il popolo rimase chiuso in casa. La stessa stampa ufficiale era costretta, a denti stretti, ad ammetterlo quando scriveva queste poche parole: «l’augusta coppia partiva per Cosenza e poi alle 6,30 antimeridiane era partita per Roggiano».
La redazione del giornale «Il Calabrese», tenuta da uomini insigni per cultura e spirito liberale, continuava, nonostante tutto, a mantenere alta la fiamma della libertà, anche se fattasi più cauta dalle circostanze. Non mancavano nella redazione gli albanesi. Tra i molti, cito l’illustre Prof. Vincenzo Dorsa, insigne letterato e benemerito della cultura albanese, sacerdote greco e docente al liceo Telesio, nipote del vescovo Bellusci. Era tra i maggiori esponenti delle società segrete. Ecco con quanta cautela scrive in uno dei tanti suoi articoli .di stampa: «Chi non vede gl’immensi vantaggi provenuti da Dante e da Vico al secolo nostro e la rivoluzione da loro mossa negli ingegni di tutta Europa? Il secolo XIX dal sorgere della letteratura dopo la lunga barbarie che ne aveva spenti i semi è il solo che ha compreso i grandi uomini, il solo che può dirsi il compimento delle fatiche di sei secoli…». Anche Cesare Marini, altro insigne nostro studioso di S. Demetrio Corone, scriveva un suo studio in «Selva Bruzia» dove egli ricordava ai calabresi tutti i torti sofferti dai passati e dai presenti governi. Nicolò Jeno dei Coronei pubblicò un volume dal titolo «Il Sollievo del Povero», che nel linguaggio segreto dei carbonari della provincia voleva significare «la redenzione del popolo». Il Regaldi, tra le lezioni che tenne a Cosenza, ne svolse una su Marco Botsazi, tema caro agli albanesi e come atto di omaggio alla attività di questi.
Nel 1847 la rivolta divampava in tutta la Sicilia. Anche qui non sono assenti gli albanesi, come Emanuele Bidera, Gabriele Dara e tanti altri. Su tutti primeggia Francesco Crispi. Il grande statista nacque a Bidera, in provincia di Agrigento, dove la famiglia si era trasferita per affari. Ma i Crispi sono oriundi di Palazzo Adriano, uno dei quattro paesi albanesi della Sicilia e il nonno paterno dell’uomo politico, da cui il nipote ha preso il nome, era sacerdote greco. Fu il nonno a provvedere all’educazione del nipote nel seminario greco-albanese di Palermo. Nel 1838, già avvocato, Crispi fonda a Palermo «l’Oreteo», giornale di varia letteratura, esercitando contemporaneamente la professione forense. Nel 1831 cessa la pubblicazione, abbandona la professione ed entra nella magistratura a soli ventitré anni. Ma nel 1842 ha un violento scontro verbale col Procuratore Generale.
L’incidente mette bene in risalto la figura del Crispi. Il Procuratore Craxi sostiene che il re di Napoli ha facoltà in Sicilia di imporre tasse per diritto divino; il Crispi insorge con violenza, sostenendo che esse debbono venire soltanto dalla rappresentanza nazionale siciliana. Il Craxi lo richiama all’ordine, ma il giovane magistrato si ribella. Con parole sdegnose si dimette e abbandona l’aula e la carica. A Napoli, dove si trasferisce, conosce e prende contatto con la numerosa colonia albanese, tra cui lo stesso De Rada, Angelo Basile e Vincenzo Turella, quest’ultimo albanese di Barile della Lucania, che in quel tempo dirigeva il giornale letterario «Omnibus». A Napoli, tramite gli elementi calabro-albanesi, il Crispi entrò a far parte delle società segrete e dei Comitati Patriottici ed è precisamente in questi circoli che la sua attività e le sue concezioni a sfondo piuttosto regionalistico si trasformano in idee unitarie. Questa trasformazione da lui subita al contatto con i calabro-albanesi, sarà in seguito la guida di tutta la sua attività patriottica e lo condurrà ai fastigi del governo.
L’insurrezione calabrese e la repressione che ne seguì lo commossero profondamente e lo spinsero a maggiore azione. Nel ’46, quando l’insurrezione divampava sempre più nel regno, Crispi doveva essere arrestato ma, accortosi per tempo, riesce a mettersi in salvo. Nel dicembre del ’47 corre a Palermo per predisporre tutto alla riscossa e il 12 gennaio 1848 scoppia la sommossa. In tutti questi avvenimenti egli dimostrò eccezionali qualità organizzative e non fa meraviglia se nel ’60 lo vedremo come una delle menti più lucide dei Mille. Il 27 gennaio fonda il suo secondo giornale, «L’ Apostolato», che ha come motto «nous marchons» e come programma «la propagazione del culto della Patria; diffondere i lumi della redenzione; predicare le dottrine della fratellanza evangelica degli uomini e dei popoli, fondata sulla uguaglianza, sulla libertà, sulla giustizia…».
Il 24 marzo si apre il Parlamento generale siciliano. Egli, deputato di Ribera, siede alla Camera dei Comuni, mentre nella Camera Alta siede lo zio Mons. Giuseppe Crispi, fratello del padre, vescovo di rito greco e docente all’Università di Palermo. Il deputato siede all’estrema sinistra ed è il più tenace nel richiedere la proclamazione della decadenza di Ferdinando Il, ciò che le due Camere votano all’unanimità il 13 aprile. L’8 dicembre egli fautore di una costituente italiana, di cui faccia parte la Sicilia. Siamo all’idea unitaria. Dopo il rovescio del ’49, si allontana il 7 maggio esule da Palermo, dove ritorna il 6 maggio del ’60, per riportarvi l’Italia.
Sotto la pressione degli avvenimenti, Ferdinando Il, il 29 gennaio 1848, fu costretto a concedere la costituzione, giurandola poi solennemente il 10 febbraio successivo. Il tripudio e l’entusiasmo della Calabria fu indescrivibile. A Cosenza si cantò un Te Deum in cattedrale e un albanese, Alessandro Marini, tenne il pergamo. Furono estratti dal carcere i detenuti politici e si diede solenne e onorata sepoltura ai Martiri del ’44, portati processionalmente in cattedrale. Alla cerimonia numerosissimi gli albanesi di tutto il versante che gravita attorno a Cosenza. Ma non meno numerosa la presenza dei casali che gravitano attorno a Castrovillari, ridente cittadina alle falde del Pollino, verso il confine con la Lucania. A capo dei liberali di questa vastissima zona vi è ancora un albanese: Muzio Pace. Fu questi a fondare a Castrovillari la guardia nazionale e a prendere le funzioni del sottintendente, facendo partire il titolare borbonico.
[continua]
[“Rassegna di studi albanesi”, novembre-dicembre 1960, n. 1]
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